Lezioni di guerra
di Enrico Tomaselli
Ogni guerra non è soltanto il tentativo di risolvere ‘manu militari’ un conflitto, ma anche molto altro. È un test di verifica, che dice di come una nazione affronta e risolve le controversie internazionali, è un banco di prova per sistemi d’arma, dalla cui prova sul campo deriverà o meno il successo ‘di mercato’. Ma è soprattutto il terreno su cui le dottrine militari, le tattiche di combattimento degli eserciti, subiscono il vaglio implacabile della prova del fuoco, e da cui scaturiscono poi le ‘evoluzioni’ successive dell’antica arte della guerra. E come sempre, c’è chi impara la lezione e chi no.
I Leopardi di Abramo
Alla fine, i contorni della triste sceneggiata si sono delineati con sufficiente chiarezza. Benché gli USA ne dispongano a migliaia, i 31 MBT (main battle tank) M1A2 Abrams promessi all’Ucraina, verranno forniti nell’ambito di un progetto di costruzione apposita (privi della protezione in uranio impoverito), e quindi la consegna avverrà non prima della fine dell’anno in corso, se non nel 2024. La messa in scena – persino ridicola nel suo velocissimo sviluppo – si era resa necessaria perché Scholz, già sottoposto a fortissime pressioni da parte sia di membri del suo governo che di alleati europei, chiedeva che l’invio degli MBT Leopard 2 tedeschi avvenisse contestualmente a quello di MBT americani. Ovviamente, alla fine i carri tedeschi andranno subito, quelli made in USA forse tra un anno…
Ma la questione vera, qui, è duplice; a prescindere dalla sfacciata manovra americana, che punta a svuotare gli eserciti europei per poi rimpinguarli nuovamente con commesse all’industria militare USA, qual è l’impatto che questi carri potranno avere sul conflitto, e perché gli USA non hanno alcuna voglia di inviare i propri Abrams?
Cominciamo col dire che il Leopard è un carro concepito negli anni 80, che a suo tempo ha avuto un grande successo commerciale (l’hanno acquistato molti paesi NATO), ma che non solo risulta oggi assai datato, rispetto agli ultimi MBT russi come il T-90 Proriv ed il T-14 Armata, ma ha anche dato scarsa prova di sé sul campo di battaglia.
Negli anni scorsi i Leopard furono utilizzati in Siria dai turchi, contro le milizie curde ed alcune formazioni dell’Isis, con risultati talmente pessimi (quanto a vulnerabilità) che lo Stato Maggiore turco se ne disse sconcertato. Facile immaginare come possa risultare nel confronto con l’esercito russo.
Al di là di tutto, il fatto è che il Leopard (insieme all’Abrams americano ed al K2 Black Panther coreano) rappresenta allo stato la punta di diamante nel settore MBT occidentale (1), mentre l’esercito russo è avanti di almeno due generazioni.(T-90 e T-14), ed anche a prescindere dagli scadenti risultati sul campo, basta una semplice comparazione per comprendere l’inferiorità dei Leopard rispetto agli T-90 (con cui presumibilmente si confronterà in Ucraina). Il Proriv, infatti, ha una maggiore dotazione di colpi per il cannone, una gittata di tiro maggiore (da 500 a 1500 m in più, secondo il munizionamento), è più leggero e costa quasi la metà.
A sua volta, la ragione per cui gli Stati Uniti sono in effetti riluttanti ad inviare in Ucraina i loro Abrams, al di là della legge che impedisce l’esportazione di armamenti con protezione in deploted uranium (2), e della effettiva difficoltà di addestrare in breve tempo i carristi ucraini, è di natura strategica e commerciale.
Da un lato, infatti, Washington teme che i russi possano catturarne qualcuno (3), e quindi venire dettagliatamente a conoscenza di tutti i suoi punti deboli. Dall’altro che possa dare una cattiva prova di sé in combattimento, riducendo così le possibilità di venderlo in giro per il mondo, a cominciare dagli alleati NATO. Si dà appunto il caso che anche l’Abrams abbia già dato prova di una pericolosa vulnerabilità, sia in Siria che in Yemen, contro gli Houti. Il MBT americano presenta infatti una certa vulnerabilità sulle fiancate e sulla parte posteriore della torretta, anche al fuoco dei moderni sistemi controcarro (4). Inoltre, vale per l’Abrams quanto già detto per il Leopard, in termini di comparazione col T-90, con l’aggravante che il carro americano è ancora più pesante e costoso, e consuma enormi quantità di carburante.
