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Maurizio Lazzarato: Guerra o rivoluzione. Tertium non datur?
di Mimmo Sersante
Pubblichiamo nella sezione reflex la recensione di Mimmo Sersante al libro di Maurizio Lazzarato Guerra o rivoluzione. Perché la pace non è un'alternativa, pubblicato da DeriveApprodi lo scorso autunno. La recensione è apparsa originariamente su «Pulp Libri»
«A questo punto, signori principi e uomini di Stato, voi nella vostra saggezza, avete portato la vecchia Europa. E se non vi rimane altro che cominciare l’ultima grande danza di guerra, per noi va bene. Può darsi che la guerra momentaneamente ci spinga indietro, che ci strappi qualche posizione già conquistata. Ma se voi avete scatenato quelle forze che non siete più capaci di incatenare di nuovo, sia pure così: alla fine della tragedia, rovinati sarete voi, e la vittoria del proletariato sarà già raggiunta o, comunque, inevitabile», F. Engels [1].
Lo stesso ottimismo che Maurizio Lazzarato profonde nel suo ultimo saggio, Guerra o rivoluzione, edito da DeriveApprodi. Titolo tranchant che pone un’alternativa secca al lettore. Se poi per caso gli venisse in mente una pace possibile tra i due corni del dilemma, c’è il sottotitolo – Perché la pace non è un’alternativa – a chiarirgli che tertium non datur. Anche per Lazzarato, come a suo tempo per Engels e ancor prima per Hegel [2], la storia dell’Europa (e del mondo) non contempla la pace.
E infatti alla guerra noi siamo abituati da tempo perché è da trent’anni e passa che il mondo che abitiamo è in stato di guerra permanente e averla oggi a quattro passi da casa ce l’ha resa ancor più familiare. Evidentemente non ci erano bastate le guerre di successione jugoslave all’indomani dell’unificazione della Germania. Questa volta – e forse più di allora – sentiamo che ci riguarda da vicino, che ci stiamo impegolando in una situazione maledettamente complicata e più grossa di noi. Vorremmo starne fuori temendo il peggio. Magari tornando a sognare una Pax Europea, di fatto impossibile dopo la lunga tregua della guerra fredda. E allora?
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Come la Cina si protegge dalle incursioni dei capitali speculativi dell’economia-mondo
di Giordano Sivini
Riceviamo e pubblichiamo
Da una ricerca storica sulla Repubblica Popolare Cinese del ‘900 è emersa l’ipotesi, esplicitata fin dal titolo “La costituzione materiale della Cina. Le ragioni storiche della crescita del capitalismo cinese fuori dall’economia-mondo finanziarizzata” (Asterios, 2022), che all’incessante sviluppo cinese nel nuovo millennio abbiano contribuito gli investimenti diretti dall’estero e il concomitante divieto agli investimenti di portafoglio di entrare nell’area di accumulazione cinese. Il divieto era stato deciso alla fine degli anni ’90. La Cina stava preparandosi ad entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e adeguava il sistema istituzionale ed economico alle forme del capitalismo globale. Nel 1996 aveva promesso al Fondo Monetario Internazionale che la ‘moneta del popolo’, il renminbi, sarebbe stata resa gradualmente convertibile, ma il sopravvenire della crisi finanziaria asiatica fece bloccare il processo. Mentre nell’economia globalizzata i capitali produttivi stavano diventando tributari di quelli finanziari (Sivini, 2018), in Cina venne presa la decisione di vietare l’ingresso a quei capitali esteri che non avessero obiettivi immediatamente produttivi.
L’ipotesi che l’elemento distintivo del capitalismo cinese fosse legato a questa decisione è ripresa in esame in questo articolo alla luce delle autorizzazioni date dalla Cina nel nuovo millennio ad investitori stranieri ad operare in borsa e a grandi istituti finanziari esteri di realizzarvi investimenti di portafoglio. Il fine principale di queste aperture è stato di rendere il mercato finanziario cinese più competitivo, capace di produrre innovazioni nel sistema finanziario, orientato a sostenere le attività produttive ma ritenuto scarsamente efficiente.
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Al cospetto dell’angelo. Tre libri su Benjamin
di Ludovico Cantisani
Nato nel 1892 a Berlino e morto nel 1941 lungo la frontiera spagnola, Walter Benjamin è un pensatore unico, e per parecchi motivi diversi: uno fra i tanti, la straordinaria molteplicità dei suoi scritti, al tempo stesso kafkianamente inconclusi e frammentariamente densissimi. Addentrandosi nella costellazione Benjamin non si tarda ad avvertire la sensazione che i passaggi più fertili, i movimenti più folgoranti del suo pensiero, si trovano soprattutto nelle note a piè di pagina, negli appunti mai ordinati, nelle intuizioni lasciate a latere della sua corrispondenza privata. Il suo carteggio con Gershom Scholem, pubblicato in Italia da Adelphi sotto il titolo di Archivio e camera oscura, ha le carte in regola per essere uno dei più begli epistolari del secolo scorso, certo il più rappresentativo dello stato della cultura ebraica nell’imminenza del nazismo.
Non può essere una coincidenza se, nell’ultimo periodo, Walter Benjamin è tornato “di moda”, con un profluvio di nuove pubblicazioni e trattazioni come non se ne vedevano da anni. A differenza che per Carl Schmitt, questa congiuntura si può spiegare solo in parte con l’avvento del Coronavirus: vero è che una delle più profonde intuizioni di Benjamin sancisce così, “che tutto vada avanti come prima è la vera catastrofe”, e giustamente la si è rievocata nei primi mesi di lockdown; ma se il fantasma di Schmitt è stato esplicitamente e surrettiziamente ripreso anche per contrastare le dinamiche da “stato di eccezione” rese necessarie della pandemia, il mormorio di Benjamin, su Benjamin è meno retorico, più laterale, liminare, ben più fecondo delle polemiche televisive dell’intellettuale contestatario di turno. Per non farci mancare nulla, ai primi di novembre al Teatro India di Roma è andato in scena anche uno spettacolo ispirato a Benjamin, L’angelo della storia di Sotterraneo, piacevolmente frammentario, monadistico.
