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Sandro Mezzadra: Nei cantieri marxiani
di Girolamo De Michele
Sandro Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, Manifestolibri, 2014, pp. 158
In questo testo, definito dall’Autore un “piccolo libro”, viene proposta un’interpretazione del pensiero di Marx che prende congedo dal “sistema-Marx”, e più in generale da ogni tentativo di sistematizzare e “accademicizzare” il filosofo di Treviri, seguendo un consiglio di lettura di Michel Foucault, che nelle letture orientate a “far funzionare Marx come un autore” vedeva un misconoscimento della “rottura che ha prodotto” (p.7). Il taglio interpretativo di Mezzadra mette al centro la questione della “produzione di soggettività“, espressione che ha sempre un duplice significato, poiché rimanda sia ai processi di assoggettamento che a quelli di soggettivazione. Il libro, scaturito da un corso universitario, ha una densità teorica inversamente paragonabile alla sua mole: se da un lato taglia il campo delle interpretazioni, finendo per mostrare una sorta di biblioteca personale dell’autore; dall’altro, nel far proprio un metodo che deriva dal post-strutturalismo francese e dalle letture italiane dei Grundrisse, si confronta non solo con i temi foucaultiani, ma anche, in filigrana ma in aperta contrapposizione, con il pensiero di Heidegger. Nondimeno, l’origine discorsiva del testo gli conferisce una certa scorrevolezza di lettura, a dispetto della gravità dei temi: che, è bene dirlo subito, sono affrontati avendo sottocchio quello “stato di cose presente” la cui critica – e il cui rovesciamento – era per Marx il fine della filosofia.
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Il QE di Draghi: tanto rumore per nulla?
di Thomas Fazi
Su un punto esperti e commentatori si sono trovati d'accordo. La questione non è tanto se fare o no il Quantitative Easing o meno ma come lo si fa. Tutti i dettagli del programma
Infuria il dibattitto sul programma di quantitative easing (esteso ai titoli di stato) annunciato da Draghi il 22 gennaio. Su un punto esperti e commentatori si sono trovati pressoché tutti d’accordo: la questione non è tanto se fare il QE o meno – meglio farlo che non farlo –, ma come lo si fa. E infatti il dibattito riguarda più i dettagli del programma che l’acquisto di titoli di stato di sé. Vediamo allora quali sono gli aspetti salienti – e più discussi – del piano Draghi:
La durata:
Draghi ha dichiarato che il piano di acquisto titoli partirà a marzo e proseguirà fino a settembre 2016 e comunque fino a quando l’inflazione non tornerà a livelli ritenuti coerenti con gli obiettivi della Bce. Il fatto che il presidente della Bce abbia esplicitamente legato il piano all’obiettivo inflazionistico della banca centrale è stato accolto positivamente da quasi tutti i commentatori, in quanto questo offre a Draghi un ampio margine di manovra per portare avanti il programma per tutta la durata che ritiene necessario. Allo stesso tempo, , è importare notare che Draghi è stato attento a non fissare l’obiettivo in termini di tasso inflazionistico ma di “andamento dell’inflazione”, il che vuol dire che il numero uno della Bce potrebbe porre fine al programma anche se l’obbiettivo inflazionistico della Bce di “poco meno del 2%” non risultasse raggiunto a settembre 2016.
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Privatizzazioni italiane
Una storia di insuccesso da portare a termine
Mario D’Aloisio
Riceviamo e nuovamente pubblichiamo una interessante riflessione di Mario D’Aloisio
Messa in archivio la partita del Colle, Matteo Renzi torna ad occuparsi di economia, e lo fa organizzando a Roma un raduno di due giorni coi principali investitori internazionali per mettere sul piatto quel che rimane della grande impresa pubblica italiana (Eni, Enel, Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, Finmeccanica) in cambio di denaro liquido. A scriverlo è Bloomberg , secondo cui alla conferenza, patrocinata da UniCredit, saranno presenti anche emissari del Tesoro e della Cassa depositi e prestiti. L’obiettivo ufficiale del Governo italiano, condiviso con Bruxelles, è quello di accelerare il processo di privatizzazioni per raccogliere fondi destinati alla riduzione del debito pubblico, in conformità col patto di stabilità e crescita. Questa dunque la notizia, da tempo nell’aria. A questo punto sembra tuttavia doveroso un cenno a quel che hanno rappresentato le privatizzazioni italiane, condotte “da sinistra”, a partire dalla firma del Trattato di Maastricht e negli anni a seguire, soltanto per comprenderne la natura ambigua, oltre che gli effetti del tutto negativi in termini di opportunità economica. In quanto leader del Partito Democratico Renzi ha soltanto imboccato una strada già battuta dai sui predecessori. Vediamo di capire come.