Gli altri MBT dati in arrivo sul fronte ucraino sono i britannici Challenge 2, i francesi Leclerc, ed i polacchi PT-91 Twardy (una versione sviluppata localmente, a partire dal sovietico T-72). A parte quest’ultimo, che è appunto una versione ammodernata agli anni 90 di un carro di vent’anni prima, sia il Challenge che il Leclerc presentano sostanzialmente i medesimi gap – rispetto al T-90 – già visti per i carri tedeschi ed americani: munizionamento inferiore, gittata minore, maggior peso e maggiore costo. Ma, anche a prescindere dalla specifica supremazia del carro equivalente russo (5), le questioni fondamentali – relativamente all’efficacia di questi sistemi d’arma nel conflitto – riguardano la quantità, e soprattutto le modalità di utilizzo tattico.
I numeri contano
In una guerra d’attrito, come quella in corso in Ucraina, la quantità di mezzi (e quindi la velocità e l’economicità di produzione) e la facilità di riparazione (e quindi la capacità del personale addetto e la vicinanza delle officine) diventano un fattore assolutamente determinante.
A quanto trapela dagli ambienti NATO, l’intenzione sarebbe quella di equipaggiare tre brigate ucraine con i nuovi carri, di cui una con gli Abrams – che però non saranno sul terreno prima di un anno. Stiamo quindi parlando di un centinaio di carri o poco più, di cui due terzi operativi presumibilmente entro l’estate, ed un terzo nel 2024.
Ciò a fronte di uno schieramento russo che conta tra i 1.200 ed i 1.500 carri sul fronte (su una disponibilità totale della Federazione Russa che ammonta a 12/15.000 carri armati; e tenendo presente che, in undici mesi di guerra, i russi rivendicano di aver distrutto oltre 7.500 carri e corazzati da combattimento ucraini (6).
Questo centinaio di nuovi carri, quindi, non solo va considerato nel suo valore assoluto, rispetto a quello russo, ma anche relativamente alle condizioni dell’esercito ucraino al momento in cui entreranno in servizio. Non sappiamo con esattezza su quanti carri armati possa oggi contare l’Ucraina, tra quelli di cui disponeva all’inizio del conflitto e quelli successivamente forniti da vari paesi NATO (tutto materiale ex-sovietico, sinora). Di sicuro le perdite sono state ingentissime (anche a voler prendere con le molle il dato fornito dai russi, che però solitamente non sono soliti esagerare clamorosamente). Di sicuro, ad esempio, dei duecento T-72 forniti mesi addietro dalla Polonia ne sono rimasti pochi operativi.
Per l’esercito di Kyev, quindi, si porrà ancora una volta il problema già postosi con gli HIMARS. Concentrarli in un settore del fronte, aumentandone l’impatto potenziale ma esponendoli al rischio di distruzione prima della battaglia (colpiti dall’aviazione, da missili, o da droni e fuoco di artiglieria), o viceversa disperderli su più punti, riducendone l’impatto ma suddividendo il rischio di annientamento. Di sicuro, avranno avuto un impatto immensamente maggiore sui media occidentali, e prima ancora di arrivare, di quanto potranno averne sul campo di battaglia.
Le armi non sono tutto
Le qualità intrinseche di un sistema d’arma sono importanti, ma costituiscono solo una parte della sua potenziale efficacia. Come ha detto Franz-Stefan Gady (7), “nessun singolo sistema o piattaforma d’arma può cambiare le regole del gioco”.
C’è ovviamente la questione quantitativa, che determina l’estensione del suo possibile utilizzo, e la possibilità di concentrarlo ove necessario. Questione che non riguarda semplicemente la presenza sulla linea di fuoco, e/o le eventuali riserve, quanto la stessa capacità di produzione – fondamentale in una guerra di lunga durata. Ma, a monte ed a valle di ciò, vi sono altri fattori che ne determinano il valore operativo.
Innanzitutto, c’è il fattore manpower; l’efficacia di un’arma dipende principalmente dalla disponibilità di personale militare ben addestrato, capace di utilizzarla al meglio, e conseguentemente dalla possibilità (anche in termini di tempo) di addestrarne sempre di nuovo, in sostituzione delle perdite.
C’è poi l’intero complesso dei fattori logistici: alimentazione, trasporto, riparazione.
Un sistema d’arma richiede munizionamento in quantità adeguata, e carburante per gli spostamenti. Richiede vie e mezzi di trasporto adeguati, da e per la linea del fronte. Richiede personale qualificato e pezzi di ricambio per le riparazioni, ed officine protette quanto più vicine possibile al terreno di scontro.
E naturalmente c’è il fattore contesto, ovvero la situazione bellica concreta in cui verrà utilizzato.
