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Ricordo di Luigi Pasinetti
di Nadia Garbellini
Si ringraziano sentitamente Louis-Philippe Rochon e la rivista Review of Political Economy per aver consentito la traduzione in lingua italiana di questo articolo di prossima uscita su Review of Political Economy – April, 2023 – 35 (2)
Scrivere queste righe è straordinariamente difficile. Luigi Pasinetti è il mio maestro, ma soprattutto ero legata a lui da un affetto profondo. Sentirò immensamente la sua mancanza.
L’ho incontrato per la prima volta alla fine del 2006. All’epoca, stavo scrivendo la mia tesi magistrale in Economia Politica, a Pavia. Avevo detestato praticamente ogni cosa studiata in quei cinque anni; avevo fretta di laurearmi e trovare un lavoro, e ho chiesto di essere mio relatore all’unico professore il cui corso alla magistrale avevo seguito con interesse: Gianni Vaggi. Che cambiò ogni cosa.
Mi diede da leggere il libro del 1981, e mi assegnò il compito di confrontarne lo schema teorico con quello (neoclassico) dei modelli di crescita endogena. Io non sapevo nulla di questa contrapposizione – avevo seguito il corso introduttivo di Giorgio Lunghini al primo anno della triennale, ma allora non avevo gli strumenti per cogliere certi aspetti.
Ho scoperto un intero approccio alternativo molto più convincente di quello che ero stata costretta a studiare per cinque anni. C’erano però tante cose che faticavo a capire; avendo scoperto che Pasinetti era Professore Emerito alla Cattolica decisi di provare a scrivergli per porgli alcune domande.
Mi rispose quello stesso giorno. La settimana seguente eravamo a pranzo insieme alla mensa di Via Necchi. Pochi mesi dopo, appena laureata, ho iniziato ad aiutarlo con la correzione delle bozze di ‘Keynes and the Cambridge Keynesians’ (2007) e con il libro sulla teoria del valore che è stato la sua ultima fatica.
Ricorderò sempre quegli anni con grande tenerezza e riconoscenza.
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Il prestito al tulipano: ancora a lezione da Dgiangoz. Cronache marXZiane n. 10
di Giorgio Gattei
1. Allorquando si presenta un sovrappiù di produzione, ossia un surplus rispetto a ciò che serve per riprodurre l’attività economica sulla stessa scala precedente, si aprono due questioni assai differenti. La prima riguarda la spartizione di quel sovrappiù tra i partecipanti alla sua produzione, che in prima battuta sono i lavoratori con il salario ed i capitalisti con il profitto, ed è per questo che l’astronomo “classico” David Ricardo aveva posto a prefazione dei suoi Principi di economia celeste «la determinazione delle leggi che regolano questa distribuzione (come) il problema fondamentale nell’economia politica». Tuttavia esso non è l’unico (sul quale peraltro si è speso fin troppo inchiostro), perchè ce ne è pure un secondo problema relativo alla destinazione di quel sovrappiù: che farsene, servirsene per accrescere la base produttiva già in essere (accumulazione) oppure consumarlo improduttivamente ossia, per dirla con Piero Sraffa, non utilizzarlo «né come strumento di produzione né come mezzo di sussistenza per la produzione di altre merci»? Come al solito questo secondo problema era già stato ottimamente colto da Karl Marx, il massimo geografo di quel nuovo pianeta comparso nel cielo dell’economia che da lui ha preso il nome, che così ne aveva discusso nel Capitale. Critica dell’economia celeste a proposito della “Trasformazione del plusvalore in capitale”: «la produzione annua deve fornire in primo luogo tutti quegli oggetti (valori d’uso) coi quali si debbono reintegrare le parti materiali del capitale consumate nel corso dell’anno. Detratti questi, rimane il prodotto netto o plusprodotto, nel quale ha sede il plusvalore.
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Il perturbante contro Freud
di Paolo Virno
Pubblichiamo un estratto di una riflessione di Paolo Virno a partire dal saggio Il perturbante di Freud. Per il testo completo rimandiamo allo «scavi» Sintomi. Per un'antropologia linguistica del mondo contemporaneo, scaricabile qui: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/sintomi-per-un-antropologia-linguistica-del-mondo-contemporaneo.
Convenevoli
Propongo una riflessione sul buon uso di una operetta di Freud, Il perturbante. La mia lettura è schiettamente unilaterale, sicché darò poca o nessuna importanza ad alcuni temi lì presenti, a spudorato vantaggio di altri. Del resto, chiunque si sia imbattuto in questo minuscolo e famosissimo saggio, ne ha sperimentato l’indole magmatica, centrifuga, a tratti incoerente. Un approccio partigiano e selettivo, oltre che giustificato, è raccomandabile, anzi necessario.
La riflessione prevede due movimenti distinti, che si sostengono a vicenda come avversari di lotta libera, in lizza tra loro e però solidali. Quel che cambia è la postura teorica, nonché la passione predominante. Lo stato d’animo del chiosatore scontento e supercilioso cede il posto a quello di chi, liberatosi da una ipnosi resinosa, dice serenamente come stanno davvero le cose.
Da principio, in preda alla buona educazione, perlustro e recensisco Il perturbante. Sia pure con la preannunciata unilateralità, mi sforzo di mettere in rilievo le sue articolazioni interne e i chiodi fissi su cui batte e ribatte. Il commento del testo, in qualche caso minuzioso, si prefigge di criticare a fondo le principali convinzioni che vi sono espresse, ventilando possibili deviazioni e alternative. Ma le deviazioni, anche se brusche, e le alternative, talvolta ambiziose, traggono comunque spunto dall’ordito argomentativo dello scritto di Freud. Non sono altro che reazioni polemiche, e una reazione è la conseguenza subalterna, spesso simile a una smorfia o a uno starnuto, delle tesi che l’hanno suscitata.