La sinistra dopo Maastricht
Gli anni che seguirono al Trattato di Maastricht inaugurarono in Europa la stagione del socialiberismo, cioè del capitalismo camuffato sotto la falsa identità socialista. I governi della sinistra europea che gestirono il periodo della transizione furono i veri promotori a livello nazionale di un “modello di globalizzazione finanziaria e deregolarizzata” (Bloomfield) assai poco conciliabile coi valori tradizionali della socialdemocrazia.
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Mattarella: un voto che ci parla di Renzi
Leonardo Mazzei
Il coro del "Santo subito" è ancora in corso, ma si esaurirà a breve. Strano paese quello dove il premier deve invocare l'elezione a presidente di un presunto "galantuomo". Se fosse davvero questo il requisito fondamentale, quello che fa da discrimine, sarebbe come dire che tutto il resto della platea dei potenziali eleggibili era fatto da non galantuomini.
Questo curioso modo di porre le cose fa sì tanta audience, ma ha il piccolo difetto di occultare le ragioni politiche di una scelta. Sulla figura del neo-santo è stato già detto l'essenziale. Qui vorremmo invece concentrarci su una questione più generale: il renzismo. Perché, questo non lo mette in discussione nessuno, il vero ed unico grande elettore di Mattarella è stato Matteo Renzi.
Dunque questa scelta dovrà pur significare qualcosa. In proposito possono anche esservi letture minimaliste (del tipo: Renzi lo ha fatto per evitare imboscate della minoranza Pd), ma la mia opinione è un po' diversa, nel senso che esigenze tattiche di questo tipo stanno in realtà in una cornice più ampia che ci descrive assai bene che cosa sia il renzismo.
Questo è il vero punto meritevole di riflessione, altro che le pagelline su chi ha vinto o chi ha perso, come quella - invero penosa assai - che ci è capitato di leggere qui.
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"È stata la bellezza del mondo a salvarmi dal fallimento politico"
Antonio Gnoli intervista Rossana Rossanda
SOMMERSI come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l'avere il sopravvento sull'immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro.
La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune. Legata al partito comunista, fu radiata nel 1969 e insieme, tra gli altri, a Pintor, Parlato, Magri, Natoli e Castellina, contribuì a fondare Il manifesto. Mi guarda un po' rassegnata e un po' incuriosita. Qualche mese fa ha perso il compagno K. S. Karol. "Per una donna come me, che ha avuto la fortuna di vivere anni interessanti, l'amore è stato un'esperienza particolare. Non avevo modelli. Non mi ero consegnata alle aspirazioni delle zie e della mamma. Non volevo essere come loro. Con Karol siamo stati assieme a lungo. Io a Roma e lui a Parigi. Poi ci siamo riuniti. Quando ha perso la vista mi sono trasferita definitivamente a Parigi. Siamo diventati come due vecchi coniugi con il loro alfabeto privato ", dice.
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Il capitalismo è la fine della storia
la rivista IHU Online intervista Anselm Jappe
IHU Online: A partire dalla lettura dei Grundrisse, quali sono gli elementi fondamentali usati da Marx per la sua critica dell'economia politica?
Anselm Jappe: Marx ha scritto i Grundrisse nel 1857-1858, in pochi mesi, nel mezzo di una crisi economica che riteneva essere la crisi definitiva del capitalismo. Gli ci sono voluti altri dieci anni per sviluppare Il Capitale. Secondo certa ortodossia marxista, per la quale Il Capitale costituisce il punto di arrivo di tutta la riflessione di Marx, i Grundrisse non sono altro che uno schizzo, un imperfetto lavoro preparatorio, motivo per cui verranno pubblicati, a Mosca, solamente nel 1939. A partire dal 1968, i Grundrisse sono stati tradotti in inglese, francese, italiano e spagnolo e, nell'ambito della "nuova sinistra", si affermava da allora che forse questo manoscritto contenesse una versione superiore della critica dell'economia politica, perché meno "scientista", meno "economicista" e meno "dogmatica".
In realtà, non è giustificato nessuno dei due punti di vista. Per quel che riguarda la critica marxista dell'economia politica, molte delle sue categorie fondamentali cominciano ad essere articolate solamente nel corso dell'elaborazione dei Grundrisse, e non trovano una formulazione definitiva prima della seconda redazione de Capitale, nel 1873; soprattutto la teoria del valore e del denaro. La doppia natura del lavoro - astratto e concreto - nei Grundrisse comincia a malapena ad apparire. Lì Marx ancora non distingue chiaramente fra valore e valore di scambio, e nemmeno, sempre in maniera rigorosa, tra valore e prezzo.
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Una cronaca dei tempi dell’ISIS
di Sandro Moiso
Da più di trent’anni i miei destini sono legati a quelli degli ISIS, Istituti Statali di Istruzione Superiore. La vicinanza della sigla a quella dell’attuale Islamic State of Irak and Syria è casuale e devo dire che se anche la seconda sigla è sbandierata come simbolo di terrore universale, la prima ha visto scorrere una gran parte della mia vita. Non sempre la peggiore.