Per quanto l’esercito ucraino sia stato addestrato ed organizzato da personale NATO, almeno dal 2014 in avanti, fondamentalmente – anche per motivi pratici – il suo armamento e la sua dotazione sono rimasti quelli di produzione ex-sovietica. Ed è soltanto a partire da un momento successivo all’inizio della guerra, e via via in misura crescente, che comincia l’afflusso di mezzi ed armi occidentali (8).
Anche se questo continuo rifornimento ha evitato il collasso delle forze armate ucraine, è indubbio che al tempo stesso abbia determinato problematiche logistiche in crescita esponenziale. Se per un verso, infatti, le armi della NATO sono tecnologicamente più sofisticate, e quindi richiedono una curva di apprendimento più lunga, dall’altro l’estrema varietà ed eterogeneità di armi e mezzi ha reso complicatissimo l’addestramento, sia del personale addetto all’uso operativo che di quello addetto alle riparazioni. Particolarmente critici sono risultati i settori dei mezzi (corazzati e non) per il trasporto delle truppe, e quello dell’artiglieria (con una grande varietà di calibri, ed una diversa resistenza al fuoco prolungato) (9).
Uno dei problemi logistici che si stanno manifestando sempre più criticamente, è quello della mancanza di ARV (armoured recovery vehicle), i mezzi corazzati precipuamente progettati per il recupero dei carri armati danneggiati in combattimento. La disponibilità di questi mezzi è ormai scarsissima, nell’esercito ucraino, che si trova costretto ad utilizzare a questo scopo blindati e persino altri carri; e poiché spesso i mezzi colpiti hanno perso i cingoli, o sono impantanati, a volte è necessario utilizzare sino a due, tre mezzi per trainarli. Di conseguenza, nel corso delle battaglie è facile per i droni russi Orlan-30 individuare queste lente concentrazioni di mezzi, ed indirizzare su di esse il fuoco d’artiglieria o l’aviazione d’attacco. Le difficoltà di recupero, le difficoltà di riparazione (trattandosi di una grande eterogeneità di mezzi, poco o nulla conosciuti meccanicamente dal personale ucraino), sommandosi al flusso continuo che arriva dai paesi NATO, fa sì che sempre più spesso i mezzi recuperati vengano cannibalizzati per aggiustarne altri, e soprattutto che quelli colpiti vengano semplicemente abbandonati sul posto (10).
Ovviamente, l’impiego di qualsiasi sistema d’arma, e nello specifico dei MBT, è fortemente condizionato dalla situazione sul terreno. Da un punto di vista teorico (come vedremo più avanti), nella dottrina operativa NATO una brigata corazzata è destinata allo sfondamento delle linee nemiche, seguita poi dalla fanteria meccanizzata (equipaggiata con BMP e carri leggeri M2 Bradley) con il compito di consolidare la posizione. Questo tipo di approccio però richiede il verificarsi di alcune condizioni operative, e fondamentalmente: possibilità di concentrare le forze in sicurezza prima dell’attacco, possibilità di preparare il terreno all’attacco stesso, e possibilità di offrire copertura aerea alle forze in avanzata. Tutte condizioni impossibili, per le forze NATO ucraine, nel contesto della guerra attuale.
L’ostinato errore della NATO
Uno dei problemi che classicamente affliggono le leadership militari, è l’affezione alle proprie teorie e dottrine. E quasi sempre ogni innovazione, tattica o strategica, è pervenuta da parte di potenze emergenti, che avevano appunto necessità di sovvertire le regole della guerra, per vincere in battaglia e sovvertire l’ordine precedente. Solo successivamente ad una o più sconfitte, l’innovazione si è generalmente fatta strada anche in altri eserciti.
Se guardiamo le cose da questo punto di vista, ci rendiamo conto per quale ragione la dottrina militare della NATO – che è sempre sviluppata dal Pentagono – sia ostinatamente legata alle proprie idee in materia. Una caratteristica tipica dell’impero americano, infatti, è la difficoltà ad imparare dalle sconfitte, perché semplicemente queste vengono rimosse.
Mentre, ad esempio, l’esercito coloniale francese imparò molto dalla sconfitta in Indocina – e provò, sia pure maldestramente, ad applicare i principi della guerra rivoluzionaria in Algeria – la sconfitta nel VietNam non ha prodotto alcun cambiamento sostanziale nella dottrina militare statunitense. Che infatti si è sempre modellata sulla macro-dimensione del confronto con l’avversario strategico. Il quale, fintanto che è esistita l’Unione Sovietica, era una potenza (quasi) equivalente; ma dopo la sua caduta l’intero sistema bellico USA-NATO (organizzativo, tattico-strategico, ma anche industriale) si è modellato sull’ipotesi della guerra asimmetrica, contro nazioni decisamente più deboli (Iraq, Serbia, Libia…). Non per caso, ed in modo quasi simmetrico, la più clamorosa sconfitta dopo il VietNam è l’Afghanistan, in cui il nemico non era un esercito regolare – opzione per la quale gli USA non hanno mai saputo concettualmente attrezzarsi.