In seguito (ma la convivenza dei due movimenti rivali si avverte, credo, fin dall’inizio), mi addosso l’onere di delineare una teoria autonoma del perturbante, radicalmente non freudiana, quindi antifreudiana.
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Nucleare? No grazie! In risposta a Thomas Fazi
di Leonardo Mazzei
Un’indagine impeccabile sulla questione dell’uso civile dell’energia nucleare, una critica frontale a chi si ostina a non capire o fa finta di farlo
L’articolo di Thomas Fazi — «Perché l’Occidente dovrebbe diventare nucleare» — lascia sinceramente sconcertati. Se il titolo è già un programma, il contenuto è un vero concentrato di luoghi comuni, di superficialità, di cieca adesione alla narrazione della lobby nucleare. Ma la cosa più sconcertante è che l’autore non è un propagandista della casta neoliberista al potere. Al contrario, Fazi si definisce un “sovranista di sinistra”, ed in base ai suoi scritti che conosciamo la definizione ci appare alquanto corretta.
E’ qui che il problema si fa più inquietante. Cosa spinge un “sovranista di sinistra” ad assumere una posizione del genere? Se l’articolo in questione fosse stato opera di un qualsiasi fanatico dell’atomo, come quelli che calcano il palcoscenico mediatico da mezzo secolo, ci sarebbe stato ben poco da dire. Che l’abbia invece scritto uno come Fazi lascia piuttosto interdetti.
La cosa è dunque intrigante. E una risposta è francamente dovuta. Del resto, non si tratta di un caso isolato. Alla fine dello scorso mese di ottobre sono stato invitato dagli amici di Pro Italia ad un loro convegno sull’energia. In quella sede ho rappresentato le ragioni del no al nucleare, confrontandomi in una tavola rotonda con Fulvio Buzzi, un PhD in Ingegneria Energetica, convinto sostenitore del sì all’energia atomica ed amministratore della pagina Facebook L’Avvocato dell’Atomo.
Il gruppo che si raccoglie attorno a quella pagina è un club di sfegatati sostenitori dell’energia nucleare, ma L’Avvocato dell’Atomo è anche il titolo di un libro di Luca Romano, edito proprio da Fazi Editore. Che dire? Il cerchio si chiude.
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Graeber: l’antropologia e le alternative possibili
di Lorenzo Velotti
Oggi [12 febbraio 2023] David Graeber avrebbe compiuto 62 anni. Per ricordare l’antropologo scomparso nel settembre 2020, pubblichiamo oggi la postfazione di Lorenzo Velotti a Le origini della rovina attuale, tradotto dall’inglese da Carlotta Rovaris, pubblicato da E/O nel settembre 2022 nella collana BPM, curata da Goffredo Fofi. Ringraziamo l’editore per averci consentito la pubblicazione di questo contributo [Gli asini]
L’idea di accogliere David Graeber tra gli autori della Piccola Biblioteca Morale risale all’inizio del 2020. Avremmo voluto fare un libro-intervista: ne avevo parlato a lungo con David che, da vivo sostenitore della natura essenzialmente dialogica del pensiero, ne era entusiasta, e avevamo pianificato sei ore di conversazione. Vivevo a Londra, l’anno precedente ero stato un suo studente, avevamo stretto un rapporto e, in quel periodo, ci vedevamo soprattutto in conviviali contesti di lotta politica. Partendo dalla considerazione che Graeber – grande nome dell’antropologia contemporanea e punto di riferimento dell’attivismo libertario (soprattutto nel mondo anglosassone e in Francia) – non fosse altrettanto conosciuto nel panorama italiano, pensavamo potesse essere utile trattare alcuni dei problemi contemporanei, italiani e globali, a partire dai suoi studi e dalla sua esperienza.
L’idea, purtroppo, non si concretizzò. Ci dicemmo che avremmo fatto le interviste non appena fosse finita la pandemia, ignari di quella che ne sarebbe stata l’effettiva durata. A settembre 2020 Graeber ci lasciò all’improvviso, mentre si trovava in vacanza a Venezia dopo aver terminato il suo ultimo libro, L’alba di tutto (Graeber e Wengrow, 2022). In tanti – studenti, amici, attivisti – ci rendemmo conto della nostra totale impreparazione di fronte alla mancanza di dialogo con David. Eppure, ci trovammo costretti a trasformarlo in antenato. Per quanto riguarda questo progetto, rimase la possibilità di tradurre in italiano qualcosa di inedito.
Non è stato difficile scegliere la prima parte di Possibilities: Essays on Hierarchy, Rebellion, and Desire (“Possibilità: saggi sulla gerarchia, la ribellione, e il desiderio”).
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Il rapporto sociale «che si presenta in una cosa»
Legge del valore, carattere di feticcio e metodo della critica dell’economia politica: una lettura del primo capitolo del Capitale
di Federico Simoni
1. Introduzione
Diversi studiosi marxiani hanno recentemente sostenuto che nel Capitale Marx elaborerebbe, più o meno consapevolmente, una vera e propria rivoluzione epistemologica. Secondo Michael Heinrich, il pensatore di Treviri presenta nel primo capitolo dell’opera il concetto, del tutto originale, di “forma [sociale] oggettuale di una cosa”, rapporto sociale “che si presenta (darstellt) in una cosa”1 . Tale concetto innerverebbe sia la sua teoria del valore sia quella del feticismo delle merci, entrambe presentate in tale capitolo. Esso non è in effetti altro che il valore delle merci:
La forza-lavoro umana allo stato fluido, ovvero il lavoro umano, costituisce valore, ma non è valore. Esso diventa valore allo stato coagulato, in forma oggettuale [gegenstandlicher Form ]. Per esprimere il valore della tela come gelatina di lavoro umano, esso deve essere espresso come una ‘oggettualità’ [ Gegenstandlichkeit] che sia distinguibile, cosalmente [dinglich], dalla tela stessa e che, allo stesso tempo, sia ad essa in comune con altre merci2.