Anzi, devo dire che se ancora non ho fatto la scelta nomade di andare a vivere sotto i ponti di Parigi, che mi attirano più delle grandi piazze adibite ad oceaniche manifestazioni patriottarde, o di qualsiasi altra città, ciò è dovuto in gran parte agli allievi ed allieve degli Istituti Tecnici e Professionali in cui ho insegnato e tuttora insegno.
Allievi ed allieve che sempre più spesso non sono di origine italiana e che praticano la religione islamica: palestinesi, nord- africani, pakistani o arabi più in generale.
Allievi che spesso sono tra quelli più svegli, più attenti, più bravi e più incazzati.
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Sul nuovo spirito del capitalismo
di Enrico Donaggio
[E’ uscita da poco la traduzione italiana di un libro importante, Le nouvel esprit du capitalisme di Luc Boltanski e Ève Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis 2014). Ne abbiamo parlato qui. Questa è l’introduzione di Enrico Donaggio].
Le grandi narrazioni dentro a cui Marx e Weber incastonano le loro genealogie e diagnosi del capitalismo come forma di vita hanno fornito la matrice e la trama, dichiarata o segreta, di tutta la critica novecentesca in materia. Nell’ultimo anno di quel secolo feroce – 1999 – esce a Parigi il libro di Luc Boltanski ed Ève Chiapello. Peripezie editoriali di varia natura lo mettono solo oggi a disposizione del pubblico italiano di non specialisti. Paragonabile per mole, qualità e ambizione a opere che hanno marcato in quel periodo il dibattito filosofico, sociologico e politico della nostra come di altre province (quelle di Rawls e Habermas, per citare soltanto i dioscuri del mainstream accademico), questo volume ha rappresentato nel nostro paese un oscuro oggetto del desiderio per gli insoddisfatti e i perplessi del pensiero unico fin de siècle, dentro e fuori i dipartimenti universitari. Era questo, all’epoca della sua stesura, l’auspicio degli autori. I tempi della traduzione italiana ci offrono un testo, che si voleva di rottura e avanguardia, consacrato a classico mondiale. Il capitalismo e lo spirito di cui trattano queste pagine non stanno più infatti davanti, ma intorno e dentro di noi.
Per Boltanski e Chiapello «spirito del capitalismo» è il concetto che afferra nel modo più illuminante ed efficace la resilienza di cui questa forma di vita ha dato prova, sconcertando perfino i suoi apologeti. Collocata in una terra di mezzo tra Weber e Marx, la formula viene a indicare per loro l’«ideologia che giustifica il coinvolgimento nel capitalismo».
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Dalla Grecia le prospettive che abbiamo di fronte
Paolo Pini e Roberto Romano*
“Il trionfo elettorale di Syriza in Grecia potrebbe capovolgere la situazione dell’Europa e farla finita con l’austerità che mette a rischio la sopravvivenza del nostro continente e dei suoi giovani. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos. Ma perché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso delle cose, bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situazione attuale”[1]. Posizioni analoghe son quelle espresse da altri economisti quali De Grauwe[2], Krugman[3], Rodrik[4], Stiglitz[5], Wren-Lewis[6].
Un Paese piccolo come la Grecia potrebbe realmente cambiare le politiche europee, non tanto per la sua intrinseca forza economica, piuttosto perché intercetta il senso comune dei cittadini europei, così come il buon senso di tanti inascoltati economisti. Oggi la Grecia suggerisce un New Deal europeo, un progetto a cui ha lavorato l’attuale Ministro delle Finanze greco Varoufakis, con il concorso di Holland e Galbraith, prefigurando un “New Deal europeo che, come il suo predecessore americano, potrebbe portare al miglioramento nell’arco di mesi, pur attraverso misure che rientrano interamente nel quadro costituzionale al quale i governi europei hanno già aderito”[7].
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Tecnologie dell’ubiquità
Prove tecniche di sfruttamento on-demand
di Eleonora Cappuccilli
In un recente articolo dell’Economist, la rivoluzione tecnologica dell’economia su richiesta è stata definita come il futuro del lavoro.
A San Francisco […] giovani professionisti che lavorano per Google e Facebook possono usare una app sul cellulare per trovare qualcuno che faccia le pulizie nei loro appartamenti per mezzo di Handy o HomeJoy; che faccia loro la spesa e gliela consegni attraverso Instacart; che lavi i loro vestiti con Washio e che spedisca i loro fiori con BloomThat. FancyHands offre loro assistenti personali che prenotano viaggi o contrattano con la loro compagnia telefonica. TaskRabbit manda una persona a scegliere un regalo last-minute e Shyp lo impacchetta e consegna. SpoonRocket porta direttamente a casa un pasto di qualità in 10 minuti.