Questo problema si è riproposto, per certi versi ancor più clamorosamente, nella proxy war ucraina.
Non solo gli strateghi statunitensi non hanno assolutamente previsto né la capacità russa di sostenere (sotto ogni profilo) una guerra di lunga durata, né la propria incapacità di fare altrettanto, ma si ostinano a proporre, all’esausto esercito di Kyev, tattiche assolutamente inadeguate alla reale situazione sul terreno.
Lo schema classico della dottrina NATO – operazioni delle unità DRG (Defence Research Group) per sondare le difese nemiche, attacco delle formazioni corazzate-meccanizzate, consolidamento dell’avanzata con le unità di fanteria – è in effetti stato già utilizzato nel corso di questa guerra, e quando le forze armate ucraine erano in condizioni migliori. Il riferimento è alla doppia offensiva di alcuni mesi fa, quella che si è infranta contro le forze russe nella regione di Kherson, e quella che ha portato alla riconquista di un ampio territorio nel nord dell’oblast di Lugansk. Solo che quell’unico successo, ancorché assai enfatizzato, fu possibile essenzialmente grazie al fatto che le difese erano affidate a pochi reparti, principalmente della Rosgvardija (la Guardia Nazionale della Federazione Russa), e che peraltro preferirono ritirarsi e cedere territorio piuttosto che farsi annientare.
Sia qui detto per inciso, l’esercito russo – benché sia di gran lunga il più potente sul campo – preferisce sempre attenersi al principio di Sun Tzu, per cui è preferibile cedere territorio e preservare l’esercito (così da poterlo riconquistare), mentre gli ucraini – la cui condotta strategica è fortemente condizionata dall’impatto mediatico – preferiscono farsi massacrare che cedere territorio (perdendolo poi comunque, e con esso le possibilità di riconquista).
La questione è che, per tornare al punto, la tattica NATO è semplicemente al di fuori della portata dell’esercito ucraino. E ciò per svariate ragioni, che attengono alle condizioni dell’esercito stesso, alla natura del conflitto (e del terreno su cui si sta svolgendo), nonché al profondo gap che intercorre tra la potenza di fuoco russa e quella ucraina.
Il predominio russo è irreversibile
Diversamente dalla scorsa estate, quando le forze armate di Kyev avevano ancora un significativo vantaggio numerico, ed una maggiore capacità operativa, le condizioni attuali sono drammaticamente diverse. Non solo nel frattempo la Russia ha mobilitato (ed addestrato per mesi) 300.000 riservisti (più circa 100.000 volontari), ma l’esercito ucraino ha accumulato perdite enormi. Non esistono dati ufficiali – e probabilmente li conosceremo solo a guerra finita – ma secondo le ultime indiscrezioni, che riferiscono di un dato fornito dal capo di stato maggiore Zaluzhny al Pentagono, i caduti in combattimento (KIA) sarebbero 232.000; secondo la società privata Stratfor Forecasting (11), le perdite dell’Ucraina avrebbero superato i 305.000 morti. La cifra più probabile, specie dopo le sanguinosissime battaglie di Soledar, Bakhmut ed Ugledar, è oggi intorno ai duecentocinquantamila.
E considerato il normale rapporto tra morti (KIA) e feriti (WIA), significa che altri 7/800.000 uomini hanno riportato ferite, e molti di questi sono ancora inabili al combattimento (12).
L’impatto di queste cifre sulla capacità operativa dell’esercito è comprensibilmente enorme. Non si tratta infatti soltanto delle perdite in sé, ma del fatto che la necessità di rimpinguare le perdite (quando non di ricostituire interi reparti) ha reso necessario accorciare drasticamente i tempi di addestramento. Che ormai vanno dai pochi giorni, per il personale destinato ai reparti di fanteria, ad alcune settimane per coloro che dovranno utilizzare sistemi d’arma NATO. Laddove invece, negli eserciti dell’Alleanza, tale addestramento dura mesi, a volte anche un anno o più.