Per Tommaso Redolfi Riva, in Marx “il carattere di feticcio che assume la socializzazione del lavoro nel modo di produzione capitalistico, il suo carattere oggettuale, è l’origine del feticismo nell’economia politica”3. Il nesso sociale tra produttori privati si trova, in questo “valore”, per così dire tradotto in forma di rapporto di cose. Il valore non rappresenta perciò una qualità dei prodotti come tali (in sé indipendente da questa forma determinata, socialmente e storicamente, dello scambio). Esso è però parimenti forma oggettuale, ovvero compare necessariamente in forme e rapporti di cose, dei prodotti del lavoro, in virtù diretta di tale nesso. Questo per Marx diviene ed opera realmente come un’oggettualità di fronte ai soggetti sociali stessi che lo attuano, predeterminando la forma della loro “azione sociale”4.
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Slittamento di paradigma
Paradossi, nonsense e pericoli di una svolta storica
di Piero Pagliani
Nell'analisi che segue enuncio quelli che mi sembrano dei dati di fatto, tiro alcune somme, pongo una domanda per rispondere alla quale avanzo un'ipotesi sull'oggi e due sul domani concludendo con un'assunzione che in modo irrituale espongo alla fine e non all'inizio. In specifico:
Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.
Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d'attrazione russo.
Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.
Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.
Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo).
La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?
Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.
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Soldati italiani nell’Europa dell’Est. 1500 pronti alla guerra con la Russia
di Antonio Mazzeo
In meno di un anno è aumentato di cinque volte il numero dei militari italiani schierati in Europa orientale alle frontiere con Ucraina, Russia e Bielorussia. Sui 7.000 effettivi impiegati attualmente in missioni internazionali quasi 1.500 operano in ambito NATO nel “contenimento” delle forze armate russe. A partire del 2014 l’Alleanza atlantica ha dato vita ad un’escalation bellica sul fianco est come mai era accaduto nella sua storia. Nelle Repubbliche baltiche, in Polonia, Romania, Bulgaria e Ungheria, sono state realizzate grandi installazioni terrestri, aeree e navali, sono state trasferite le più avanzate tecnologie di guerra, sono state sperimentate le strategie dei conflitti globali del XXI secolo con l’uso dei droni e delle armi interamente automatizzate, cyber-spaziali e nucleari.
A seguito dell’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 il processo di riarmo e militarizzazione dell’Europa orientale è pericolosamente dilagato e ancora oggi appare inarrestabile. E l’Italia c’è con le sue truppe d’élite, le brigate di pronto intervento, gli obici, i carri armati e i cacciabombardieri “gioielli di morte” del complesso militare-industriale nazionale e dei soci-partner stranieri, primi fra tutti USA e Israele. A inizio 2023 il tricolore sventola in Lettonia, Ungheria, Bulgaria e Romania. E ogni giorno, 24h, le truppe sono in stato d’allerta e si addestrano in condizioni estreme ad ogni possibile scenario di conflitto con il Cremilino, dai combattimenti casa per casa, vicolo per vicolo, piazza per piazza, agli sfondamenti nell’infinito bassopiano sarmatico, finanche all’impiego di armi atomiche, chimiche e batteriologiche e alla “sopravvivenza” al tragico inverno nucleare.
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Munizioni e mezzi corazzati: chi ne produce di più?
Una breve analisi sulla produzione industriale militare di NATO/Ucraina e Russia
di Simplicius76
Cerchiamo di fare il punto sulle prospettive di mantenimento per entrambe le parti, Nato/Ucraina e Russia.
Sappiamo che l’Ucraina utilizza 5.000-6.000 proiettili di artiglieria al giorno e che la Russia è arrivata a spararne fino a 60.000 – anche se si era trattato di un “picco” isolato – mentre la sua media giornaliera nel corso del conflitto è più vicina a 20.000-30.000.
Gli Stati Uniti, autoproclamatisi “potenza” manifatturiera del mondo, producono 14.000 proiettili al mese e hanno recentemente annunciato di “aver triplicato la produzione” portandola a 40.000 pezzi/mese per aiutare l’Ucraina, poi disperatamente corretta a 90.000 per arginare le perdite che l’AFU stava rapidamente accumulando. Anche per gli Stati Uniti, si tratta di uno sforzo abbastanza grande che richiederà circa 2-3 anni per essere portato a termine.
Il motivo è che le aziende produttrici di armi sono riluttanti ad effettuare i necessari e costosi investimenti in attrezzature e personale per aumentare enormemente la produzione quando sospettano che la guerra potrebbe comunque finire presto, con la conseguente perdita delle somme appena spese in attrezzature/personale/addestramento. Questi costi valgono la pena solo se sono garantiti i profitti a lungo termine e, per come si stanno mettendo le cose per l’AFU, le garanzie non sono molto sicure.
Il New York Times ha appena pubblicato un pezzo sulle strutture e le relative capacità di produzione degli Stati Uniti per i proiettili da 155 mm: un processo decisamente arcaico; alcune delle macchine, ammettono, hanno più di 80 anni e non erano state progettate per un’escalation di questo tipo.