Nelle grandi metropoli nordamericane il fenomeno pare essere piuttosto diffuso e in espansione, come esemplifica lo sviluppo di Handy, impresa di pulizie nata nel 2011 e che impiega ora ben 5000 lavoratori autonomi «in 29 delle più grandi città degli Stati Uniti, come pure a Toronto, Vancouver e sei città britanniche».
Il luogo di nascita di queste imprese on-demand lascia immaginare che la geografia sia ancora una variabile importante e che, cosa non nuova, molto spesso lo stipendio può dipendere più dal luogo dove si abita che dal curriculum. Di fatto, queste società costituiscono una sorta di indotto pompato dalle spinte finanziarie dei grandi nodi del capitale globale, come pure dalle traiettorie della logistica, che portano alla concentrazione di manager e professionisti in punti del globo ben determinati.
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ISDS, l’insopportabile leggerezza degli acronimi
Mauro Poggi
ISDS è l’acronimo di Investment-State Dispute Settlement, uno strumento di diritto pubblico internazionale per risolvere le vertenze che possono sorgere fra uno stato e i suoi investitori stranieri.
Il primo accordo del genere risale al 1959, e fu stipulato fra Germania e Pakistan. Inizialmente concepito per proteggere gli investitori stranieri da discriminazioni o espropri arbitrari, si è trasformato in un’arma che le multinazionali usano in modo sempre più invasivo per citare in giudizio gli Stati ogni volta che giudichino un provvedimento di legge lesivo dei loro diritti (o interessi, se vi pare più appropriato).
La causa viene giudicata da tribunali sovranazionali dotati di potere sanzionatorio contro gli stati, davanti a un collegio giudicante composto da avvocati d’affari che in una causa successiva (o in quella precedente) possono assumere (o hanno assunto) il ruolo di avvocato della “parte lesa”.
Nell’estensiva e fantasiosa interpretazione che le multinazionali danno ai concetti di “espropriazione” o “discriminazione”, ogni misura di legge successiva all’insediamento dell’investitore estero è suscettibile di richiesta di risarcimento, se cambiasse in senso per lui peggiorativo il quadro delle norme entro cui opera. Parliamo di qualunque cosa: salute pubblica (vedi Phillips Morris contro l’Australia e contro l’Uruguay), ambiente (Vattenfall contro Germania, Ethyl Corporation contro Canada), politica economica (Occidental contro Ecuador) e così via. Un aumento dei minimi salariali, ad esempio, potrebbe dar luogo a un contenzioso, perché il maggior costo del lavoro comporterebbe una diminuzione degli utili attesi dall’investitore.
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Methodos per Atene
di rk
Intorno al neonato governo greco si affollano amici comprensibilmente speranzosi mentre nemici neri di rabbia volano come avvoltoi e falsi amici twittano viscide aperture. Ha senso allora rovesciare il punto di vista e dichiararsi prima di tutto sim-patetici con il pathos della popolazione greca, con la sofferenza dovuta alla condanna a fare da laboratorio dei “superflui” e con la passione di chi nonostante tutto ha osato alzare la testa e dire basta. Con dure lotte prima di tutto, sconfitte certo, ma senza le quali l’attuale esito elettorale non sarebbe neanche minimamente concepibile.
Rispetto a Tsipras va usato -senza supponenza o ideologismi- un metro (solo apparentemente minimalista) di coerenza interna e di aderenza alla Cosa stessa: il suo è dichiaratamente e di fatto un governo di salute pubblica e come tale vanno valutate le mosse che farà. Non si tratta, attenzione, di adeguarsi alla situazione con becero realismo “codino”. Si tratta invece di farsi le giuste domande e verificare con lucido metodo materialista quale dinamica sociale, politica e geopolitica di rottura il contro-esperimento Syriza può innescare, in Grecia e fuori. Lo vogliano o meno il suo nuovo governo e i greci stessi.
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Jobs Act: un primo commento tecnico
Scritto da Clash City Workers
Alla vigilia dello scorso Natale il governo Renzi ha approntato i primi due schemi di decreto attuativo sulla seconda parte del Jobs Act, quella che riguarda la nuova tipologia di tutela dai licenziamenti illegittimi e la nuova indennità di disoccupazione.
Questi due schemi, al momento in cui scriviamo, non ancora pubblicati in Gazzetta Ufficiale e quindi non in vigore, insieme al decreto Poletti dello scorso Marzo, che di fatto aboliva l'obbligo della causalità nella stipulazione di contratti a tempo determinato, ridisegnano drasticamente il mercato del lavoro in Italia, al fine di razionalizzare la risposta alla domanda pressante dei padroni, in crisi di valorizzazione dei capitali: abbassare il costo del lavoro per creare più profitto.
Analizziamoli entrambi.
