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"Le tensioni mondiali sono frutto della resistenza dell’ordine coloniale contro il nuovo ordine multipolare"
intervista a Stephen Brawer
“Il pensiero neomalthusiano è una delle cause principali di guerre e conflitti, e persino del possibile scoppio di una guerra nucleare globale. Il suo obiettivo rimane quello di mantenere il mondo coloniale e imperiale”, ha dichiarato a Magyar Demokrata Stephen Brawer, filosofo newyorkese e presidente del Belt and Road Institute in Svezia.
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Signor Brawer, mentre un nuovo ordine mondiale multicentrico continua a dispiegarsi davanti ai nostri occhi, il termine “élite globalista” viene spesso usato per descrivere il potere mondiale contestato. Come definirebbe questo gruppo, chi sono queste persone e da dove vengono?
Grazie per l'opportunità di condividere con voi il mio punto di vista e le mie intuizioni. L'idea di base a cui lei si riferisce è spesso indicata come ordine mondiale unipolare o ordine mondiale basato su regole, che è stato un fattore dominante nella struttura del potere globale. Al momento credo sia molto chiaro che la situazione si sta muovendo verso una situazione molto pericolosa in cui il mondo sarebbe nuovamente diviso in blocchi, come ai tempi della cosiddetta Guerra Fredda. Credo che se ci impegniamo a fondo possiamo sperare di evitarlo. Per quanto riguarda la domanda su chi siano queste élite, esiste una struttura di potere che ha una base storica. Di solito ciò a cui mi sono riferito richiede la necessità di comprendere il lungo arco della storia. In questo contesto, credo sia molto importante identificare l'idea di quella che è la struttura di potere anglo-americana, che è stata fondamentalmente la potenza dominante dalla fine della Seconda guerra mondiale.
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Una facile profezia. La storica analisi di Hirsch jr. sulla scuola
di Giovanni Carosotti
Nel 1997 e 1998, ormai quasi trent’anni fa, furono pubblicati i primi studi in cui si esprimeva grave preoccupazione nei confronti di un’azione politica che intendeva radicalmente trasformare, in senso anti culturale, la scuola pubblica italiana. Tra gli autori pochi insegnanti, a parte qualche lodevole eccezione (Fabrizio Polacco, La cultura a picco), che dovevano forse ancora rendersi conto di quanta determinazione si stava investendo per stravolgere il senso della loro professione. A farsi carico di questa denuncia furono importanti figure intellettuali, che avevano colto i pericoli di una strategia falsamente riformatrice i cui obiettivi rispondevano a criteri di dominio economico, e il cui interesse conseguente era dunque quello di indebolire il senso critico degli studenti, per renderli soggettività integrate in un sistema di valorizzazione, incapaci di una reale critica sistemica. Oltre al giustamente famoso Segmenti e bastoncini di Lucio Russo, l’altro testo decisivo fu La scuola sospesa di Giulio Ferroni. Ciò che colpisce in questi lavori è la capacità di intuire gli effetti deleteri di lungo e lunghissimo periodo di quelle scelte, che avrebbero investito non solo l’istituzione scolastica, ma l’intera società nel suo complesso, e reso sempre meno capace l’opinione pubblica di interfacciarsi in modo consapevole con le trasformazioni politico-economiche in atto, senza rendersi conto di quanto queste, in alcuni casi, andavano a contraddire lo stesso spirito fondativo della Costituzione repubblicana. Una serie di riflessioni che, rilette oggi (e giustamente nel 2016 Feltrinelli ha riedito il testo di Russo), sembrano profetiche; espresso in un periodo – è bene notarlo – in cui si dubitava che le intenzioni radicali della classe politica potessero avere ragione nei confronti di lavoratori intellettuali, i docenti, ancora pienamente consapevoli del valore culturale del proprio lavoro (e l’ultima dimostrazione di tale consapevolezza fu l’opposizione al cosiddetto “concorsone” voluto dal ministro Berlinguer).
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Lotta di classe e lotta anticoloniale in Palestina
di Jacques Bonhomme
1. Dal presente al passato: vecchie storie da non dimenticare
Quando sono in corso rivoluzioni o guerre civili, le svolte diplomatiche più sorprendenti possono essere una “continuazione della lotta rivoluzionaria con altri mezzi” - per parafrasare il celebre detto dell’altrettanto celebre generale prussiano -, e così è stato a Brest-Litovsk, nel 1918, o in Cina, tra i comunisti e il Kuomintang, nel 1937, di fronte all’invasione giapponese. Ma quando, come appare prepotentemente nel caso della Palestina, una Rivoluzione scaturisce da una Resistenza anticoloniale lunga e sofferta, costellata di offensive e di repressioni spietate, certe svolte diplomatiche tendono ad aprire, e a esasperare, un dualismo fra due livelli, e di conseguenza fra due forme, della lotta: l’articolazione delle alleanze e l’articolazione degli obiettivi. L’apparente complementarità di queste due forme e di questi due livelli della lotta non deve, però, ingannare, poiché le alleanze e gli obiettivi non si accordano mai spontaneamente e soprattutto – a causa della contraddizione che li oppone – non si accordano mai stabilmente. In alcune circostanze le alleanze e gli obiettivi si divaricano ampiamente.
Per quanto riguarda la Palestina, il dualismo concerne due scene non componibili: da una parte l’accordo di Pechino, con il quale le autorità cinesi hanno precostituito, all’ombra dei propri investimenti di capitale nell’area mediorientale, una riconciliazione al ribasso fra tutte le organizzazioni palestinesi e dall’altra le iniziative autonome delle formazioni della Resistenza, come, per esempio, la diffusione di una guerriglia capillare della popolazione palestinese in Cisgiordania, una guerriglia destinata a generalizzare e a radicalizzare lo scontro con lo Stato sionista nelle zone affidate alla sorveglianza dell’ANP, il solerte poliziotto di Israele.