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Sentenze della Corte Costituzionale: la "scienza ufficiale" come fonte autonoma del diritto?
di Luigi Luccarini
Con le motivazioni delle tre sentenze relative all’obbligo vaccinale, la Corte Costituzionale dimostra una realtà di cui prendere amaramente atto. In sostanza, ci dice di aver rinunciato ad assumere una qualsiasi posizione critica (non in senso oppositivo, ma nel senso proprio di attività diretta ad approfondire e motivare la valutazione di un fatto o di una situazione). Ed arriva al paradosso, non scritto, ma implicito, di stabilire che la conformità a Costituzione si misuri in base al fatto che una norma rispecchi, o meno, il pensiero del Burioni di turno. Così l’avvocato Luigi Luccarini, in una approfondita analisi sul testo delle motivazioni e sulle ragioni profonde che gli sono sottese.
* * * *
Le sentenze della Corte Costituzionale sulla legittimità dell’obbligo vaccinale per il Covid 19 sono intervenute il primo dicembre dello scorso anno, quando già era stato emanato il D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, che aveva anticipato al 1. novembre la fine di quell’obbligo, per consentire il reintegro di 4.000 sanitari sospesi ed ovviare così ad una carenza di professionalità nel settore, definita dal Governo “preoccupante”.
Un norma indotta da necessità contingenti, insomma, se non da semplice convenienza, che testimonia come l’idea di quell’obbligo fosse dall’origine una scelta “politica” che ben poco aveva a che fare con i principi di diritto, naturale e positivo, che dovrebbero informare il nostro ordinamento.
Era quindi tristemente logico attendersi dalla Consulta, investita del problema di stabilire se l’obbligo ormai venuto meno fosse stato o meno legittimo, una tipica decisione fondata sul “cosa fatta capo ha”, con rigetto di tutte le eccezioni di legittimità costituzionale.
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Ecco dove Hersh ha sbagliato
di Mike Whitney
C’è qualcosa che non quadra nel reportage di Sy Hersh sulla distruzione del Nord Stream 2. Ci sono diverse incongruenze nel pezzo che mi inducono a credere che Hersh non fosse tanto interessato a presentare la “verità nuda e cruda” quanto piuttosto a fornire una versione degli eventi che favorisse una particolare agenda. Questo non vuol dire che non apprezzi ciò che l’autore ha fatto. Lo apprezzo. In effetti, credo sia impossibile sopravvalutare l’importanza di un rapporto che identifica con certezza gli autori di quello che sembra essere il più grande atto di terrorismo industriale della storia. L’articolo di Hersh ha la possibilità di scalzare alla base la credibilità delle persone al potere e, così facendo, portare la guerra ad una rapida conclusione. È un risultato incredibile che dovremmo tutti applaudire. Ecco un breve riassunto dell’analista politico Andre Damon:
Mercoledì scorso, il giornalista Seymour Hersh ha rivelato che la Marina degli Stati Uniti, su indicazione del Presidente Joe Biden, sarebbe responsabile degli attacchi del 26 settembre 2022 ai gasdotti Nord Stream che trasportavano gas naturale tra la Russia e la Germania.
Questo articolo, che è stato accolto dal silenzio totale dalle principali testate statunitensi, ha fatto saltare l’intera narrazione del coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra come risposta all'”aggressione russa non provocata.” L’articolo svela il piano generale per utilizzare l’escalation del conflitto con la Russia per consolidare il dominio economico e militare degli Stati Uniti sull’Europa.
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Elogio dell’eccesso: Babylon
di Sandro Moiso
Non si può certo dire che i giudizi della critica riguardo all’ultimo film di Damien Sayre Chazelle siano stati unanimemente positivi, anzi tutt’altro. Mentre anche l’impatto sul pubblico, a giudicare dagli incassi al botteghino delle prime settimane dopo la sua uscita, non deve aver soddisfatto la società produttrice. Il regista statunitense (classe 1985), figlio di genitori franco-canadesi, che. con il musical La La Land, nel 2017 aveva vinto il Premio Oscar per la miglior regia, diventando il più giovane regista nella storia ad aver vinto la celebre statuetta, torna con Babylon ancora una volta alla sua passione per il cinema, il suo mondo e la sua storia.
Una passione, velata di nostalgia, già espresso nella pellicola vincitrice del premio in cui aveva reso omaggio ai classici film musicali prodotti a cavallo fra gli anni ’50 e ’60. Nel film attuale la rappresentazione dei sentimenti del regista nei confronti del cinema del passato è affidata al personaggio che fa un po’ da trait d’union tra i personaggi e le storie narrate, interpretato dall’attore Diego Calva, riuscendo ad aprire spazi di riflessione su cosa sia stato il cinema, su cosa sia diventato o continui ad essere, superando ampiamente il pericoloso effetto nostalgia canaglia che, scorrendo in sotto traccia avrebbe potuto gravemente menomarne il significato. Facendo sì, invece, che la sua visione risulti stimolante anche per quanto riguarda le possibili riflessioni sull’arte, il sogno e il desiderio in tutte le loro possibili forme.
Di scarso interesse sarebbe riassumerne qui la trama, ripetere gli elogi per la bravura di Margot Robbie, Diego Calva e Brad Pitt e di molti dei comprimari.
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L’effetto-boomerang delle sanzioni contro la Russia
di Giacomo Gabellini
Lo scorso dicembre, Vladimir Putin ha firmato un decreto implicante la sospensione delle forniture nei confronti dei Paesi europei che avevano imposto il tetto al prezzo del petrolio russo – fissato a 60 dollari per barile – trasportato via mare.
Anche se comprensiva di una “scappatoia” che previa debita autorizzazione governativa autorizza l’export di greggio alle nazioni sostenitrici del “tetto”, la misura suggella la torsione a 180° del baricentro energetico-commerciale russo avviata da Mosca sulla scia del rapido deterioramento delle relazioni con lo schieramento euro-atlantico, e nel cui ambito rientra la realizzazione delle condutture Altai, Power of Siberia, China-Russia Eastern Gas Pipeline e Soyuz-Vostok concepite per convogliare il grosso delle esportazioni metanifere russe verso la Repubblica Popolare Cinese.