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Una rivoluzione ci salverà
di Sandro Moiso
Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli 2015, pp. 740, euro 22,00
Non sono mai stato un fan dell’icona no-global Naomi Klein, ma l’autrice nord-americana nel suo ultimo libro, che confessa essere stato il suo lavoro più difficile da portare a termine, compie un ulteriore salto di qualità nella sua opera di denuncia di quello che chiama capitalismo deregolamentato. Infatti, se nelle opere precedenti (e in maniera marginale anche in questa) sussisteva la speranza di tornare a regolamentare “democraticamente” un modo di produzione selvaggiamente dedito allo sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente, nel testo attuale la conclusione raggiunta, ed esposta fin dalle prime pagine, è che non possa più sussistere alcuna compatibilità tra la sopravvivenza del capitalismo rinnovato dalle scelte ultraliberiste degli ultimi trent’anni e quella della specie umana e dell’ambiente che la circonda.
L’attenzione dell’autrice si sofferma in particolare sul problema del riscaldamento globale come conseguenza di attività produttive ed economiche e scelte di organizzazione sociale che hanno privilegiato, e privilegiano tuttora, la combustione degli idrocarburi come fonte primaria di produzione di energia. Ma nel fare ciò è obbligata toccare il cuore del problema, quello che Marx avrebbe chiamato il limite che il capitalismo pone da sé allo sviluppo delle forze produttive e che oggi non riguarda soltanto la caduta tendenziale del saggio di profitto, con tutte le sue catastrofiche conseguenze in termini di crisi economica e sociale, ma anche l’innalzamento tra i 2 e i 4 gradi Celsius delle temperatura globale del pianeta.
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Guerre, paure, umiliazioni, stato di polizia
I primi amari frutti dell'Unità Nazionale post Charlie Hebdo
di Saïd Bouamama
«Alla fine, non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma i silenzi dei nostri amici»
Martin Luther King
La grande manifestazione «Je suis Charlie» è stata celebrata dall’insieme dei nostri media, dal governo e dalla quasi totalità della classe politica come simbolo dell’«unità nazionale», vista come strumento necessario di fronte alla minaccia terroristica. È stata altresì presentata come l’esempio di un’unità internazionale contro quello stesso terrorismo.
Le poche voci discordanti che hanno chiesto di far luce sulle cause, sulle poste in gioco e sulle conseguenze prevedibili di quest’obbligazione all’unanimità emotiva, sono state bollate come «sostegno ai terroristi», secondo un ragionamento binario che martella tutto il giorno: se non «sei Charlie», vuol dire che sei per gli attentati. Il seme di questa «unità nazionale» comincia a dare i suoi frutti amari e avvelenati. È giunto il tempo di un primo bilancio.
Una rafforzata legittimazione alle guerre
Tutte le potenze della NATO, così come i loro alleati, erano rappresentate alla manifestazione «Je Suis Charlie» dell’11 gennaio 2015. Capire il significato e la funzione di questa foto di famiglia vuol dire prendere in considerazione il contesto mondiale e i suoi rapporti di forza.
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Il nuovo governo greco
Noi Restiamo intervista Joseph Halevi
In questi giorni sono usciti molti articoli sul nuovo governo greco e in particolare su alcuni suoi componenti. La maggior parte di questi articoli si è concentrata su aspetti di costume e non sulla sostanza, ossia su quali politiche economiche potrà mettere in atto la nuova compagine governativa.
Abbiamo quindi intervistato Joseph Halevi, professore di economia presso l'Università di Sydney, che ben conosce Yanis Varoufakis, neo ministro delle finanze in Grecia, di cui è amico e con cui ha anche scritto un libro (insieme a Nicholas Theocarakis): “Modern Political Economy: making sense of the post-2008 world” (Routledge).
Noi Restiamo: ci dai un giudizio sul risultato delle recenti elezioni in Grecia?
Joseph Halevi: il mio giudizio è essenzialmente positivo. C'è ovviamente un problema dovuto al fatto che Syriza ha delle posizioni molto eterogenee. Però voglio dire che l'esigenza che nasceva dalla crisi del Pasok ovviamente ha trovato sbocco in Syriza.
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I segni cangianti di un’opera aperta
Benedetto Vecchi
Torna finalmente nelle librerie il saggio di Henri Lefebvre «Il diritto alla città». Un libro presto archiviato come incompleto, anche se negli anni successivi alla sua pubblicazione ha aperto sentieri di analisi sulle trasformazioni urbane come quelli di Mike Davis, Saskia Sassen e David Harvey
Sono passati molti lustri da quando il filosofo francese Henri Lefebvre mandò alle stampe una riflessione sulla città — Le droit à la ville — critica nei confronti di una visione della metropoli allora dominante. A distanza di decenni, quell’analisi conosce un inedito e a tratti condivisibile revival, grazia a un lavoro di riscoperta che fa leva sui movimenti sociali che puntano alla riappropriazione della metropoli dopo una corrosiva privatizzazione dello spazio pubblico. Molte le differenza tra l’ordine del discorso allora dominante e quello attuale. Nei turbolenti anni Sessanta, infatti, gli urbanisti, affascinati dalle oscure declamazioni di Talcott Parson sulla realtà come un «sistema chiuso», sostenevano che la città era da considerare appunto un sistema autoreferenziale che stabiliva corrosivi rapporti di feedback con l’ambiente circostante al fine di riprodurre una forma del vivere sociale che non ammetteva alternativa al suo divenire.