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Benedetto Croce: pregi e limiti di un autore classico
di Eros Barone
È invece in quel Croce che seppe meditare… sui meccanismi dell’autorità, della forza e della violenza nella esistenza dei singoli, delle classi, dei ceti e dei popoli, che possiamo ancora oggi trovare un aiuto contro le stoltezze pseudo-etiche che intessono la ideologia italiana incaricata di distrarci dalle vere ragioni dei conflitti… Croce sapeva bene di dovere i propri privilegi alla violenza giacobina del 1793 e ai bersaglieri che dopo il 1860 ammazzarono, nella guerra al ‘brigantaggio’, più contadini del sud di quante vittime fossero costate, tutte insieme, le guerre del Risorgimento.
Franco Fortini
Due anni fa il 70° anniversario della morte di Benedetto Croce (1866-1952) non ebbe una particolare risonanza se non in alcuni ristretti circoli accademici. Già allora la vicinanza e la distanza, tipiche delle ricorrenze anagrafiche degli autori classici, si sovrapponevano e si intrecciavano, conferendo, per un verso, un carattere quasi protocollare al giudizio consolidato sul rilievo storico del filosofo abruzzese, ma rendendo più problematico, per un altro verso, un bilancio obiettivo della sua opera. Vediamo allora di sciogliere, almeno in parte, questa antinomia, tratteggiando a grandi linee la vita e la molteplice produzione di una tra le più importanti personalità della cultura italiana della prima metà del Novecento.
- Il giovane Croce
Iscrittosi con scarso entusiasmo alla facoltà di giurisprudenza, il giovane Croce fu attratto soltanto dall’insegnamento vivo e anticonformista di Antonio Labriola, una figura chiave del marxismo teorico italiano a cavallo fra i due secoli, che lasciò un’impronta profonda nella formazione intellettuale di quell’allievo quanto mai dotato.
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Innovazioni linguistiche nel conflitto israelo-palestinese
di Paolo Ruta
Nella loro costante e inarrestabile trasformazione le lingue sono inevitabilmente democratiche. Per affermarsi, ogni loro mutamento deve passare al vaglio della maggioranza o, per dirla con un lessico particolarmente in voga, deve diventare virale. Infatti, è la diffusione attraverso l’uso a determinare il successo di un’innovazione linguistica, in quanto esprime il consenso da parte dei parlanti che la adottano spontaneamente.
Dopo i fatti del 7 ottobre 2023, diverse lingue occidentali hanno visto la diffusione di una particolare innovazione linguistica promossa principalmente da una parte della politica e dell’informazione, il cui successo tra i parlanti è però ancora da verificare sul lungo periodo. Il fenomeno è conosciuto come risemantizzazione estensiva e interessa la parola antisemitismo.
Prima di concentrarci su questo punto occorre ribadire che per secoli l’ostilità antiebraica non ha avuto significanti atti a rappresentarla: “in una società come quella cristiana, in cui le minoranze ebraiche vivevano nettamente separate dalla maggioranza e in cui le formulazioni teologiche e la stessa liturgia contenevano espressioni codificate di ostilità antiebraica, essa appariva come un atteggiamento naturale, che non necessitava di un nome.” Si trattava di un’avversione di tipo teologico basata sugli antichi pregiudizi deicidi generati in seno alla comunità cristiana delle origini, e che solo a partire dalla seconda metà del ‘900 ha trovato nella parola antigiudaismo un segno linguistico creato e diffuso principalmente dagli storici che hanno studiato il fenomeno in relazione al posizionamento della chiesa cattolica nel contesto della Shoah.
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Scuola fascista e scuola 4.0
di Fabio Bentivoglio
In occasione della riapertura delle scuole, portiamo all’attenzione dei lettori un importante articolo di Fabio Bentivoglio, filosofo e saggista, apparso su l’Indipendenza, n. 58, luglio – agosto 2024. Ringraziamo l’autore, l’editore e Michele Maggino
“La scuola fascista” è il titolo di un saggio a cura di Gianluca Gabrielli e Davide Montino, pubblicato da Ombre corte nel 2009, organizzato in trentotto voci redatte da dodici ricercatori, incentrato su un’analisi a largo spettro delle fonti materiali, che si intreccia con una riflessione critica di spessore. Sono oggetto di esame gli elaborati scolastici, Befana fascista, arredi e decorazioni scolastiche, registri di classe, quaderni, libri di testo e altro. L’indagine – si legge nella quarta di copertina – si sviluppa da un lato attorno agli elementi istituzionali e organizzativi che caratterizzarono gli interventi del fascismo, dall’altro attorno alla cultura materiale della scuola del ventennio, che si modificò e subì fortissime torsioni sotto una spinta volta all’indottrinamento e alla socializzazione politica delle nuove generazioni.
Bene. Si metta in parallelo quanto emerge da questo testo circa gli interventi capillari del regime in ambito scolastico, con quanto prevede il decreto ministeriale “Piano Scuola 4.0” varato dal governo Draghi il 14 giugno 2022, in merito a istruzione e ricerca 1. Si tratta di verificare se, al di là, ovviamente, della diversità degli specifici contenuti delle prescrizioni imposte, esista una matrice comune tra il progetto di scuola del regime e il progetto della Scuola 4.0: una matrice comune riconducibile a due diverse declinazioni del totalitarismo, quello novecentesco, declinato sul piano politico, e quello contemporaneo, declinato sul piano tecno-aziendale.
Per chiarezza: in sede storica la categoria di totalitarismo indica la riduzione delle molteplici istituzioni e delle molteplici sfere di attività proprie di una società moderna a una totalità unitaria che obbedisce a un’unica logica di funzionamento, tale da non ammettere criteri di giudizio e scelte operative difformi da quelle prescritte.
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Spunti per una discussione necessaria
dal Forum italiano dei comunisti
Una nuova fase di lavoro
Abbiamo più volte ribadito che l'obiettivo del Forum non è creare un nuovo gruppo politico o mantenere steccati fittizi, ma aprire nell'area comunista un dibattito e un rapporto nuovo che contribuisca a superare lo stato in cui versano gruppi e anche singoli compagni e che fino a oggi ha prodotto solo macerie e mistificazioni.