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Il “sottobosco” del Potere
Paolo Becchi, Fabio Conditi ed un articolo che ci lascia perplessi!
di Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani)
Cosa sia il “Potere” che gestisce le nostre vite ormai lo sappiamo bene, visto che oltre a portarne i segni sulla nostra pelle, lo analizziamo ogni giorno fino dentro le sue più nascoste sfumature. Invece, quello di cui ancora parliamo poco e del quale sarebbe invece propedeutico prenderne coscienza al più presto, è tutto quel “sottobosco” di informazione più o meno indipendente, che coscientemente o non, rappresenta “l’humus” vitale di cui il Potere stesso si nutre per portare avanti il proprio progetto di dominio sui popoli.
Sto parlando di tutti coloro che in buona fede o meno o per mancanza di conoscenza, presentano a chi li ascolta, i malefici e mortali funghi “amanita phalloides” come pregiati ovoli.
Se vi ricordate, pochi giorni fa, in un mio articolo, ho posto la vostra attenzione su quanto fosse distorto e fuori dalla realtà il messaggio che il ministro Giancarlo Giorgetti, faceva passare in merito al fatto che gli italiani non investissero i loro risparmi nei titoli del nostro debito pubblico, mostrando per questo tutto il suo disappunto, che all’evidenza dei fatti non trova la ben che minima giustificazione.
La maggioranza dei cittadini e delle famiglie italiane, non investe nei Btp, non per snobismo o mancanza di attrattiva, ma per il semplice motivo che non dispongono più di quel risparmio essenziale per farlo. Ed i dati lo dimostrano chiaramente, visto che la percentuale di coloro che lo fanno è ormai consolidata, da oltre due decadi, sul 5% o poco più.
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L’offensiva d'inverno
di Enrico Tomaselli
Nella straordinaria dissociazione che caratterizza la narrazione della NATO, da un lato ci si ostina a vaticinare un’impossibile vittoria ucraina, mentre dall’altro si discute di una offensiva russa data ormai per imminente. Tutti sembrano aspettarsi un attacco contro la capitale ucraina, a partire dalla Bielorussia. Eppure, ad un’attenta analisi, quest’ipotesi appare quanto meno improbabile. Proviamo a capire perché.
Checché se ne dica, fare previsioni sul corso di una guerra è cosa estremamente difficile, soprattutto quando si prova a scendere ad un livello di dettaglio che vada oltre la macro dimensione strategica. Per un analista militare è un po’ come per gli economisti, è assai più facile spiegare quel che è accaduto che capire quel che accadrà. Ciò nonostante, il tentativo va fatto sempre comunque, per quanto difficile possa essere. E nel caso della guerra in Ucraina il compito è complicato dalla impenetrabilità del comando russo, cosa che lascia davvero un ampio margine d’errore a qualunque previsione.
Questa apparente excusatio non petita non vuole mettere al riparo da critiche la presente analisi, nel caso che le conclusioni risultassero errate, ma vale piuttosto come avviso al lettore: ciò che segue è un’analisi basata sui dati conosciuti (che sono certamente solo una piccola parte di quelli noti ai comandi militari coinvolti), che si prova ad interpretare, per trarne qualche indicazione.
Attacco a Kyev?
La maggior parte dei commentatori, anche autorevoli (1), sembra dare per scontata una imminente offensiva russa verso la capitale ucraina.
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Corruzione nei palazzi di Bruxelles e nell’establishment di sinistra
Questione di legalità e questione morale
di Gaspare Nevola
1. Né Spinelli, né Berlinguer. Non c’è santo per i ceri dei devoti ipocriti
«Centomila euro per le vacanze di Natale? ‘Troppi, non possiamo fare come l’anno scorso’, si lamenta al telefono con il marito la signora Panzeri» (Libero). Già solo questa frase dice molto sulla corruzione “ai piani alti” di Bruxelles. Ma anche su come ragionano e si comportano in tema di corruzione coloro che sono stati colpiti dallo scandalo venuto alla luce in questi giorni: calcolano e giocano a nascondere il loro malaffare dietro un uso scaltro e spregiudicato della legalità.
Da giorni i quotidiani italiani, chi più chi meno, aprono con titoli a caratteri cubitali sulla corruzione scoperta dai magistrati belgi in seno al Parlamento europeo e nel gruppo socialista. Gli accenti e commenti delle varie testate sono anche differenti, ma la sostanza sullo scandalo è la stessa e condivisa. È utile documentarli con una breve rassegna. Prendiamo a campione le parole del 12 novembre: “Soldi, favori: choc in Europa. Il caso Qatar, sacchi di banconote a casa del vice presidente del Parlamento Ue. Vacanze da 100 mila euro e intrallazzi: le accuse ai Panzieri”” (Corriere della Sera); “Eurocorruzione. Nella casa di Panzeri 600 mila euro. L’accusa: la rete dell’ex deputato Pd ha distribuito per anni le mazzette dell’Emirato. La presidente del parlamento Ue sospende la sua vice. S’indaga pure sui soldi dal Marocco” (la Repubblica); “La tangentopoli in Europa. Così il Qatar pagava i politici. Articolo 1 sospende l’ex deputato, indagato anche un assistente di un eurodeputato Pd” (La Stampa); “Qataritangenti.