La prima edizione del saggio di Lefebvre è del 1970, ma fu presto archiviato perché ritenuto un manoscritto incompleto. Da alcuni anni, però, il geografo David Harvey ha attinto a Il diritto alla città come una miniera di suggestioni per analizzare il ruolo della metropoli come un hub delle dinamiche economiche e sociali della contemporaneità. Ha dunque fatto bene la casa editrice ombre corte a ripubblicarlo, corredandolo di una utile prefazione di Anna Casaglia, che inquadra storicamente il saggio del filosofo francese (Il diritto alla città, pp. 138, euro 14).
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La Barbarie non è inevitabile
In memoria di Robert Kurz (1943 - 2012)
di Claus Peter Ortlieb
Robert Kurz è morto il 18 luglio 2012, all'età di 68 anni. Tutto sta ad indicare come l'influenza dell'opera di una vita continuerà ben oltre la sua morte. Tanto l'influenza suoi scritti, quanto l'influenza diretta esercitata da Robert Kurz sulle persone che lo conoscevano, appare evidente dai molti necrologi. Un'influenza che derivava essenzialmente da una relazione con le sue conoscenze e con le sue convinzioni, insuscettibili di essere corrotte o strumentalizzate, come constata Daniel Späth:
"Da quando lo conosco non l'ho mai visto utilizzare la sua straordinaria posizione teorica al fine di interessi tattici di potere, o considerare la critica come luogo di realizzazione di sensibilità personali; l'arroganza e il culto del proprio ego gli erano profondamente estranei. Che questa accusa a volte sia stata mossa contro di lui da parte di alcuni compagni e compagne di viaggio, va attribuito, in una certa misura, al desiderio di dislocare sul piano personale quelle che erano delle differenze oggettive di contenuto e le sue forme di decisione necessariamente veementi. Giacché, per quanto polemici fossero i suoi testi ed i suoi libri, dal loro spirito raffinato e dalla loro convincente inesorabilità poteva derivare un contrasto sul contenuto e sulla sua trasformazione in critica radicale, ma non la necessità dell'autopromozione di una mera denuncia. Per quanti siano stati i confronti violenti,a volte spiacevoli, che Robert Kurz ha avuto nella e con la sinistra, egli non ha mai perso la speranza che questa sinistra si potesse liberare dai suoi residui borghesi, per realizzare finalmente il progetto di una 'anti-modernità emancipatrice'."
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Quel sapore anni ’50 nel QE di Supermario
di Maurizio Sgroi
Chiunque si sia avventurato nell’esplorazione anche sommaria delle ultime decisioni della Bce temo sia naufragato nell’oceano di parole che le hanno accompagnate e nei commenti isterici che ne sono seguiti.
Travolto, soprattutto, dalla tecnicalità davvero barocca con la quale il Quantitative easing (QE) verrà declinato, il povero osservatore ha poche scelte: deve decidere se stare dalla parte di chi è soddisfatto o di chi non lo è, dovendosi peraltro confrontare con modalità di comunicazione che sembrano fatte apposta per celare piuttosto che per chiarire.
Mi spiego. Leggo e rileggo il comunicato con il quale la Bce ha spiegato senso e dimensioni dell’operazione. Proprio all’inizio c’è scritto che “La Bce estende gli acquisti alle obbligazioni emesse da amministrazioni centrali dei paesi dell’area dell’euro, agenzie situate nell’area dell’euro e istituzioni europee” e che “gli acquisti mensili di attività ammonteranno nell’insieme a 60 miliardi di euro almeno fino a settembre 2016″.
Uno perciò pensa che i 60 miliardi saranno spesi integralmente per comprare “obbligazioni emesse da amministrazioni centrali dei paesi dell’area dell’euro, agenzie situate nell’area dell’euro e istituzioni europee”.
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Quantitative Easing e elezioni greche: un cambio in Europa?
di Andrea Fumagalli
La settimana appena trascorsa verrà probabilmente definita storica per l’Europa. La decisione della BCE di finanziare, in modo diretto, alla faccia del Trattato di Maastricht, il debito pubblico dei paesi dell’Unione e la vittoria di Syriza alle elezioni greche, con la messa in discussione delle politiche di austerity finora pervicacemente perseguite dall’oligarchia economico-finanziaria, possono segnare un momento di svolta?