Nei dieci mesi che ci separano dall'inizio dell'attività del Forum ci siamo concentrati soprattutto nel definire la necessità che si ponga fine a nuove avventure corsare e a un modo romantico e soggettivo di intendere la ripresa di un movimento comunista in Italia. Su questo continueremo a insistere, aprendo interlocuzioni che, seppure difficoltose, sono l'unico strumento che ci può permettere di scavare sui luoghi comuni, le ambiguità e le improvvisazioni che hanno caratterizzato finora l'esperienza comunista. Senza la pretesa di salire in cattedra, ma cercando di arrivare, attraverso l'analisi e la discussione, a un punto di vista comune e a ipotesi di lavoro politico sufficientemente verificate.
Per il futuro non ci aspettiamo dunque svolte organizzative che annuncino la nascita di una nuova verità che dovrebbe riaggregare le esauste schiere di comunisti che per decenni hanno provato a riorganizzarsi. Crediamo, invece, che sia arrivato il momento di aprire una fase in cui le questioni di fondo che riguardano l'avvenire dei comunisti italiani vengano messe al centro di una elaborazione collettiva che ci faccia fare dei passi in avanti.
Imboccare questa strada è arduo e presuppone che di fronte al bilancio negativo si eviti di rinchiudersi in nicchie organizzative o culturali che sono solo dimostrazioni di difficoltà nel rapportarsi alla realtà. Per noi comunisti la teoria è la scienza della trasformazione.
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Gli USA dichiarano l’inizio della terza guerra mondiale e invocano lo stato di guerra permanente
di OttolinaTV
L’Europa che dà il via libera all’impiego dei suoi missili a lungo raggio per colpire direttamente il territorio russo; Israele che, col sostegno incondizionato degli USA, si prepara ad attaccare il Libano e prova in ogni modo ad allargare il conflitto all’intero Medio Oriente; Africa e America Latina che tornano a incendiarsi tra golpe tentati, golpe riusciti, guerre per procura e guerre ignorate; e tutti gli alleati occidentali che insieme appassionatamente, come se non avessero già abbastanza guai sugli altri quattro fronti, trovano anche il tempo per andare a stuzzicare i cinesi nel loro giardino di casa, tra gite in barca di tedeschi e italiani nello stretto di Taiwan e sistemi d’arma Typhon installati in pianta stabile nelle isole settentrionali delle Filippine. Vista superficialmente, sembra una caotica guerra mondiale a pezzi, come la definiva il compagno Papa Ciccio; in realtà, però, è tutto meno caotico e improvvisato di quanto non appaia: lo spiega chiaramente e con dovizia di particolari questo lungo documento licenziato nel luglio scorso dal Congresso degli Stati Uniti e che, molto stranamente, era passato sostanzialmente inosservato. E’ il rapporto finale della commissione sulla National Defense Strategy, il documento che mette nero su bianco la strategia complessiva dell’impero a stelle e strisce; il rapporto ufficiale, che abbiamo descritto in lungo e in largo negli anni passati, era stato pubblicato nell’ottobre del 2022 con oltre un anno di ritardo perché, nel frattempo, con l’inizio della fase 2 della guerra per procura in Ucraina il mondo era cambiato. Evidentemente, però, il mondo continua a cambiare molto più rapidamente di quanto gli analisti del dipartimento della difesa USA impiegano a comprendere questi cambiamenti e a dire come andrebbero affrontati; ed ecco così che, a meno di due anni di distanza, una commissione di altissimo livello è costretta a rimettere mano all’intero dossier per arrivare ad ammettere, nel modo più chiaro possibile immaginabile, quello che da mesi continuiamo a ribadire in ogni occasione: gli Stati Uniti sono, a tutti gli effetti, già in guerra contro il Sud globale.
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Le trappole della democrazia borghese e la verità del socialismo bolivariano
di Geraldina Colotti
“Mai ci è importato che alcuni fascisti europei votino una risoluzione senza nessun valore contro la sovranità del Venezuela”. Così, con la dignità e l’orgoglio di chi si sente erede del Libertador Simon Bolivar, il presidente dell’Assemblea venezuelana, Jorge Rodriguez, durante una conferenza stampa internazionale, ha commentato la decisione dell’Eurocamera di “riconoscere” come “presidente eletto” del Venezuela, l’ex candidato dell’estrema destra, Edmundo Gonzalez Urrutia.
Dello stesso tenore la reazione dell’ambasciatore all’Onu, Alexander Yánez, che ha definito un “ridicolo volantino” dettato da Washington la dichiarazione con cui, al Consiglio per i diritti umani, 40 paesi hanno “denunciato Nicolás Maduro”. In un successivo comunicato, il ministro degli Esteri venezuelano, Yvan Gil, ne ha precisato i termini, denunciando il tentativo di rieditare il fallito Gruppo di Lima, azionato ai tempi della precedente autoproclamazione, nel 2019.
Grottesco che a guidare all’Onu la condotta del gruppo sia stata la ministra degli Esteri argentina, Diana Mondino, portavoce di quel Javier Milei che sta calando quotidianamente la “motosega” sui diritti basici del popolo argentino. Insensato che i rappresentanti dei paesi europei definiscano una golpista dichiarata e confessa come Maria Corina Machado “leader delle forze democratiche”. Significativo, invece, che il magnate delle piattaforme digitali, Ellon Musk, abbia ricevuto in pompa magna Milei e che ora abbia dato un premio alla presidente del consiglio italiana, Giorgia Meloni, di estrema destra. Tutti, ovviamente, grandi campioni di democrazia. E altrettanto “democratiche” sono le minacce proferite dal capo di Black Water, Erik Prince, di riservare “sorprese” mercenarie al Venezuela, come poi è puntualmente accaduto, nel silenzio assordante dei media europei.
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Le armi segrete dell’impero, e la sua nemesi
di Paolo Di Marco
0- premessa: per ora va bene…
Quando i nostri amici americani bombardarono Milano ero troppo piccolo per capire che non era normale lanciare bombe sui civili, per di più quando c’era stato un armistizio, ma ci pensarono Dresda (v. Mattatoio 5) e Hiroshima a chiarire la morale della situazione.
Ero un poco più consapevole quando protestavo contro la guerra in Vietnam scappando sui marciapiedi per evitare che le camionette del 3° Celere del siciliano a stelle e striscie Scelba mi facessero piatto. E ancora quando marciavo a Vicenza verso la base americana lungo una strada circondata da filo spinato pensavo di esercitare una pressione morale cui il popolo americano non sarebbe stato insensibile.