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Sulla mutazione del desiderio
Ipersemiotizzazione → desessualizzazione → ansia → †
di Franco «Bifo» Berardi
Ho iniziato a leggere Felix Guattari nel 1974. Ero in una caserma del sud italiano, quando il servizio militare era obbligatorio per i giovani sani di mente e di corpo, ma servire la patria mi scocciò rapidamente, e stavo cercando una via d’uscita quando un amico mi suggerì di leggere quel filosofo francese che raccomandava la follia come una via di fuga.
Lessi allora Una tomba per Edipo. Psicoanalisi e trasversalità edito da Bertani, e ne trassi ispirazione per un’azione di follia. Il colonnello della clinica psichiatrica mi riconobbe pazzo e così me ne tornai a casa.
Da quel momento ho preso a considerare Felix Guattari come un amico i cui suggerimenti possono aiutare a fuggire da qualsiasi tipo di caserma.
Nel 1975 pubblicai il primo numero di una rivista chiamata A/traverso, che traduceva concetti schizoanalitici nel linguaggio del movimento degli studenti e dei giovani lavoratori chiamato Autonomia.
Nel 1976, con un gruppo di amici, comincio a trasmettere nella prima radio italiana libera, Radio Alice. La polizia interviene a chiudere la radio durante i tre giorni di rivolta degli studenti di Bologna, dopo l’assassinio di Francesco Lorusso.
Il movimento bolognese del 1977 usava l’espressione “autonomia desiderante”, e il piccolo gruppo dei redattori della radio e della rivista si definivano “trasversalisti”.
Il riferimento al poststrutturalismo era esplicito nelle dichiarazioni pubbliche, nei volantini, nelle parole d’ordine della primavera ’77.
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I Diavoli: dalla Realtà, alla Fiction, alla Teoria Economica
di Biagio Bossone
Si dice che i mercati abbiano un modo sicuro per prevedere il futuro: farlo accadere. Fare accadere il futuro è opera dei Diavoli, come l’autore di bestseller di successo Guido Maria Brera ha chiamato coloro che, dietro le quinte, tirano le fila della finanza internazionale e scatenano le forze invisibili che guidano l’economia mondiale – appunto i mercati. Brera ne ha scritto per i lettori di romanzi e ne ha lanciato l’immagine per gli appassionati delle serie TV, rappresentando il grado d’influenza che la finanza globale esercita sulla vita di persone e paesi.
Avendo ammirato la trasposizione dei Diavoli dalla realtà alla fiction letteraria e cinematografica, ho ritenuto utile porre il medesimo soggetto al centro della teoria economica e finanziaria per vedere come cambia l’allocazione internazionale del capitale, e con quali conseguenze, quando sono i Diavoli a pilotarla.
Avevo iniziato a farlo col mio primo lavoro sulla Portfolio theory of inflation and policy (in)effectiveness, che ho successivamente illustrato in un contributo più di natura divulgativa e che ho ripreso nel lavoro appena pubblicato nel quale ho corretto gli errori della prima versione e ho sviluppato altri importanti aspetti della teoria. In questi lavori, non compare ovviamente il nome “Diavoli”, avendo usato in suo luogo quello meno accattivante ma accademicamente più accettabile di “Investitori globali”, specificamente definiti. Nel prosieguo di quest’articolo, che esporrà i tratti essenziali del mio lavoro, prenderò a prestito la felice invenzione di Brera e parlerò dunque di Teoria dei Diavoli.
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Relazioni pericolose
di Enzo Traverso
Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
Queste considerazioni sull’esistenzialismo giovanile di Lukács potrebbero essere estese a molte altre correnti di pensiero esaminate ne La distruzione della ragione. Valgono ad esempio per la critica di Weber alla razionalità occidentale, che Lukács stesso aveva incorporato nel proprio concetto di reificazione in Storia e coscienza di classe, un testo fondamentale del marxismo occidentale1. Valgono anche per Nietzsche, la cui appropriazione da parte dell’ideologia nazista non impedì a diversi studiosi marxisti o anarchici di considerarlo un pensatore stimolante. Sia Ernst Bloch che Herbert Marcuse accolsero le potenzialità emancipatrici di una rivolta dionisiaca contro la civiltà repressiva. Il pensiero di Nietzsche, ha sottolineato Marcuse, conteneva ben più di un rifiuto aristocratico della modernità e di una nefasta apologia della schiavitù; portava con sé anche “l’aria liberatrice” di una filosofia che tracciava la propria strada attaccando “la Legge e l’Ordine”2. Adorno e Horkheimer non ignoravano le ambiguità del nichilismo di Nietzsche, che già conteneva alcune premesse di un’ideologia “prefascista”, ma lo consideravano uno dei pochi, dopo Hegel, ad aver riconosciuto la dialettica dell’illuminismo3. E considerazioni analoghe valgono anche per Heidegger, il cui convinto sostegno al regime nazista non invalidava le molteplici direzioni del suo pensiero ontologico, in cui pensatori marxisti come Marcuse e Günther Anders hanno trovato preziose munizioni per la loro critica radicale della tecnologia e dell’alienazione capitalista. Adorno, che non esprimeva alcun compiacimento verso Heidegger nel suo Il gergo dell’autenticità (1964), non poteva accettare la tendenza di Lukács ad assimilare al fascismo tutte le forme di irrazionalismo che, in tempi diversi, erano affiorate in seno alla filosofia tedesca.