Questa inadeguatezza dell’addestramento non è limitata alla padronanza dell’arma (si pensi ad avanzate batterie antimissile come i Patriot, ma anche a MBT come il Leopard), ma ha una incidenza assai più profonda. Chiaramente, una cosa è saper guidare un carro armato, e saper sparare col suo cannone, tutt’altra cosa è saperlo fare in battaglia. Per non parlare del fatto che condurre offensive come quelle previste dalla dottrina NATO richiedono un’elevata capacità di coordinamento tra unità e tra reparti.
Un’altra condizione ostativa è data sia dalla natura del conflitto che da quella del terreno; e le due cose sono ovviamente connesse. In questa fase, infatti, i combattimenti sono concentrati in aree densamente abitate, ricche di insediamenti urbani piccoli, medi e grandi. Un tipo di territorio in cui chi si attesta in difesa può agevolmente utilizzare questa rete antropica per imperniarvi linee trincerate e fortificate, rallentando l’impeto dell’attaccante. La guerra è chiaramente una guerra di logoramento, non di mobilità ed ampie manovre. Lo stanno mostrando proprio i combattimenti più recenti (le già citate Soledar, Bakhmut, Ugledar, ma anche Marynka), dove l’avanzata del ben più potente esercito russo è costante ma lenta, e le formazioni di carri operano a stretto supporto della fanteria, piuttosto che come unità di livello superiore impegnate in azioni di sfondamento.
Ancora di evidente ostacolo è la crescente differenza nella capacità di fuoco delle due artiglierie nemiche. Si è più volte fatto cenno, in queste analisi, alla sempre più ridotta disponibilità di munizionamento per le forze ucraine, tanto che ormai il rapporto tra le due è stimato in 16 a 1 (per colpi sparati). Questo significa che l’artiglieria ucraina non è neanche lontanamente in condizione di far precedere un attacco da un intenso fuoco dei suoi pezzi, effettivamente capace di annichilire le difese russe. E che, per converso, quella russa è assolutamente in condizioni di porre in essere un potentissimo fuoco di sbarramento.
Peggio ancora, l’assoluto dominio dell’aria da parte di Mosca rende non solo impossibile concentrare forze sufficienti senza essere localizzate, ma ancor più rende queste stesse massimamente esposte al fuoco dall’aria durante la fase di attacco.
La questione del dominio delle forze aerospaziali russe è una di quelle assolutamente strategiche.
Ovviamente non si tratta semplicemente del fatto che l’aviazione russa disponga di una quantità ben superiore di caccia-bombardieri, di bombardieri d’alta quota, nonché di missili e droni d’attacco e d’osservazione. Se si trattasse semplicemente di questo, basterebbe che la NATO fornisse a Kyev gli aerei che chiede insistentemente (e che verranno sicuramente forniti, probabilmente entro l’anno). Non saranno quindi una o due dozzine di Mig-29 o di F-16, a cambiare l’equilibrio strategico – e non solo per l’esigua quantità. Il punto fondamentale è che l’aviazione russa opera a partire dalle basi nella Federazione ed in Bielorussia, quindi sostanzialmente al riparo da attacchi ucraini (ammesso che ne avessero la capacità) ma con tutti gli obiettivi perfettamente nel proprio raggio d’azione, mentre quella ucraina è condannata ad operare dal residuo territorio nazionale, completamente esposto agli attacchi missilistici russi. In buona sostanza, i russi operano da oltre confine, cosa che l’Ucraina non può fare. Se infatti l’aviazione di Kyev operasse da un paese limitrofo (la Polonia, o la Slovacchia, o la Romania), ciò comporterebbe automaticamente il coinvolgimento diretto della NATO, ed allargherebbe istantaneamente il conflitto – portandolo forse, e rapidamente, anche verso una escalation pericolosissima.
La conseguenza, ineluttabile, è che l’unico fattore veramente determinante non è il ferro, ma la carne.
I continui trasferimenti di armi e mezzi, dalla NATO all’Ucraina, equivalgono a massicce somministrazioni di pervitin, il cui effetto agisce su un corpo sempre più debilitato, e che prima o poi collasserà. La metafora (ma neanche tanto…) del “fino all’ultimo ucraino” è sempre più vicina a realizzarsi, ed a quel punto o la NATO dovrà trovare una via d’uscita, o dovrà sopperire in prima persona. Per come stanno le cose, gli unici disposti a morire per Kyev – ma in questo caso forse bisognerebbe dire per Leopoli... – sono i polacchi.
Ma come reagirebbero gli europei, dinanzi alla prospettiva di una guerra che potrebbe prolungarsi per anni? Quanto a lungo è sostenibile, per i proconsoli di Washington, sostenere la politica imperiale a fronte del crescente malumore dei popoli?
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