Fu solo più tardi che compresi che se n’erano andati dal Vietnam non per le proteste dei giovani ma perchè erano stati sconfitti.
Se l’ingloriosa fuga da Kandahar echeggia le immagini dell’evacuazione da Saigon viene allora da chiedersi a che punto è il dominio americano sul mondo.
Alcuni parlano di crisi dell’impero americano. (recentemente anche Pietro Terzan comentando il libro di Burgio, Leoni, Sidoli: Terza guerra mondiale? Il fattore Malvinas, L’AntiDiplomatico, 2024)
Il più autorevole è probabilmente McCoy (To Govern the Globe: World Orders and Catastrophic Change, del 2021), famoso per la sua opera magistrale ‘The Politics of Heroin, the complicity of CIA in the global drug trade’, insuperato per documentazione e ampiezza di prospettive -il più bel libro mai scritto sulla droga e la sua gestione.
Lui ora aggiorna il libro con un intervista a Tom’s Dispatch:
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Con la fine del tempo di lavoro finisce anche il tempo libero
di Leo Essen
Benjamin Kline Hunnicutt è professore di storia all’Università dell’Iowa. La sua ricerca si è concentrata sulla riduzione dell’orario di lavoro. Molto noto è il suo libro Kellogg’s Six-Hour Day, sulle prospettive e gli effetti della riduzione della settimana lavorativa presso Kellogg’s, la multinazionale delle merendine. Con studiosi come Joseph Pieper e Hannah Arendt ha anche esplorato l’«ascesa del lavoro totale».
In un articolo pubblicato nel 1999 sulla rivista Nord Sud, Hunnicutt si confronta con Giovanni Mazzetti, esponente europeo di primo piano degli studi sulla riduzione dell’orario di lavoro.
Come mai, si chiede Hunnicutt, in Occidente abbiamo abbandonato la riduzione dell’orario? Per quale ragione, dopo aver ridotto la giornata lavorativa della metà nel corso del “secolo della riduzione del tempo di lavoro” e dopo aver immaginato un’età dell’oro, con un tempo libero così ampio da poter perseguire il vero bene della vita – i liberi prodotti della mente, la comunità, lo spirito – per quale ragione, dicevo, ci siamo rivolti verso un tempo pieno di lavoro, perdendo di vista il vecchio principio secondo il quale il lavoro non è che un mezzo per altri fini? Le risposte che mi sono dato si possono riassumere così: consumismo e mercificazione della vita; politica governativa di creazione del lavoro; cambiamento culturale corrispondente all’inversione del rapporto tra lavoro e tempo disponibile.
L’idea di lavoro, dice Hunnicutt, ha invaso e sottomesso tutta l’azione e l’esistenza umana. Tutta la vita moderna ha finito con l’essere dominata dall’ideologia del lavoro. Il lavoro ha finito per essere considerato come connaturato alla condizione umana, come una proprietà naturale. E invece, dice, il lavoro deve essere considerato come storico e relativo.
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Il nuovo disordine mondiale/ 26 – La guerra post-umana
di Sandro Moiso
Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti. (Alessandro Curioni – Intelligenza artificiale, etica e conflitti, 21 settembre 2024 «il Sole 24 ore»)
Quando esploderà il mio cellulare? Molti di noi hanno cominciato a chiederselo perché in fondo quello che Israele, il Mossad, i suoi servizi segreti hanno fatto nei confronti di militanti di Hezbollah potrebbe essere usato contro di noi in una futura guerra. Altri nemici e altre potenze ostili potrebbero ripetere quel tipo di attacco attraverso gadget tecnologici disseminati nella nostra vita quotidiana e quindi: quando esploderà il mio cellulare? (Federico Rampini – Quando esploderà il mio cellulare?, Corriere TV 23 settembre 2024)
Valutare le cause, le conseguenze e il risultato ultimo dei recenti attacchi israeliani di carattere digitale ai militanti e ai capi di Hezbollah, è qualcosa che si potrà fare soltanto più avanti nel tempo. Anche se, a giudizio di molti esperti, al momento attuale gli assassinii mirati e il terrorismo impiegati dall’IDF e dai suoi ipocriti alleati americani non sembra essere in grado di piegare la resistenza e l’azione militare anti-sionista sia a Gaza che in Libano. Resta ancora aperta, poi, la possibile azione militare contro l’Iran che però, così come del resto in Libano una volta messi gli stivali per terra, richiederebbe il pieno e dichiarato appoggio militare statunitense a una guerra sul fronte mediorientale.
Un’azione militare totale che, nella migliore tradizione statunitense e occidentale, ha però bisogno di una “giusta causa” ovvero di un attacco via terra e via aria diretto da parte del fronte sciita sul territorio israeliano.
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“Guerra di movimento” e costruzione del partito comunista
di Fosco Giannini
Tra la terza guerra mondiale già in corso, la crisi sistemica dell’Ue, la torsione in senso fortemente reazionario del capitalismo italiano e la totale assenza di un’opposizione politica, sociale e sindacale, cresce in Italia l’esigenza della costruzione di un’avanguardia comunista, di un partito comunista di classe, unitario, di quadri, con una linea di massa.
Riarmare politicamente la “classe” – oggi disarmata, muta, inane –, l’intera “classe politecnica” del lavoro, il movimento operaio complessivo attraverso la messa in campo di un partito comunista, rivoluzionario, d’avanguardia, di lotta, di quadri, con una linea di massa. Questo è l’obiettivo che le forze comuniste che si vanno unendo (Movimento per la Rinascita Comunista, Resistenza Popolare, Patria Socialista, Costituente Comunista) vogliono, in modo risoluto, perseguire – assieme ad altre soggettività comuniste che vorranno condividere il cammino – e hanno “proclamato”, pubblicamente e di fronte ad un vasto “pubblico” di compagne e compagne, di lavoratori e intellettuali, nell’ultima e importante giornata, nel dibattito finale (“Verso la costruzione del partito comunista”) della Festa nazionale del MpRC tenutasi a Castelferretti (Ancona) dal 13 al 15 settembre scorsi.