Un processo epocale, destinato a subire una forte accelerata per effetto del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2 che secondo la ricostruzione formulata dal decano del giornalismo investigativo statunitense Seymour Hersh sarebbe stata perpetrata dagli specialisti della Us Navy, ma reso necessario dalla inaudita campagna sanzionatoria imposta dallo schieramento atlantico in seguito allo scatenamento della cosiddetta “operazione militare speciale” contro l’Ucraina.
Nello specifico, i provvedimenti assunti dagli Stati Uniti e dai loro alleati-sottoposti hanno comportato il congelamento di circa 300 miliardi di dollari detenuti dalla Banca Centrale Russa presso istituti occidentali, lo scollegamento del 75% circa delle banche russe dal circuito di pagamento Swift, il blocco degli investimenti esteri, l’interruzione della fornitura di componenti hi-tech e la recisione del solidissimo legame energetico euro-russo.
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La Banca Mondiale non è amica dei lavoratori né del pianeta
di Pete Dolack
Le politiche facilitano la distribuzione della ricchezza verso l'alto, indipendentemente dai costi umani e ambientali.
Ogni tanto, la Banca Mondiale pubblica un documento in cui chiede una migliore protezione sociale o almeno un trattamento migliore per i lavoratori. Gli addetti alle pubbliche relazioni credono evidentemente che abbiamo la memoria molto corta.
No, caro lettore, la Banca Mondiale non ha cambiato funzione, né gli elefanti hanno cominciato a volare. Senza alcuna ironia, l'ultimo tentativo di amnesia selettiva della Banca Mondiale è quello che chiama la sua Social Protection and Jobs, in cui sostiene che i governi nazionali del mondo debbano «ampliare notevolmente l'effettiva copertura dei programmi di protezione sociale» e «aumentare in modo significativo la portata e la qualità dei programmi di inclusione economica e del mercato del lavoro».
In modo esilarante, la Banca Mondiale intitola il suo rapporto di centotrentasei pagine, che illustra questa strategia Charting a Course Towards Universal Social Protection: Resilience, Equity, and Opportunity for All (pdf).
In questo rapporto, la Banca Mondiale scrive, a chiare lettere, che «riconosce che la progressiva realizzazione della protezione sociale universale (USP), che garantisce a tutti l'accesso alla protezione sociale quando e come ne hanno bisogno, è fondamentale per ridurre efficacemente la povertà e stimolare la prosperità condivisa». Inoltre, il rapporto si basa su un documento precedente che offrirebbe «un quadro generale per comprendere il valore degli investimenti nei programmi di protezione sociale e delineato il modo in cui la Banca Mondiale avrebbe lavorato con i Paesi clienti per sviluppare ulteriormente i loro programmi e sistemi di protezione sociale».
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Sostituzione ed estinzione
di Jacques Camatte
Il capitale offre tutti i miliardi
dei quattro secoli di accumulazione per lo scalpo
del suo grande nemico: l’Uomo.
A. Bordiga
L’impianto dell’agricoltura, dell’allevamento e poi l’invenzione della ceramica nel corso del neolitico portano a far sí che la produzione divenga l’agire fondamentale della specie. Ora, a seguito della separazione dalla natura che ne deriva, s’impone la rottura di continuità e, in modo artificiale, l’impianto di una dinamica di sostituzione di ciò che è naturale da parte dell’artificiale, che fonda la dualità naturale-artificiale: la naturalità che conserva il legame col passato e l’artificialità quello col presente e soprattutto col futuro, che diverrà predominante. Tutto ciò che è immediato, in relazione con la continuità naturale, sarà sostituito, in particolare le relazioni umane. A seguito dell’emergere della diade amicizia-inimicizia, anch’essa derivante dalla rottura di continuità in cui la seconda diventa preponderante in quanto generatrice di una nuova continuità a partire dal discontinuo, che compensi la perdita di quella naturale. Per ciò, occorre che si effettui un movimento che colleghi i discontinui, occorre che si stabiliscano legami tra gli elementi sostituiti al fine di unirli. Ora, legare contiene un’ambiguità, prima di tutto l’idea di unione già menzionata e quella di allacciare per imprigionare. Per cui non essere legati è non dipendere, non essere schiavi o servi. Dato che il bambino è considerato un essere dipendente, diventare adulto significa uscire dalla minorità.
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Dopo la guerra
di Enrico Tomaselli
Quella che si sta combattendo in Ucraina è una guerra ibrida multilivello. Ibrida, in quanto non è combattuta soltanto sul piano militare, ma anche – e fortemente – su quello economico e diplomatico. Multilivello perché, anche se voluta e lungamente preparata dagli USA, che ne sostengono l’onere economico maggiore sul breve termine, vede coinvolti obtorto collo anche gli alleati della NATO, ed in particolare i paesi europei che ne pagheranno i costi più di chiunque altro, ed è infine combattuta sul campo dagli ucraini. Ma, anche se al momento tutti gli attori sembrano lanciati verso il proseguimento del conflitto, questo avrà comunque fine. Cosa accadrà, quindi dopo la guerra, nel campo occidentale?
* * * *
I deficit strutturali della NATO
La questione fondamentale per l’impero americano, e che di fatto già si pone, è come affrontare le sfide cui la guerra ha fatto da acceleratore, e che l’attendono nel dopo. Il dominio USA, almeno sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, si è basato sostanzialmente su tre asset: il potere del dollaro, il potere delle armi, il potere della comunicazione.