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Nel tritacarne
di Enrico Tomaselli
Dopo quella di Mariupol, un’altra sanguinosa battaglia casa per casa si sta combattendo nel settore centrale del fronte ucraino e, come quella, ha non solo un valore simbolico, ma anche un rilevante valore strategico. Se le forze armate russe riuscissero a sfondare, come appare sempre più probabile, potrebbero aprirsi la strada verso una nuova significativa avanzata. Intanto, le perdite ucraine stanno diventando elevatissime.
Tra retorica e strategia
Mentre la retorica propagandistica dei paesi NATO insiste su una sempre più fantomatica vittoria ucraina, la strategia militare sul campo sembra ormai puntare – letteralmente – sul prolungamento della guerra sino all’ultimo uomo possibile. Messa da parte l’ipocrisia precedente, in base alla quale l’occidente dichiarava ufficialmente di non voler fornire a Kyev armi in grado di colpire il suolo russo (facendo finta di non sapere / non vedere che gli ucraini lo fanno continuamente, non solo bombardando gli oblast annessi a settembre, ma anche il territorio russo storico – regioni di Kursk e Belgorod), ora c’è un via libera a questo genere di attacchi. Che non è soltanto teorico (fate ciò che volete), ma pratico (vi aiutiamo a farlo, e vi diamo i mezzi per farlo). Al cuore di questa politica, c’è la fornitura – da parte USA- degli M-142 HIMARS (High Mobility Artillery Rocket System), un avanzato sistema di lanciarazzi, dotato di un modulo con sei missili di precisione GMLRS, basato su un camion FMTV da cinque tonnellate.
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“Guerra cognitiva”: la NATO sta pianificando una guerra per le menti delle persone
di Jonas Tögel
Dal 2020, la NATO ha portato avanti i piani per una guerra psicologica che deve stare su un piano di parità con le cinque precedenti aree operative dell’alleanza militare (terra, acqua, aria, spazio, cyberspazio). È il campo di battaglia dell’opinione pubblica. I documenti della NATO parlano di “guerra cognitiva” – guerra mentale. Quanto è concreto il progetto, quali passi sono stati compiuti finora e a chi è rivolto?
Per essere vittoriosi in guerra, bisogna vincere anche la battaglia per l’opinione pubblica. Questo viene svolto da oltre 100 anni con strumenti sempre più moderni, le cosiddette tecniche di soft power. Questi descrivono tutti quegli strumenti psicologici di influenza con cui le persone possono essere guidate in modo tale che esse stesse non si accorgano di questo controllo. Il politologo americano Joseph Nye definisce quindi il soft power come “la capacità di convincere gli altri a fare ciò che si vuole senza usare la violenza o la coercizione”.(1)
La sfiducia nei governi e nei militari sta aumentando , mentre la NATO sta intensificando i suoi sforzi per usare una guerra psicologica sempre più sofisticata nella battaglia per le menti e i cuori delle persone. Il programma principale per questo è “Cognitive Warfare” . Con le armi psicologiche di questo programma, l’uomo stesso deve essere dichiarato il nuovo teatro di guerra, il cosiddetto “Dominio Umano” (sfera umana).
Uno dei primi documenti della NATO su questi piani è il saggio del settembre 2020 “NATO’s Sixth Domain of Operations” , scritto per conto del NATO Innovation Hub (abbreviato: IHub ). Gli autori sono l’americano August Cole , ex giornalista del Wall Street Journal specializzato nell’industria della difesa che da diversi anni lavora per il think tank transatlantico Atlantic Council, e il francese Hervé le Guyader.
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‘Historia magistra vitae…’
Alba Vastano intervista Angelo d’Orsi
Disintermediati dai social e condizionati dal tam-tam h.24 delle news televisive, viviamo in full immersion nell’informazione mainstream e i più, orfani della conoscenza storica e quindi delle dinamiche che hanno segnato i grandi mutamenti sociali, economici e politici, tendono a soffermarsi sui fatti attuali, quasi mai legati propriamente alle fonti storiche che ne accertino la veridicità. E per questo si fa un gran vociare e si dà credito ad affermazioni, spesso totalmente artefatte dal rumor sempre più confuso dei media, e a fittizie verità, scollegate dalla storia.
Così si costruiscono pensieri unici e omologati (che tanto fanno il gioco dei lorsignori del potere) e convinzioni errate che alterano la verità dei fatti. Si può, quindi, affermare che solo chi ha indagato profondamente sui grandi eventi storici che hanno modificato gli aspetti e gli assetti delle comunità (perché la conoscenza della storia è frutto dell’ indagine accurata degli eventi) può comprenderne gli sviluppi e le conseguenze. E allora converrebbe porsi degli interrogativi sui grandi fenomeni che dal passato s’intrecciano con il presente e determineranno il futuro dei popoli, in particolare delle generazioni a venire.
Pertanto è ‘cosa buona e giusta’, soprattutto utile per svelare e per conoscere la verità sostanziale dei fatti storici, porre le più scottanti questioni che agitano oggi la nostra esistenza a chi della conoscenza della storia ne fa ‘… vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis» (Cicerone, De Oratore, II, 9, 36).
Nell’intervista che segue, il professor Angelo d’Orsi, illustre storico, risponde agli interrogativi sui grandi eventi di oggi, legando gli eventi in corso alle dinamiche storiche del passato.
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Andrà tutto bene per l’Europa?*
di Valerio Romitelli
Le ricadute della guerra in Ucraina rischiano di avere effetti a catena disastrosi per l’Ue: tali da riconfigurare il vecchio continente, come nessuna crisi finanziaria, lotta sociale, rivolgimento politico o ristrutturazione economica abbiano mai fatto almeno dal crollo del muro di Berlino ad oggi.