La messa in campo di una forza comunista e rivoluzionaria è un progetto che fa tremare le vene dei polsi. Ne siamo consapevoli. Ma la determinazione a proseguire l’impegno e la lotta per cogliere questo obiettivo acquisiscono a mano a mano più forza in relazione alla razionalità degli argomenti che sono alla base dello stesso progetto strategico. È una ratio politica e ideologica, un’interpretazione materialistica della fase, internazionale e nazionale, a guidarci, non il cuore, non un’idealità immateriale, non un sogno.
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La solita vittima dell’austerità: le pensioni
di coniarerivolta
Tra la fine d’agosto e l’inizio di settembre, come da tipico copione tardo-estivo, si è tornato a parlare con una certa frenesia di sistema pensionistico.
L’ormai conclamato e ufficiale ritorno in grande stile dell’austerità di bilancio impone ai governi europei di tornare con forza alle politiche di tagli draconiani che erano state in parte congelate nel periodo pandemico e post-pandemico (2020-2023).
Come sempre i bocconi più appetibili per fare cassa sono quelli dove potenzialmente c’è tanto da drenare e da risparmiare e dove le vittime designate sono le classi subalterne: sanità, scuola, servizi pubblici locali e, naturalmente, pensioni.
Il saccheggio pensionistico: un po’ di storia recente
Queste ultime sono state oggetto di una politica di spoliazione senza tregua dall’inizio degli anni ’90 in poi e continuano a esser viste dai governi di turno come un enorme pozzo dove scavare fino a raschiare il fondo. Essenzialmente in due modi: 1. allungamento continuo dell’età pensionabile; 2. riduzione dell’assegno pensionistico attraverso una transizione accelerata al calcolo contributivo e il costante taglio delle percentuali di indicizzazione all’inflazione.
In tema di età pensionabile, con la manovra finanziaria dello scorso anno eravamo rimasti al drastico aggravamento delle condizioni della già miserrima quota 103, peggiorativa a sua volta di quota 102, peggiorativa a sua volta della misera e pro-tempore quota 100, intese tutte come misure ponte temporanee per tornare di fatto alla regola generale della Legge Fornero che, al netto degli altri strumenti d’eccezione, consente ad oggi di accedere alla pensione attraverso due canali standard:
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Gli USA appaltano l’escalation nucleare ai vassalli europei e preparano la guerra contro l’Iran
di OttolinaTV
Carissimi Ottoliner, come saprete tutti benissimo la minaccia di escalation che ci ha tenuto sulle spine per tutta la scorsa settimana è stata sventata: il via libera di Washington all’utilizzo dei missili a lungo raggio USA per colpire dentro al cuore della Russia alla fine non è arrivato; purtroppo, però, non si tratta di un capitolo chiuso, ma di un semplice rinvio. Un teatrino che abbiamo già visto enne mila volte e che c’avrebbe anche abbondantemente rotto i coglioni. Ve lo ricordate il tira e molla sui carri armati? Mandagli prima gli Abrams te; no, prima i Leopard te. E poi gli F-16 mandaglieli te. No, te. Il tutto immancabilmente accompagnato da decine e decine di articoli che ci raccontavano la leggenda metropolitana dell’Occidente pieno zeppo di armi capaci di mettere fine alla guerra in un battibaleno, se solo non fosse stato per le opinioni pubbliche manipolate dalla potentissima macchina propagandistica del Cremlino. Poi alla fine, come ampiamente previsto, arrivavano i carri armati sia dell’uno che dell’altro; e pure gli F-16 e tutto quello che l’Occidente ha davvero a disposizione, ma sul campo non cambiava una seganiente. E tutte le volte il solito identico copione: qualche giorno di silenzio stampa per assestare un po’ il colpo, durante il quale la guerra scompariva dalle prime pagine della propaganda, e poi riborda, una nuova arma immaginaria e un nuovo teatrino; una sceneggiata che ormai gli italiani hanno capito alla perfezione: e così, oggi, è favorevole all’invio di nuove armi in Ucraina meno di un italiano su tre. Se ci levi quelli che campano di incarichi pubblici (che hanno bisogno della benedizione di Washington e di Bruxelles), i giornalisti del gruppo GEDI e i loro parenti, la percentuale scende a uno su dieci; alla fine ne rimarranno solo due e si chiameranno Iacopo Jacoboni e il suo ex direttore Maurizio Sambuca Molinari, che si rimette un po’ in sesto e ci riprova: Ucraina, le autocrazie armano Mosca titolava il suo esilarante editoriale di domenica su La Repubblichina.
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La sinistra necessaria: nuovi soggetti e nuove forme organizzative
di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni
Le elezioni europee hanno confermato, al di là del dato numerico, l’egemonia della destra. Il loro esito, inoltre, ha assunto una rilevanza che va oltre il nuovo assetto dell’Europa. Lo scenario politico ne esce, anche sul versante nazionale, profondamente segnato. All’analisi dei risultati abbiamo dedicato, nell’immediato, due ampie analisi di Marco Revelli (https://volerelaluna.it/commenti/2024/06/13/elezioni-a-che-punto-e-la-notte/ e https://volerelaluna.it/commenti/2024/06/19/europa-occidente-il-canto-stonato-delle-anatre-zoppe/) e un primo intervento di Livio Pepino (https://volerelaluna.it/controcanto/2024/06/17/dopo-le-europee-la-necessita-di-un-dibattito-senza-reticenze/) teso a mettere sul tappeto alcune questioni aperte. La situazione interpella, peraltro, anche noi di Volere la Luna e i gruppi e movimenti che compongono il variegato arcipelago che ci ostiniamo a chiamare sinistra alternativa. Che fare? La domanda di sempre richiede oggi analisi particolarmente accurate e risposte all’altezza dei tempi bui che stiamo vivendo, in cui all’ormai consolidata vittoria del mercato si affiancano, in Italia, il consolidamento di una svolta autoritaria che non tollera dissenso e, sul piano internazionale, una guerra mondiale “a pezzi” che rischia di degenerare in guerra nucleare. Abbiamo, dunque, deciso di aprire, sul punto, un dibattito franco e – lo speriamo – capace di non fermarsi all’esistente e di individuare nuove modalità e nuove strade da percorrere. Le analisi e le proposte pubblicate rappresenteranno uno sforzo collettivo ma saranno tra loro assai diverse e impegneranno, per questo, solo i loro autori. Poi, a suo tempo, forti del confronto realizzato, proveremo a trarre delle conclusioni, magari in un’iniziativa di carattere nazionale su cui stiamo cominciando a ragionare. (la redazione)
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Non ci vuole solo coraggio, ma anche una buona dose di temerarietà nel cercare di rispondere alla domanda che Volere la Luna ci pone: “Che fare?”.