Non è facile, a caldo, rispondere. Ci proviamo, con tutte le cautele del caso, partendo dalle decisioni della BCE, non a caso varate tre giorni prima delle elezioni greche.
Svolta della BCE?
Numerosi sono stati gli articoli che hanno presentato e commentato la svolta nella politica economica della BCE dopo la storica decisione dello scorso 22 gennaio di procedere all’acquisto di titoli finanziari (prevalentemente pubblici) per un ammontare di 60 miliardi di euro al mese, almeno sino a settembre 2016. In questa sede non entriamo nell’analisi dello scenario geo-economico globale in cui tale provvedimento si colloca. Lo ha già fatto egregiamente l’articolo di Raffaele Sciortino su queste stesse pagine. Ci limitiamo piuttosto a fare un’analisi critica dei commenti che lo hanno accompagnato, con particolare riferimento agli effetti e al caso italiano.
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#Tsipras, il gran botto nel Laboratorio Greco
di Pino Cabras
Se consideriamo la Grecia come un laboratorio, così come in molti fanno da anni, in occasione della vittoria di Tsipras abbiamo assistito all'incendio di molti alambicchi. Chi conduce l'esperimento, specie se si tratta di un test pericoloso, corre anche il rischio di collaudare qualcosa che non risponde ai suoi modelli di partenza: mette nel conto di sacrificare risorse, forzare i limiti, spingere al massimo le resistenze, scoprire cosa brucia subito e cosa provoca ritorni di fiamma imprevisti.
Se gli va bene, scopre una nuova formula che potrà ogni volta padroneggiare. Se gli va male, può provare e riprovare ancora sulle cavie, e solo dopo potrà estendere le esperienze sicure su un sistema più vasto. Oppure può circondare di misure di sicurezza quel piccolo e scoppiettante laboratorio isolato.
La Grecia è stata già altre volte un'officina per gli sperimentatori delle élite occidentali. Se ci pensiamo, negli stessi anni in cui in Italia gli ambienti atlantisti influenzavano la vita politica con la strategia della tensione e vari tentativi di colpo di Stato, ad Atene i militari andavano davvero al potere con un golpe, instaurando la Dittatura dei Colonnelli (1967-1974). Nella culla della civiltà europea si poté così sperimentare per qualche anno la soppressione delle normali libertà civili, lo scioglimento dei partiti politici, l'istituzione di tribunali militari speciali, il ricorso alla tortura e al confino per migliaia di oppositori.
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E se fosse la Cina lo scudo dell'Italia?
di Pasquale Cicalese
"Continuiamo a comprare partecipazioni in società italiane, ma ora siamo attenti a rimanere al di sotto della soglia del 2% in modo che non siamo obbligati a comunicarlo; deteniamo asset italiani, tra azioni e titoli di stato, pari a 100 miliardi di euro e continueremo". Zhou Xiaochuan, Governatore Banca Centrale Cinese, Davos 22 gennaio. Fonte: Milanofinanza on line, 22 gennaio.
Lo stesso giorno della dichiarazione del Governatore della Banca Centrale Cinese partiva l’operazione QE di Draghi che sanciva la definitiva annessione alla Germania e il commissariamento dell’Italia da parte della Trojka, con il fine ultimo tedesco di abbattere del tutto l’economia produttiva italiana, concorrente a quella tedesca, e prendersi l’oro di Bankitalia una volta che gli spread schizzeranno in alto provocando la crisi e la disgregazione dell’euro, con la probabile uscita tedesca, una volta completata la strategia di distruzione dell’Europa iniziata con il Piano Werner del 1972.
Il lato debole di tale strategia è però la sua domanda interna e i troppi fronti imperialisti aperti per far piacere gli Usa, dai Balcani alla Russia. Le mire egemoniche e di grandezza dei tedeschi, per la terza volta, dopo la prima e la seconda guerra mondiale, si scontrano con i troppi fronti aperti.
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La dittatura del debito in Europa e le possibili vie di fuga
Luigi Pandolfi
E’ ormai un dato storico, oltre che economico, il fatto che la crisi finanziaria scoppiata a cavallo tra il 2007 ed il 2008 abbia avuto un effetto deflagrante sulla finanza pubblica dei paesi europei. Il mix di salvataggi bancari, austerity e recessione, che ha segnato la storia europea degli ultimi anni, ha letteralmente fatto esplodere il debito nella gran parte dei paesi dell’Unione, mettendone a rischio, in alcuni casi, la stessa sostenibilità. Se guardiamo all’Eurozona nel suo complesso, è impressionante constatare come nel periodo 2007 – 2013 il debito aggregato sia passato dal 66,2% al 92,6% del Pil (In valore assoluto 8.842 miliardi di Euro)[1]. Certo, in questo dato ci sono situazioni molto diverse tra di loro, sia per l’entità dell’indebitamento che per la sua composizione, ma il fenomeno della crescita del debito ha riguardato tutti i paesi dell’area, ed anche quelli che al momento ne sono fuori.