Ora il potere della comunicazione si basava fondamentalmente sull’idea degli Stati Uniti come patria del benessere, delle opportunità e della libertà. Un’idea che ha funzionato molto bene, sinché l’alternativa sembrava essere l’austerità sovietica, ma che – finita la guerra fredda – ha perso buona parte del suo appeal, anche a fronte di una rinnovata aggressività americana.
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Il fascioliberismo
Sulla sintonia tra pensiero liberale e prassi autoritarie
di Francesco Sticchi*
La disintegrazione controllata dell’economia mondiale è un obiettivo legittimo per gli anni Ottanta”, affermò Paul Volcker, presidente della FED. Ed è proprio sulla soglia degli anni Ottanta che si svolge Armageddon Time (James Gray, 2022). In uno dei momenti più intensi del film, il “buon” padre di famiglia Irving (Jeremy Strong) confessa al piccolo protagonista Paul (Banks Repeta) di non essere stato un genitore ideale, di odiare le ingiustizie e le diseguaglianze e, allo stesso tempo, di non sapere cosa fare per affrontarle. Il suo monologo continua sottolineando che la vita ha dato a Paul una seconda chance: ha scampato per un soffio il carcere minorile per l’ennesima “monellata” pre-adolescenziale compiuta con l’amico Johnny (Jaylin Webb), il quale, in quanto nero e povero non avrà scampo e si addosserà tutte le colpe del piccolo crimine (il furto di un computer della scuola privata di Paul), accettando un destino segnato da marginalità ed esclusione.
Paul deve, come un contemporaneo Pinocchio, fare tesoro di questa possibilità, smetterla con il sogno di diventare pittore e dedicarsi a studiare qualcosa di serio con la prospettiva di avere un futuro migliore di quello dei suoi; aspirare alla mobilità sociale, al non doversi inchinare di fronte a qualcuno per elemosinare le speranze di una vita “buona”, stabile e sicura (ciò che dovrebbe essere garantito per diritto). Questo monologo/dialogo fra padre e figlio potrebbe essere facilmente associato e comparato a tanti scambi presenti nella storia del cinema (e non solo) con a tema la perdita dell’innocenza, l’inizio dell’età adulta e l’entrata nel mondo reale (e delle responsabilità).
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Ipocrisia sulla guerra
di Sergio Farris
Il 2023 si è aperto con un nuovo rilancio, da parte occidentale, dell'escalation militare nel confronto con la Federazione russa. Il Parlamento italiano ha votato a favore del sesto atto per l'invio di materiale bellico a Kiev.
Se non altro, dovrebbe risultare ancora una volta più nitido che dal centro dell'impero – gli USA – non si mira nel breve termine a una trattativa di pace che possa porre termine al conflitto in Ucraina.
Vinte le resistenze tedesche riguardanti l'approvvigionamento di carri armati Leopard–2 a Zelens'kyj e approvati nuovi provvedimenti di 'aiuti' finanziari e militari da immettere nel 'pozzo senza fondo' ucraino, restano pochi dubbi sul fatto che laddove la nostra classe dirigente parla di 'pace', il termine va decodificato come 'sconfitta, ritiro incondizionato dei russi e integrazione dell'Ucraina nell'ambito di influenza occidentale'.
Si alimenta una continua 'escalation' ma la si definisce ricerca della 'pace giusta'.
D'altronde, fin dal 24 febbraio del 2022 ambiguità e simulazioni semantiche sono parte integrante del racconto sulla guerra che il nostro sistema comunicativo ha avuto cura di propalare.
Il nostro apparato mediatico, riflettendo la posizione politico – culturale prevalente, ha continuamente alimentato ad arte un'interpretazione dell'evento bellico nell'est–Europa tale da trascinare l'opinione pubblica verso una presa di posizione acritica e assolutamente faziosa. Sono stati artificiosamente delineati due campi: quello dei probi democratici filoatlantisti e quello degli esecrabili filoputiniani. Chi, in questi mesi, ha cercato di riconoscere il contrasto di interessi geopolitici al fondo del conflitto, è stato condannato – per direttissima – a far parte del campo dei simpatizzanti del potere russo e, più in generale, di regimi dittatoriali.
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Globalizzazione addio. Ormai è un coro…
di Francesco Piccioni, Guido Salerno Aletta*, Andrea Indini**
Sul fatto che il periodo della cosiddetta globalizzazione sia finito sembra ormai che ci sia un consenso generale. Ma quando si passa dalla constatazione in termini generali, o teorici, agli aspetti concretamente materiali i problemi escono fuori a decine. E tutti di dimensioni “sistemiche”. Ossia, enormi…
In questo articolo vi presentiamo due contributi molto diversi, per contenuto e impostazione, che però convergono nel delineare una situazione economica – per l’Occidente neoliberista – che si va facendo insostenibile. Ma che è stata costruita e preparata proprio dalle scelte compiute dai capitali vincenti, negli ultimi 30 anni.
Ossia dalle multinazionali e dal capitale finanziario “occidentale” (o “euro-atlantico”, come preferiva dire uno dei suoi principali esponenti, mr. Mario Draghi).
Il sempre attento Guido Salerno Aletta, su TeleBorsa, rimette con i piedi per terra l’analisi da fare sulla “rottura” della globalizzazione. Niente geopolitica, che pure ha il suo ruolo, ma ridefinizione delle “catene del valore” a livello mondiale, a cavallo della pandemia da Covid – che le ha pesantemente interrotte e perturbate – e della improcrastinabile “transizione tecnologica” verso una produzione meno devastante in termini ambientali.