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La rivoluzione culturale
di Alain Badiou
Tratto da Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesis, 2023, Titolo originale: Petrograd, Shanghai, La Fabrique Éditions, 2018. Traduzione italiana di Linda Valle
1. Perché?
Perché parlare della “Rivoluzione culturale” – il nome ufficiale di un lungo periodo di gravi disordini nella Cina comunista tra il 1965 e il 1976? Per almeno tre motivi.
Primo motivo. La Rivoluzione culturale è stata un riferimento costante e vivo per l’azione militante in tutto il mondo, e in particolare in Francia, almeno tra il 1967 e il 1976. Fa parte della nostra storia politica, ha fondato l’esistenza della corrente maoista, l’unica vera creazione degli anni Sessanta e Settanta. Posso dire “noi”, io c’ero e in un certo senso, per citare Rimbaud, “sono qui, sono sempre qui”. Nell’instancabile inventiva dei rivoluzionari cinesi, ogni genere di traiettoria soggettiva e pratica ha trovato la sua nominazione. Già cambiare la soggettività, vivere in modo diverso, pensare in modo diverso, i cinesi – e poi noi – lo chiamavano “rivoluzionamento”. Dicevano: “cambiare l’uomo in ciò che ha di più profondo”. Ci hanno insegnato che nella pratica politica bisogna essere sia “l’arciere che il bersaglio”, poiché la vecchia visione del mondo è ancora molto presente in noi. Alla fine degli anni Sessanta siamo andati ovunque, nelle fabbriche, nelle case popolari, nelle campagne. Decine di migliaia di studenti diventavano proletari o vivevano in ostelli operai. Anche per questo c’erano le parole della Rivoluzione culturale: “grandi scambi di esperienze”, “servire il popolo” e, ancora fondamentale, “legame di massa”. Combattevamo contro la brutale inerzia del Partito comunista francese, il suo violento conservatorismo. Anche in Cina veniva attaccato il burocratismo del Partito, per cui si utilizzava l’espressione “lotta al revisionismo”. Anche le scissioni, gli scontri tra rivoluzionari di diverso orientamento, si dicevano alla cinese: “stanare la banda nera”, sbarazzarsi di coloro che “sembrano di sinistra e in realtà sono di destra”.
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La Pace, Trump, Putin e lo spettro del rossobrunismo
di Antonio Castronovi
Con in calce tre commenti di Alessandro Visalli, Fabrizio Marchi e Giulio Bonali
Viviamo nell’epoca dei paradossi e dei conflitti identitari, in cui il Bianco è Nero e il Nero è Bianco, in cui la Sinistra non sembra sinistra e la Destra non sembra destra, in cui Pace è sinonimo di Guerra, in cui Democrazia è sinonimo di Oligarchia e in cui Libertà è sinonimo di Dittatura e di Censura.
La confusione semantica nell’uso delle parole e del loro significato contribuisce ad annebbiare le coscienze e a depotenziare qualsiasi anelito di rivolta e di opposizione al regime oligarchico e tecnocratico che domina l’Occidente e ci impedisce la comprensione della natura dei conflitti che attraversano il cuore dell’Impero anglosassone e delle sue élite dominanti.
Emblematico è il caso delle elezioni statunitensi in cui si fronteggiano la “democratica” Kamala Harris e il “repubblicano” Donald Trump, che nel linguaggio orwelliano rappresentano la destra e la sinistra, in cui la sinistra spinge per la guerra alla Russia e la destra “frena” e promette una soluzione pacifica del conflitto che insanguina l’Ucraina, salvo verifica.
Nel mondo orwelliano chi parla di pace è un nemico della democrazia e della libertà, è un putiniano amico dei dittatori, quindi va censurato, zittito. Negli USA, si sa, non ci vanno per il sottile, e sono più pratici e sbrigativi: li ammazzano, soprattutto se sono ai vertici del potere o vi aspirano. Inutile citare i fratelli Kennedy o riandare indietro nel tempo fino all’assassinio di Abramo Lincoln.
Già, la guerra civile americana! Abramo Lincoln era il presidente repubblicano degli USA e rappresentava il Nord industriale che voleva emanciparsi dal colonialismo inglese e propugnava politiche protezionistiche per sostenere la nascente industria, concentrata nel Nord.
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Se questa è una scuola
di Francesco Prandel
La scuola dovrebbe sempre avere come suo fine che i giovani ne escano con personalità armoniose, non ridotti a specialisti. Questo, secondo me, è vero in certa misura anche per le scuole tecniche, i cui studenti si dedicheranno a una ben determinata professione. Lo sviluppo dell’attitudine generale a pensare e giudicare indipendentemente, dovrebbe sempre essere al primo posto, e non l’acquisizione di conoscenze specializzate.[Albert Einstein]
Nel suo libro “Gli anni difficili” Albert Einstein scriveva «non sbagliò quella persona spiritosa che definì l’educazione con queste parole: ”L’educazione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato quanto si è imparato a scuola”». A che cosa educa, oggi, la scuola italiana? Che cosa resta agli studenti quando hanno dimenticato il teorema di Ruffini e le operette morali di Leopardi? La risposta si può agevolmente reperire esaminando tre fatti che hanno interessato le nostre scuole negli ultimi anni, dai quali risulta chiaro come la scuola italiana si rapporta alla società nel suo complesso. In questo rapporto, più che in quanto viene insegnato o non insegnato nelle classi, si inscrivono a mio parere i reali criteri educativi adottati dalla scuola. Elenco di seguito questi tre fatti, in ordine cronologico, dandone una breve descrizione.