Prendiamo due paesi considerati agli antipodi dal punto di vista economico: la Germania e la Grecia. Nel periodo in esame, il primo fa registrare un balzo del proprio debito dal 65,2% al 78,4% (con una punta dell’81% nel 2012) della ricchezza nazionale, il secondo dal 107,4% al 175,1%.[2] Per quanto può valere sul piano economico, è impressionante però il divario tra i due paesi relativamente alla grandezza assoluta del proprio debito: 2.127 miliardi Euro la Germania (valore più alto dell’intera Unione), 317 miliardi la Grecia[3].
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Le ragioni della democrazia (e della sua crisi)
Giulio Azzolini intervista Alessandro Ferrara e Stefano Petrucciani
Proprio dopo essere diventata la forma di governo legittima per eccellenza, la democrazia è sempre più spesso percepita come un regime politico in grave crisi. A partire dai loro ultimi lavori – The Democratic Horizon (Cambridge University Press) e Democrazia (Einaudi) – Ferrara e Petrucciani affrontano in chiave filosofico-politica questo paradosso e molti altri problemi: dalla critica delle concezioni procedurali e competitive della democrazia alla proposta di un approccio normativo deliberativo, dal rischio di una deriva oligarchica e tecnocratica transnazionale fino alle conseguenze della crisi economica. Nella convinzione che oggi, per difendere la democrazia, riflettere sulle sue ragioni sia più utile che coniare nuovi slogan
Esprimere un giudizio sugli ultimi mesi di “grande trasformazione” della nostra democrazia è forse prematuro. Di sicuro, però, il 2014 è stato un anno particolarmente fecondo per la riflessione italiana sulla democrazia. Vi hanno contribuito, tra gli altri, un sociologo e politologo del calibro di Ilvo Diamanti (con Democrazia ibrida, Laterza-la Repubblica), uno scienziato politico di fama internazionale come Leonardo Morlino (con Democrazia e mutamenti, Luiss University Press) e la teorica politica della Columbia University Nadia Urbinati (con Democrazia sfigurata, Egea). All’esercizio di studio della metamorfosi democratica non poteva dunque sottrarsi la filosofia politica italiana, che partecipa al dibattito grazie agli originali lavori diAlessandro Ferrara, The Democratic Horizon. Hyperpluralism and the Renewal of Political Liberalism (Cambridge University Press, pagg. 257, euro 72), e di Stefano Petrucciani, Democrazia (Einaudi, pagg. 260, euro 22). Educati rispettivamente alla tradizione liberal statunitense e alla teoria critica francofortese, i due hanno trovato nell’opera di Jürgen Habermas – del quale il primo è stato allievo e al cui pensiero il secondo ha dedicato un’importante Introduzione[i] – l’occasione di stabilire un linguaggio comune e di intendersi su molti temi, primo dei quali la democrazia.
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Dipendenti pubblici troppo numerosi e poco produttivi
Una bugia!
di Guglielmo Forges Davanzati
La vicenda delle assenze dei vigili urbani di Roma ha accelerato il ddl Madia sulla “riforma del pubblico impiego”. Ma la strategia di ulteriore ‘dimagrimento’ del settore pubblico, controproducente per l’obiettivo della fuoriuscita dalla recessione, è giustificata con argomenti che non reggono alla prova dei fatti
L’assenza, per malattia, di circa l’83% (per la stima del Comune) di vigili urbani a Roma la notte di Capodanno ha impresso una significativa accelerazione al ddl Madia sulla “riforma del pubblico impiego”. Per quanto è dato sapere, il punto principale del provvedimento riguarderà la maggiore discrezionalità assegnata alla Pubblica Amministrazione di licenziare propri dipendenti poco produttivi, e di affidare all’INPS i controlli medici per la certificazione dell’effettiva malattia dei dipendenti in caso di assenza.
Al netto di singoli casi di comportamenti eticamente censurabili e comunque punibili, stando alla normativa vigente, occorre considerare i possibili effetti macroeconomici che tali misure verosimilmente produrranno. E occorre anche preliminarmente considerare che il c.d. decreto Brunetta già contiene tutte le misure necessarie per consentire il licenziamento di dipendenti pubblici, in un quadro normativo nel quale il regime di sanzionamento dell’assenteismo è diverso fra settore privato e settore pubblico.
Nel settore privato, la disciplina sulle assenze per malattia prevede che, per i primi tre giorni di assenza continuativa, l’indennità di malattia è a carico del datore di lavoro, con una percentuale di copertura definita dal contratto nazionale. A partire dal quarto giorno, l’Inps versa un’indennità non inferiore al 50 per cento della retribuzione, mentre la parte rimanente viene integrata dal datore di lavoro.
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