“Eravamo abituati così nella manifattura: i bassi costi delle materie prime e delle forniture intermedie consentivano di concentrare la maggior parte del valore aggiunto e quindi dei profitti nell’ultima fase di integrazione dei prodotti, quella che si interfaccia con il consumatore.
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Quali sono le ragioni della guerra della Russia?
di Paul Schreyer
Putin vuole costruire un impero o garantire la sovranità e l’esistenza della Russia? Questa domanda, dalla cui risposta dipende la valutazione della guerra, è ancora poco discussa nei grandi media. Probabilmente perché tutti pensano di conoscere già la risposta. Ma questa certezza può essere politicamente devastante. Una ricerca di indizi
Il 27 febbraio 2022, tre giorni dopo l’inizio della guerra, il cancelliere Scholz ha dichiarato nel Bundestag (video) che il presidente russo stava guidando l’attacco contro l’Ucraina “per una sola ragione”: “La libertà degli ucraini mette in discussione il suo regime oppressivo”. Putin vuole quindi “cancellare un paese indipendente dalla mappa del mondo”, “riorganizzare fondamentalmente le condizioni in Europa secondo le sue idee” e “stabilire un impero russo”.
Da allora, la politica tedesca si è basata su questa argomentazione del Cancelliere, che alla fine è culminata nella decisione degli ultimi giorni di consegnare pesanti carri armati all’Ucraina. I carri armati tedeschi stanno rotolando di nuovo contro la Russia, come lo furono l’ultima volta nel 1941-1945 .
L’argomentazione di Scholz è coerente con l’interpretazione degli Stati Uniti, vi somiglia alla lettera. Tuttavia, è scarsamente o per niente documentato. John Mearsheimer, nato nel 1947 e uno dei politologi più rinomati a livello internazionale, lo ha sottolineato in un saggio dettagliato nel giugno 2022 :
“Si dice che [Putin] abbia ambizioni imperiali: vuole conquistare l’Ucraina e altri paesi per creare una Grande Russia che abbia qualche somiglianza con l’ex Unione Sovietica. In altre parole, l’Ucraina è il primo obiettivo di Putin, ma non l’ultimo. (…) Sebbene questa narrazione sia ripetuta più e più volte nei media mainstream e praticamente da tutti i leader occidentali, non ci sono prove a sostegno. (…)
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L’afonia di un disagio politico-esistenziale
Le società occidentali e la marginalità dell’intelligenza critica
di Gaspare Nevola
Le società occidentali contemporanee racchiudono un disagio spesso afono. Un disagio che nasce dalla storia (anche solo quella recente) e da spinosi problemi irrisolti da una società a dominanza neoliberale che reagisce rimuovendoli, equivocandoli o (più o meno dolcemente) reprimendoli. Un’afonia figlia della marginalità sociale, politica e culturale dell’intelligenza critica. Di questo trattano le riflessioni che qui consegno al lettore.
1. Da dove veniamo?
Su quale strada camminano le società occidentali? Quale cultura politica prevale nelle nostre liberaldemocrazie sotto tensione? A partire dagli anni ’70 dello scorso secolo, la cultura politica dominante tra le élites e, progressivamente, anche a livello di massa si è inchinata al modello di vita ispirato dal neoliberalismo. A ritmo incalzante, il neoliberalismo ha impresso il suo marchio al modo di concepire l’economia e la vita politica, il diritto e la cultura, le relazioni collettive e tra le persone.
Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati occidentali conobbero trent’anni di crescita economica e di diffusione del benessere sociale: sono i “trenta gloriosi” portati alla ribalta dallo storico Hobsbawm nel suo noto Il secolo breve[1]. Siamo all’epoca del “consenso keynesiano”, quando lo Stato interviene massicciamente (e con plauso trasversale tra gli schieramenti politici) a sostegno dei settori strategici dell’economia, a sostegno dell’occupazione, dello sviluppo economico e dei sistemi di tutela sociale delle fasce più deboli della popolazione. Nasce il moderno welfare state e i diritti sociali (istruzione, sanità, pensione, assistenza e sussidi sociali, tutela dei lavoratori) entrano a far parte del sistema democratico della cittadinanza[2].
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Il pensiero di Xi Jinping come marxismo del Ventunesimo secolo
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
B. Brecht: il comunismo “è la semplicità che è difficile a farsi”.
V. I. Lenin: “l’esito della lotta” (tra comunismo e imperialismo) “dipende in ultima analisi dal fatto che la Russia, l’India, la Cina costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione” (mondiale).[1]
He Yiting: “finché il socialismo cinese non cadrà, il socialismo del mondo starà sempre in piedi. Oggi, il grande successo ottenuto dal socialismo con caratteristiche cinesi ha permesso di scrivere il capitolo più splendido dei 500 anni di socialismo mondiale”.[2]
Il pensiero di Xi Jinping come marxismo del Ventunesimo secolo
Dopo la celebrazione da parte di Xi Jinping del bicentenario della nascita di Marx un importante dirigente del partito comunista cinese, il compagno Wang Huning, aveva affermato nel maggio del 2018 che il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era ha “arricchito e sviluppato il marxismo con una serie di importanti visioni e pensieri originali e strategici”, ed è il “marxismo nella Cina contemporanea e del Ventunesimo secolo”.[3]
Nel giugno del 2020 l’importante rivista teorica Tempi di studio pubblicò un articolo del vicepresidente della prestigiosa Scuola centrale del partito comunista cinese, He Yiting, nel quale si affermò nuovamente che il pensiero di Xi Jinping equivaleva al “marxismo per il Ventunesimo secolo”.