1) La digitalizzazione della didattica. A partire dalla “buona scuola” di Matteo Renzi in poi, le nostre scuole si sono progressivamente dotate di dispositivi digitali ad uso didattico. Alla digitalizzazione della didattica hanno dato un notevole impulso i fondi PNRR recentemente elargiti, in virtù dei quali molte scuole hanno incrementato ulteriormente la loro dotazione digitale. A quanto si apprende dal Piano Scuola 4.0 “nell’anno scolastico 2017- 2018 la percentuale di docenti che utilizzava almeno settimanalmente le tecnologie digitali per fare didattica era del 44,5%, nel 2020-2021 è salita all’84,4%.”.
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Il prestito e le tasse, anche. Cronache marXZiane n. 15
di Giorgio Gattei
1. Se la moneta è “Dio” (vedi la Cronaca precedente), di quanto “Dio” ci sarà bisogno sul pianeta Marx, quel corpo teorico celeste comparso improvvisamente nel cielo dell’economia e a cui Karl Marx, che più di tutti l’ha investigato, ha dato il suo nome?
Intanto facciamo il punto su quanto abbiamo finora appreso, e cioè che la moneta non deriva affatto dall’iniziativa spontanea degli “scambisti democratici” sul mercato, come l’ha raccontata Aristotele e si continua a ripetere, bensì dalla pratica di “buon vicinato” di prestare qualcosa a qualcuno con l’impegno di farsela restituire in futuro (che poi non sarebbe altro che lo sviluppo di quella originaria “economia del dono”, studiata da Marcel Mauss, che impone comunque l’obbligo di ricambiare il dono ricevuto e addirittura ad abundantiam). Se poi a certificazione del prestito concesso venisse redatta una qualche scrittura con l’indicazione di quanto prestato e del nome del debitore, saremmo davanti a una promessa di pagamento, a queli “pagherò” che sarebbero stati all’origine della moneta «prima delle sue origini», per dirla con il bel titolo di un libro di O. Bulgarelli (2001). Quella primitiva “scrittura monetaria” (se tale ci azzardassimo di chiamarla) resterebbe però nelle mani del creditore finché il debitore non avesse restituito quanto ricevuto in prestito, dopo di che gli sarebbe riconsegnata liberandolo dalla sua obbligazione. Se così può essere stato, come la documentazione storica sembra provare, allora la moneta avrebbe trovato la sua origine in una relazione di debito/credito piuttosto che in uno scambio tra compratori e venditori, ma questa interpretazione alternativa (“cartalista” come è stata chiamata, ma il termine è equivoco e non ha fatto presa) ha potuto farsi strada soltanto nel corso del Novecento, man mano che venivano alla luce le “pratiche monetarie” di Sumeri e Babilonesi e sulle quali abbiamo adesso almeno i due testi riepilogativi di D. Graeber, Debito. I primi 5000 anni (2012) e La natura della moneta (2016) di G. Ingham. ma qui soprattutto merita citare la succosa sintesi di P. Tcherneva, Il cartalismo e l’approccio alla moneta come entità guidata dalle tasse (2019, in rete) che ha ispirato questa “Cronaca marXZiana”.
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God save the drag queen! La cultura woke tra antagonismo e neoliberismo
di Fabio Ciabatti
Mimmo Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Nottetempo 2024, € 17, pp. 192.
C’è una singolare coincidenza nella strategia politica dei due partiti che competono per la presidenza americana. I due candidati vicepresidenti, Tim Walz per i democratici e J.D. Vance per i repubblicani, sembrano essere stati scelti per contendersi le spoglie della classe lavoratrice americana. Le questioni legate all’identità di classe non possono certamente prendere troppo spazio nella campagna elettorale. Siamo pur sempre nel ventre della bestia capitalistica mondiale. Eppure la classe non è questione che possa essere bellamente ignorata perché, come si suol dire anche se in modo decisamente banalizzante, gli elettori votano soprattutto con il portafoglio. Perciò non rimane che evocare un sbiadito simulacro della classe per poi farlo agitare con cura da due personaggi secondari dello spettacolo elettorale.
Ed ecco spuntare dal cilindro Tim Walz, particolarmente gradito ai sindacati americani. A dirla tutta, però, J.D. Vance sembra più adatto a invocare il fantasma dell’America lavoratrice: nella sua famosa autobiografia, Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis, egli rivendica apertamente le sue origini popolari, ovviamente dal punto di vista di chi ce l’ha fatta a diventare un uomo di successo. Con l’assumere su di sé il connotato dispregiativo della parola hillbilly (nella sua accezione negativa, il termine significa cafone, zoticone ecc.) l’autore vuole evidentemente marcare la propria distanza dall’élite dominante. Insomma ci troviamo nel bel mezzo di un guazzabuglio postmoderno con i repubblicani che sembrano più a loro agio nell’evocare, certamente a modo loro, temi legati all’appartenenza di classe rispetto ai democratici. Questi ultimi, invece, attraverso la loro candidata alla presidenza, una donna di colore di origini asiatiche, hanno il physique du rôle per impersonare le questioni legate alle cosiddette identity politics, nonostante si guardino bene dal farne un tema centrale della propaganda elettorale.
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Italia sotto shock: il paese rientra a scuola, ma invece dei prof ci trova Flavio Briatore
di OttolinaTV
Oltre 7 milioni di studenti e poco meno di 700 mila insegnanti (oltre i quasi 200 mila tra personale amministrativo, tecnico e ausiliario); da stamattina si rimette completamente in moto quella che potremmo definire, in assoluto, la più grande industria del paese e anche quella che - probabilmente più di ogni altra – è indicativa del nostro stato di salute e del nostro grado di civiltà: l’industria della conoscenza o, come la definisce il nostro Federico Greco, l’industria della d’istruzione pubblica (con la d davanti). La scuola che infatti finiamo di ripopolare con oggi è una scuola che, in ossequio ai dettami del neoliberismo più fondamentalista, è stata e sarà sempre di più spogliata del suo ruolo fondamentale: la formazione di una cittadinanza consapevole che abbia tutti gli strumenti per partecipare attivamente e consapevolmente alla vita pubblica; un progetto di lunga durata, coltivato meticolosamente nel tempo, che rappresenta uno dei pilastri fondamentali di quella che noi definiamo, appunto, la Controrivoluzione Neoliberista – che, in soldoni, significa la guerra delle classi dominanti contro la democrazia. Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno storia e filosofia nelle scuole superiori e, con questo video, Ottolina Tv oggi ha deciso di salutare il ritorno sui banchi di scuola dei nostri ragazzi e dei miei colleghi ricostruendo, passo dopo passo, gli snodi fondamentali di questo crimine contro il popolo italiano che è stata la devastazione della scuola pubblica e cercando di fare una proposta concreta per riprendercela.