Le cause più dirette di un simile possibile sconvolgimento a venire sono note e molteplici. Tra di esse anzitutto le restrizioni nella fornitura di gas e altre materie prime da parte della Russia difronte all’inasprimento delle sanzioni nei suoi confronti da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ma anche l’intensificarsi della corsa al riarmo istigata dalla Nato e coinvolgente persino quella Germania la cui nulla autonomia militare è stata la condizione del suo primato economico nel seno dell’Ue a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Né va sottovalutato quanto una fedeltà atlantica e un’ostilità antirussa particolarmente esibite stiano favorendo il prestigio di paesi come la Polonia (forse un modello per la stessa Italia a governo Meloni?) già più volte bacchettati dal resto dell’Ue perché considerati poco rispettosi dei suoi valori liberali e democratici.
Gli esempi di ciò che ne potrà seguire sono anch’essi noti e molteplici. Tra di essi, uno dei più recenti è la chiusura dell’impianto della russa Lukoil insediata da anni in Sicilia che rischia di gettare in miseria all’incirca diecimila persone e desertificare tutta la zona tra Siracusa e Catania, finora una delle più produttive dell’isola. Ma di fronte all’aumento dei costi energetici nessuno sa quale possa essere il destino di ogni attività economica e di assistenza sociale nel seno dell’Ue, dove oltretutto la fatidica transizione Green sta perdendo quella priorità finora conclamata come assoluta.
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USA, NATO, UE l'abbraccio inscindibile fra i tre dell'apocalisse
di Carlo Formenti
I. Le guerre illegali della NATO. Sul libro di Daniele Ganser
Daniele Ganser è uno storico svizzero che insegna all'Università di San Gallo, dirige l'Istituto Svizzero per la Ricerca sulla Pace e l'Energia ed è autore di libri che hanno suscitato l'ira degli ayatollah atlantisti, come La storia come mai vi è stata raccontata. Gli eserciti segreti della NATO, uscito in edizione italiana qualche anno fa per i tipi di Fazi. Sempre Fazi manda in libreria il suo ultimo lavoro, Le guerre illegali della NATO, che si spera possa insufflare qualche dubbio nelle teste di quelli che si bevono le balle di un sistema mediatico occidentale ormai ridotto a dispensatore di veline per conto di Washington. Eppure questo libro, che i detrattori hanno già iniziato a bollare come “complottista”, non svela alcunché di nuovo o inedito: si limita perlopiù a riportare ciò che gli stessi vertici dell'Amministrazione Usa e dell'Alleanza Atlantica hanno ammesso qualche anno dopo eventi che i media avevano manipolato per ingannare l'opinione pubblica mondiale (del resto, se le menzogne emergono dopo un congruo intervallo di tempo il loro impatto è nullo, o comunque non basta a rimediare al danno provocato all'epoca in cui sono state diffuse).
Ma passiamo ai contenuti del libro a partire dal titolo. Perché Ganser definisce illegali le guerre della NATO? La risposta è che nessuno dei conflitti (con l'eccezione della prima guerra contro l'Iraq provocata dall'invasione del Kuwait) scatenati da Washington e dai suoi alleati soddisfa i requisiti fissati dall'ONU nel 1945, secondo i quali la guerra come metodo di risoluzione del conflitto fra le nazioni aderenti all'Organizzazione è ammessa solo in due casi: il diritto all'autodifesa e un mandato formale da parte del Consiglio di sicurezza.
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Vietato parlare di neoliberismo
di Lorenzo Zamponi
Il neoliberismo non va neppure nominato perché non è un’ideologia che contiene opzione di politica economica tra le tante: viene presentato come la legge naturale dell’economia e della società
È solo l’ultima di tante storie simili. Una ricercatrice scrive su una testata online un articolo sulle proteste in Iran in cui usa la parola «neoliberista» per definire le politiche del regime degli ayatollah. Su Twitter si scatena l’inferno: centinaia di account attaccano lei, la rivista e la sua tesi, per aver osato usare quella parola. Come se i regimi autoritari non avessero una politica economica. La stampa di area salta sopra alla storia, e Carlo Calenda ci mette la ciliegina insultando pubblicamente la ricercatrice. Una storia di ordinaria follia social in un paese in cui il dibattito pubblico sulle questioni economiche è ostaggio di tabù e paletti che risulterebbero incomprensibili e fuori tempo in tutto il resto dell’Occidente. Dietro questa storia ci sono i meccanismi perversi del circuito mediatico-social che sta portando i liberali italiani ad assumere linguaggi, stili e comportamenti trumpiani. Ma se la leghiamo alla canea che ha accolto l’uso del termine «neoliberismo» nel percorso congressuale del Partito demodratico, questa storia ci dice qualcosa di più: quella parola deve restare un tabù perché, per il pensiero dominante, nessuna persona e nessun movimento di massa può essere influenzato da istanze socioeconomiche, e perché citare il neoliberismo come un’ideologia significa minarne lo status di legge naturale universale che caratterizza le ideologie dominanti, e indicare quindi la possibilità di immaginare e creare altri mondi possibili.
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We shall live again: i fantasmi, la violenza, l’utopia
A proposito dei fantasmi di Avery Gordon
di Stefania Consigliere
Avery Gordon, Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica, DeriveApprodi, Roma 2022,291 pp., 20,00€
La proposta teorica è magnifica e sconvolgente: il fantasma è la traccia di una violenza. Una traccia ben presente e attiva, anche se invisibile. Qualcosa in cui si può andare a sbattere, senza preavviso, perché esiste nel mondo, al di fuori di noi, come segno di un passato che non può passare perché nessuno ancora gli ha dato ciò che gli spetta.