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La farsa degli accordi di Tripoli
di Antonio Pertuso
Nel panorama scontato e privo di riflessioni dell’informazione italiana sulla visita del Presidente del Consiglio Meloni in Libia due articoli, entrambi apparsi su “L’Antidiplomatico” hanno fornito un minimo di salutare controcanto:
♦ uno a firma di Michelangelo Severgnini – il pezzo “8 miliardi dalla Meloni a Tripoli per finanziare migrazione e terrorismo”, comparso sul sito “L’Antidiplomatico”(vedi → https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-8_miliardi_dalla_meloni_a_tripoli_per_finanziare_migrazione_e_terrorismo/41939_48605/ )
♦ e l’altro di Giacomo Gabellini: – Il “Piano Mattei” tra realtà e propaganda. –https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_piano_mattei_tra_realt_e_propaganda/39130_48635/
Poiché la questione delle forniture energetiche dalla Libia è un tema di vitale importanza per l’Italia è bene rimanere in argomento e correggere per primo alcune imprecisioni ed errori.
Gli otto miliardi del titolo di Severgnini non sono fondi che vanno (anzi, andrebbero) alle milizie ma investimenti in impiantistica per lo sviluppo di un giacimento marino di gas.
In realtà, come vedremo in seguito, questi fondi non si materializzeranno mai, perché gli accordi firmati a Tripoli sotto gli occhi della Meloni non sono che una farsa, una commedia degli inganni dove ciascuno sa di mentire, per la sua parte, e che gli altri pure mentono, ma non sa bene in che cosa mentano.
Per il resto l’indignazione di Severgnini è davvero legittima, lo schiavismo migratorio ha una causa politica ma conviene approfondire meglio anche le dinamiche economiche.
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Come gli Stati Uniti hanno messo fuori gioco il gasdotto Nord Stream
di Seymour Hersh
Qui di seguito l’inchiesta curata dal veterano del giornalismo investigativo, Seymour Hersch, sul sabotaggio del gasdotto russo/tedesco Nord Stream da parte degli incursori statunitensi. Una verità già evidente a tutti ma non rivelata per salvaguardare l’alleanza NATO e il fronte bellicista sulla guerra in Ucraina. Ma di fronte a questa verità adesso rivelata, il governo o il popolo tedesco potranno continuare a far finta di niente?
Il Diving and Salvage Center della Marina degli Stati Uniti si trova in un luogo oscuro come il suo nome, in quello che una volta era un viottolo di campagna nella zona rurale di Panama City, una città di villeggiatura ora in piena espansione nella parte sud-occidentale della Florida, 70 miglia a sud del confine con l’Alabama.
Il complesso del centro non è descrittivo come la sua ubicazione: una struttura in cemento scialbo del secondo dopoguerra che ha l’aspetto di una scuola superiore professionale nella zona ovest di Chicago. Una lavanderia a gettoni e una scuola di danza si trovano dall’altra parte di quella che ora è una strada a quattro corsie.
Il centro ha addestrato per decenni sommozzatori in acque profonde altamente qualificati che, una volta assegnati alle unità militari americane in tutto il mondo, sono in grado di effettuare immersioni tecniche per fare il bene – utilizzando esplosivi C4 per liberare porti e spiagge da detriti e ordigni inesplosi – e il male, come far saltare in aria piattaforme petrolifere straniere, sporcare le valvole di aspirazione delle centrali elettriche sottomarine, distruggere le chiuse di canali di navigazione cruciali.
Il centro di Panama City, che vanta la seconda piscina coperta più grande d’America, era il luogo perfetto per reclutare i migliori, e più taciturni, diplomati della scuola di immersione che l’estate scorsa hanno fatto con successo ciò che erano stati autorizzati a fare a 260 piedi sotto la superficie del Mar Baltico.
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La duplice devalorizzazione del valore. Verso la crisi storica del denaro
di Robert Kurz
Pubblichiamo la traduzione di Samuele Cerea del cap.XVII di Geld ohne Wert, ultimo libro pubblicato in vita da Robert Kurz, preceduta da una breve introduzione del traduttore
L’ultimo saggio ultimato da Robert Kurz, Geld ohne Wert, rappresenta un tentativo ambizioso di rinnovare la critica dell’economia politica di Marx in una prospettiva eterodossa di superamento rispetto all’originaria esposizione de Il Capitale. Il capitolo XVII del testo si focalizza sulla crisi del denaro come aspetto specifico della crisi generale della valorizzazione capitalistica.
A cosa serve il denaro? Come è noto, per la teoria economica si tratta di uno strumento indispensabile in una società che si fonda su di un regime generalizzato di transazioni economiche. Secondo i manuali di economia il denaro funziona da mezzo di pagamento, unità di conto e misura e riserva del valore. In cosa consiste però il valore del denaro? Cosa si intende dire quando si afferma che esso ha un valore? Rappresenta effettivamente il valore in senso sostanziale, oggettivato? Oppure il valore del denaro si esaurisce semplicemente nella sua funzione di mediazione tra diversi beni nella sfera del mercato, soggetta alla legge della domanda e dell’offerta, sotto la garanzia dello Stato?
Nell’argomentazione di Kurz la mediazione di un denaro simbolico, privo di valore, può avere senso solo in una società fatta di produttori indipendenti che si limitano a scambiarsi vicendevolmente beni materiali in una nicchia di mercato. Ma con l’avvento della società capitalistica questa relazione si inverte: sono i beni materiali ad essere un termine medio in seno ad un movimento che mira ad incrementare una certa quantità di denaro iniziale. In questo senso il denaro diviene qui l’alfa e l’omega del processo produttivo (di valore). Di conseguenza esso non è più un semplice mediatore ma si converte nello scopo dell’intero processo sociale. Come afferma Kurz ne Il Capitale-mondo “l’economicizzazione del mondo equivale alla sostanzializzazione del denaro”.
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A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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