Qualcosa è successo – proprio qui, nel punto dove si affollano i turisti, nella terra di nessuno fra gli ultimi palazzoni e la spiaggia, dietro una malandata fermata di autobus – che ha segnato il luogo con il dolore, il dominio e l’orrore. La ferita non è mai stata curata: forse perché, quando la violenza ha colpito, non si è potuto far altro che fuggire; o forse perché, nel tentativo di sopravvivere a molta altra violenza subentrante, è stata dimenticata. Il tempo è passato e nessuno ha rimediato a quel gesto brutale. Ma potrebbe anche trattarsi di una violenza del presente, quella che incessantemente deve ripetersi, giorno dopo giorno, perché la macchina letale del capitalismo possa continuare a macinare plusvalore. La violenza strutturale, incarnata nel modo stesso in cui “le cose funzionano” è proprio questo: la continua produzione di disumanizzazione, dolore, oppressione, gerarchie; un continuo sparger sale su ferite già aperte; un’infinita produzione di spettri muti e dolenti.
Chi vede i fantasmi della violenza, chi si ostina a pensare che la modernità abbia troppi punti ciechi, chi non riesce mai a ritrovarsi nei resoconti ufficiali troverà in Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica di Avery Gordon, appena uscito per DeriveApprodi, un vero e proprio manuale di sopravvivenza etica ed epistemologica.
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Perchè la sinistra non impara a usare il meme?
Adorno, videogiochi e Stranger Things
Prefazione all'edizione italiana di Mike Watson
Mike Watson: Perché la sinistra non impara a usare il meme? Adorno, videogiochi e Stranger Things, Meltemi 2022
Mike Watson attualizza gli strumenti della teoria critica per riflettere sul rapporto odierno tra arte, industria culturale e politica. La principale questione su cui si concentra l’autore è l’incapacità della sinistra di vedere sia i lati positivi sia quelli negativi nello sviluppo di Internet e, di conseguenza, la particolare cultura della produzione e della ricezione delle immagini che lo accompagna. Secondo Watson, quella sinistra che voleva portare l’immaginazione al potere, salvo poi sposare la razionalità dei sistemi astratti e tecnocratici, può trovare nuova linfa vitale proprio nelle odierne tattiche di comunicazione politica. In tal modo, infatti, essa supererebbe tanto la condanna in stile anni Novanta di essere un baluardo della cultura del libro e del sapere alfabetico – dunque radical chic –, quanto quella più recente di essere parte di un’élite che difende la razionalità astratta del sistema – dunque dell’establishment – dimenticando le esigenze e i movimenti che spingono dal basso per rinnovare la società.
* * * *
Che i ragazzi appassionati di meme dell’alt-right abbiano potenzialmente aiutato Donald Trump a vincere la presidenza nel 2016 è un fatto ben documentato, anche se non necessariamente comprovato. Quello che sappiamo per certo è che la libertà messa a disposizione da Internet, in quanto piattaforma di pubblicazione, ha permesso a una forma deleteria di immaginario di destra di diffondersi a livello globale, trasformandosi in una chiamata all’azione per gli estremisti di destra, come abbiamo visto a Charlottesville e durante l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
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La New Recession e l’affaire Ucraina
di Antonio Pagliarone
La tradizione di tutte le generazioni passate pesa come un incubo sul cervello dei vivi.(Marx Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte)
Attualmente anche i media e gli osservatori mainstream hanno smesso di esaltare la probabile ripresa economica dopo le condizioni catastrofiche provocate dal terrore per il Covid. Purtroppo viviamo in un epoca costellata da eventi spettacolari che hanno ridotto la gente comune ad essere terrorizzata da qualsiasi fenomeno: dal terrorismo islamico alla pandemia, dai cambiamenti climatici catastrofici alla guerra nucleare. Ora si è aggiunto lo spauracchio dell’inflazione.
Inflazione
E’ da tempo che i media e gli osservatori più comuni puntano il dito sull’ aumento eccezionale dei prezzi che ha portato a livelli di inflazione mai visti negli ultimi decenni. Inoltre la tanto decantata crescita poderosa, inevitabile dopo la pandemia, decantata dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Fed, dalla BCE e da economisti dai facili entusiasmi, si è sgonfiata a tal punto che si paventa una New Recession.
A parte il problema della guerra in Ucraina che vedremo in seguito, possiamo notare dal grafico 1 che l’andamento oscillante dell’inflazione osservabile nell’ultimo decennio, registrato per gli USA e per l’Europa, è stato interrotto da un’impennata che inizia verso la fine del 2020 ben prima della guerra in Ucraina ed in piena pandemia1.
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Corte incostituzionale o incompetente?
di Davide Gionco
640 giorni prima di pronunciarsi
Lo scorso 1° dicembre 2022 la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale e della sospensione dal lavoro e dallo stipendio per gli operatori sanitari inadempienti all’obbligo di vaccinazione contro il Covid-19. Responso: “Le scelte del legislatore sull’obbligo vaccinale del personale sanitario sono non irragionevoli, né sproporzionate”.
Non intendo entrare nel merito dell’imparzialità politica della Corte. I meccanismi di nomina dei membri sono noti e ciascuno è in grado di giudicare se le nomine vengano fatte per garantire i cittadini o altri interessi di parte del mondo della politica.
La Corte si è dovuta pronunciare a seguito del ricorso fatto da uno dei soggetti aventi diritto. Lo aveva fatto il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, in una ordinanza del 22.03.2022, contro il Decreto Legge 44/2021 del 01.03.2021, successivamente convertito in legge il 28.05.2021, dopo che già il Consiglio di Stato si era pronunciato favorevolmente al provvedimento con la sentenza n. 7045 del 20.10.2021.
Per chi non ne fosse al corrente, il D.L. 44/2021 prevedeva la sospensione dal lavoro e dallo stipendio degli operatori del settore sanitario (compresi gli amministrativi), i docenti ed il personale della scuola, i militari e le forze di polizia.
Ora non vogliamo entrare nel merito della correttezza formale della sentenza, in quanto il sottoscritto non ha le competenze.
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L’angelo della storia. Rileggendo Benjamin
di Alessandro Visalli
“9. C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”[1].
Siamo nel 1940, una data decisiva per comprendere il testo, Walter Benjamin rompe radicalmente, nel manoscritto detto delle “Tesi di filosofia della storia”[2] con tutta l’ideologia del progresso che è tanta parte del marxismo. L’operazione che il grande intellettuale ebreo compie è di ibridare nel corpus rivoluzionario marxista elementi derivanti sia dalla critica romantica della civilizzazione, sia dalla tradizione messianica ebraica. Sono allora sedici anni, da quando ha incontrato il marxismo attraverso la lettura di Lukács e l’incontro caprese con la russa Asja Lacis, e quindici da quando in “Strada a senso unico”[3] riconosce nella rivoluzione un esito non già inevitabile, o naturale, quanto una sorta di estrema difesa davanti al disastro. Un “tagliare la miccia accesa” prima dell’esplosione.
Il lavoro che compie sul marxismo, in particolare a metà degli anni Trenta, è da allora rivolto a dissotterrare le componenti romantiche ed antiborghesi che lo stesso Marx recepisce, ma che sono sepolte abbastanza accuratamente dal marxismo tedesco nella fase della sua affermazione politica.
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Centralizzazione della proprietà e capitalismo contemporaneo
A proposito di “La guerra capitalista”
di Andrea Fumagalli
A distanza di 10 mesi dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russia sono usciti alcuni interessanti saggi che analizzano la nuova situazione geo-politica e riflettono sulle possibili tendenze internazionali[1]. Tra loro merita sicuramente un posto in prima fila il recente contributo di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano, 2022, uscito in libreria lo scorso 25 novembre.
Il libro è suddiviso in tre parti, con l’aggiunta di tre appendici finali e una postfazione di Roberto Scazzieri. La prima parte inizia con la “sconcertante presa d’atto di un Marx ‘rapito dal nemico’: tanto dimenticato dai sedicenti tribuni degli oppressi del nostro tempo quanto studiato e rivalutato dagli agenti del capitale” (p. 10). Tale punto di partenza è particolarmente utile per soffermarsi sulla marxiana “legge di centralizzazione”, il nodo teorico che ha più affascinato la riscoperta mainstream di Marx all’indomani della crisi finanziaria globale del 2007. Nel testo, infatti, gli autori propongono “una nuova teoria della riproduzione e della tendenza verso la centralizzazione capitalistica, un approccio che si contrappone al paradigma teorico mainstream ma solleva obiezioni anche ai filoni di pensiero critico che hanno ridotto il marxismo a un intoccabile reliquiario anti-scientifico, o che da lungo tempo tacciono sul grande tema delle “leggi” generali”. (p. 10).
A partire da queste premesse, la seconda parte approfondisce l’evidenza empirica della tendenza della centralizzazione capitalistica, che viene definita “un inedito della letteratura scientifica in materia” (p. 10).
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Regionalismo differenziato e UE
di Gerardo Lisco
Le riflessioni che seguono traggono spunto dalla presentazione del saggio del prof. Gian Paolo Manzella, consigliere SVIMEZ e già sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico con il Governo Conte 2, tenutasi a Potenza lo scorso 2 dicembre ed organizzata dal comitato “Comunità e sviluppo Basilicata” di concerto con la stessa SVIMEZ. Manzella è funzionario del Fondo Europeo per gli Investimenti, quindi, potremmo dire, “persona informata sui fatti”.
L’opera si presenta come un saggio di storia della politica regionalista a partire dagli albori della Comunità fino al Next Generation EU. Le differenze e le problematiche territoriali dell’Europa sono tali e tante che la questione regionale è stata centrale sin dall’inizio ed ha influito sugli sviluppi successivi che hanno portato all’attuale Unione Europea. La questione regionale è importante per una serie di questioni che non incidono solo sull’aspetto delle politiche economiche messe in campo dell’UE. Spesso si è fatto leva sulle regioni per ottenere il superamento dei singoli Stati nazionali e poter costruire quella “cosa” che oggi non è uno Stato ma solo un insieme di apparati burocratici e tecnici oltre che di istituzioni politiche, percepita come lontana da diversi milioni di cittadini europei, non solo italiani.
Da Maritain fino a De Benoit, pur se con sfumature più o meno marcate, in molti sono coloro che hanno teorizzato il superamento degli Stati nazionali in funzione della costruzione di quelli che per alcuni dovrebbero diventare gli “Stati Uniti d’Europa”. Il regionalismo che contraddistingue l’azione politica dei singoli Governi Europei, dal Trattato di Roma in poi, è motivato dalla necessità di superare i divari e le disuguaglianze tra le varie regioni europee al fine di costruire un sistema coeso capace, appunto, di superare le differenze tra i singoli Stati che progressivamente hanno aderito alla formazione di ciò che oggi è l’U.E.
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Antropocene, Capitalocene e altri “-cene”
Perché una corretta comprensione della teoria del valore di Marx è necessaria per uscire dalla crisi planetaria
di Carles Soriano
La percezione di vivere in un periodo storico critico per quanto riguarda le condizioni di abitabilità sulla Terra – non solo per gli esseri umani ma anche per molti altri organismi viventi – sta guadagnando sempre più adepti tra la gente comune, gli accademici, i politici e i movimenti sociali.
Questo periodo critico è stato presentato come la crisi planetaria dell'Età dell’Antropocene e gli studi intrapresi nel presente secolo mostrano che le condizioni di abitabilità sulla Terra si stanno progressivamente deteriorando.[1] C'è anche una percezione crescente, anche se meno diffusa, della stretta relazione tra la crisi dell'abitabilità in corso e l'odierna società capitalistica mondiale. Questa percezione si basa più sull'intuizione e sulla corrispondenza storica degli indicatori della crisi planetaria col modo di produzione sociale capitalistico che su studi scientifici che dimostrano che la crisi è una necessità strutturale della riproduzione del capitale. Di conseguenza, per denominare il periodo storico attuale sono stati coniati numerosi termini alternativi ad Antropocene. Sebbene termini come Plantationocene, Chthulucene, Growthocene, Econocene, Pyrocene, Necrocene e così via possono avere un valore provocatorio, è anche vero che si basano su una comprensione incompleta della crisi in corso. Tra le alternative ad Antropocene, Capitalocene è il termine che ha subìto un sviluppo concettuale più profondo. Tuttavia, il concetto di Capitalocene non è privo di importanti malintesi sulla crisi e sul suo rapporto con i fondamenti del modo capitalistico di produzione sociale fondato sulla riproduzione del capitale.
Lasciarsi alle spalle la crisi planetaria richiede una comprensione scientifica del funzionamento della Terra come sistema naturale integrale, e a questo scopo devono essere coinvolte molte discipline delle scienze naturali.
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Uno sguardo altro sulla Cina contemporanea e le sue contraddizioni di classe
di Sandro Moiso
Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 200, euro 12,00
La prima cosa che salta all’occhio, fin dalla lettura delle prime pagine, nel testo prezioso appena pubblicato dalle Edizioni Porfido è che a differenza dell’Italietta, in cui la sinistra antagonista troppo spesso continua a portarsi appresso le incrostazioni del gramscismo e di un certo operaismo ancora influenzato da brandelli di maoismo, in altre e ben più significative aree del mondo, in questo caso Cina e Stati Uniti, il riferimento ai linguaggi e alle esperienze teoriche della Sinistra Internazionalista costituisce una solida base per l’analisi dei più importanti fenomeni sociali, politici ed economici e delle inevitabili contraddizioni di classe che hanno contraddistinto la Repubblica Popolare Cinese dalle sue origini fino a oggi.
Indagare sulle origini e le ragioni dell’attuale salda integrazione della Cina nella “comunità materiale del capitale” è il compito che si sono posti i membri del collettivo comunista internazionalista Chuaˇng, gruppo anonimo i cui membri si distribuiscono appunto fra la Cina e gli Stati Uniti. Il carattere Chuaˇng, da cui il collettivo prende il nome, in cinese è riassumibile nell’immagine di un cavallo che sfonda un cancello e riveste il significato simbolico di liberarsi, attaccare, caricare, sfondare, forzare l’entrata o l’uscita: agire con impeto.
Da alcuni anni le pubblicazioni sull’omonima rivista e la serie di articoli traduzioni e interviste ospitate sul blog chuangen.org, rappresentano una delle fonti di informazione e analisi più attente e pertinenti sulle dinamiche e le traiettorie delle trasformazioni sociali e del conflitto di classe nella Cina attuale.
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Da Hitler a Schelling
di Enzo Traverso
Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
La distruzione della ragione è un libro costruito come l’atto d’accusa di uno spietato procuratore che chiama alla sbarra gli imputati, vale a dire i protagonisti di due secoli di filosofia tedesca. Egli scruta attentamente le prove, frammentarie ma strettamente correlate, di un unico processo che alla fine svela la magnitudine del crimine. Le accuse descrivono un paesaggio variegato e impressionante. Per molti aspetti, l’atto d’accusa di Lukács evoca la procedura ermeneutica del romanzo poliziesco brillantemente studiato da Siegfried Kracauer all’inizio degli anni Venti. La hall dell’hotel dove, alla fine del romanzo, il detective riunisce tutti i personaggi per svelare l’assassino, illustrare il misfatto e comprenderne i moventi, è una sorta di “immagine rovesciata della casa di Dio”1. Dio è sostituito dalla ragione – Kracauer preferisce il termine Ratio – e l’investigatore svolge il ruolo di un sacerdote laico che celebra la liturgia della ragione trionfante. La ragione sconfigge la follia e i suoi argomenti sono inconfutabili, grazie alle molteplici prove che ne corroborano le accuse. Kracauer stesso adottò questo metodo inquisitorio nella sua opera più famosa, Da Caligari a Hitler (1946), che presenta molte affinità con La distruzione della ragione. Il crimine è stato perpetrato, conosciamo l’assassino e l’investigatore ricostruisce rigorosamente la genealogia dei suoi orribili misfatti, citando i complici, la dinamica delle azioni, le circostanze che hanno accompagnato ogni suo passo e che sono state “oggettivamente” – poco importa se consapevolmente o inconsapevolmente favorite da molti altri testimoni e personaggi secondari. Secondo Kracauer, i film di Weimar hanno senza dubbio rivelato “la preponderanza di tendenze autoritarie” che divenne “un fattore decisivo” per l’avvento del nazional-socialismo. “Irrimediabilmente piombata in uno stato di regressione – egli conclude – la maggior parte del popolo tedesco non poté fare a meno di sottomettersi a Hitler”2.
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