Il termine scuola significa oggi “luogo nel quale si attende allo studio”; in realtà, però, deriva dal latino schŏla che, a sua volta, deriva dal greco scholé e che in origine significa – udite, udite – tempo libero, un po’ come l’otium dei latini: quella parentesi dalle fatiche quotidiane durante la quale ci si dovrebbe poter occupare liberamente di coltivare le proprie predisposizioni intellettuali senza necessariamente avere secondi fini, giusto per il gusto di farlo.
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Se due secoli vi sembran pochi
La storia della rivoluzione secondo Traverso
di Carlo Formenti
A mo' di premessa
A volte succede di adocchiare il titolo di un libro appena uscito e dirsi “questo lo devo leggere”. Così mi è capitato con il libro di Enzo Traverso, Rivoluzione 1789-1989. Un’altra storia (Feltrinelli). Dopodiché l’incombere di altre priorità di lettura, associate a un lavoro impegnativo di cui stavo per licenziare la versione definitiva (1), ma soprattutto l’esauriente presentazione del saggio di Traverso che ho potuto consultare sul blog dell’amico Alessandro Visalli (2), mi hanno fatto rimandare l’acquisto e poi dimenticare il proposito di effettuarlo. Tuttavia questa estate, mentre traducevo il libro di Kevin Ochieng Okoth, Red Africa (l’edizione italiana sarà in libreria per i tipi di Meltemi il prossimo novembre, con una mia postfazione), mi sono imbattuto in una citazione dell’edizione inglese del testo di Traverso, e il mio interesse si è riacceso, soprattutto perché la citazione si inserisce nel contesto di una critica – condivisa da chi scrive - nei confronti di un movimento comunista occidentale che ha pressoché ignorato il contributo delle lotte di liberazione del Sud del mondo al rinnovamento del marxismo. Dal momento che mi è parso di ricordare che anche Visalli attribuisce a Traverso interessanti spunti di riflessione sul tema, ho rimediato al mancato acquisto di un paio d’anni fa, ed eccomi dunque qui a ragionare sul contributo dell’autore all’analisi di due secoli di esperienze rivoluzionarie.
Prima di avviare il discorso, faccio un paio di premesse per facilitare al lettore tanto la comprensione del punto di vista di chi scrive, quanto la decisione di acquistare o meno il libro. In primo luogo, devo confessare che sono rimasto piacevolmente sorpreso nel verificare che Traverso ha pubblicato un lavoro che può (anche) essere considerato una approfondita ricerca iconografica sulla produzione di simboli, immagini e figure (quadri, opere d’arte, fotografie, bandiere, manifesti, divise, ecc.) associati ai vari eventi rivoluzionari dei secoli XVIII, XIX e XX. Uno straordinario repertorio visivo che, a mio avviso, vale da solo l’acquisto del volume.
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Il dibattito teorico-politico su Gramsci negli anni Settanta
di Guido Liguori*
1. Cagliari 1967
Per la comprensione del dibattito su Gramsci in Italia negli anni Settanta, conviene probabilmente dividere il decennio in due parti. Una prima parte, che arriva fino alla pubblicazione nel 1975 dell’edizione critica dei Quaderni del carcere a cura di Valentino Gerratana, è contraddistinta da una serie di studi per il tempo innovativi, che reagivano per alcuni aspetti al convegno gramsciano di Cagliari del 1967 (di cui dirò) e che fecero compiere alla conoscenza di Gramsci e soprattutto del suo pensiero un vero e proprio salto di qualità. Una seconda parte del decennio, invece, che è più rilevante dal punto di vista politico, ovvero del dibattito pubblico, e si interseca: a) con la cosiddetta “questione comunista”, cioè con la speranza di un sorpasso elettorale del Pci sulla Dc, e poi con i governi di solidarietà nazionale e le polemiche che ne derivarono; b) con la crescente polemica tra comunisti e socialisti del tempo, a partire dal “nuovo corso” craxiano, una polemica a tutto campo, in cui fu coinvolto anche Gramsci.
Alle spalle degli anni Settanta vi era l’onda lunga del secondo biennio rosso 1968-1969, che determinò in Italia una inedita e prolungata fortuna di tutti o quasi gli autori della tradizione marxista, e con essi anche di Gramsci. Sul piano degli studi gramsciani propriamente detti, l’antecedente più immediato era il convegno di Cagliari del 1967, i cui atti vennero pubblicati due anni dopo1. Un convegno che, benché non fosse stato in realtà univoco, fin dal titolo – Gramsci e la cultura contemporanea – rischiava di incasellare Gramsci in quel ruolo di “grande intellettuale” che gli era stato assegnato dopo la guerra e fino a metà degli anni Cinquanta, quando sia la pubblicazione degli scritti del Biennio rosso, sia le novità del XX Congresso avevano concorso a far ritornare sulla scena, giustamente e inevitabilmente, il Gramsci militante, dirigente e pensatore politico.
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I tanti volti del Capitale
di Marcello Musto
L'opera di Karl Marx possiede le doti dei grandi classici: stimola nuovi pensieri ed è capace di illustrare aspetti fondamentali del passato quanto della contemporaneità
Passano i lustri e, sebbene sia stato descritto più volte come un testo antiquato, si ritorna a discutere del Capitale di Karl Marx (appena ripubblicato in una nuova edizione da Einaudi). Nonostante abbia compiuto 157 anni (fu pubblicato il 14 settembre del 1867), la «critica dell’economia politica» conferma di possedere tutte le virtù dei grandi classici: stimola nuovi pensieri a ogni rilettura ed è capace di illustrare aspetti fondamentali del passato quanto della contemporaneità. Simultaneamente, ha il pregio di circoscrivere la cronaca del presente – così come il peso dei suoi, spesso inadeguati, protagonisti – nella posizione relativa che le spetterebbe. Non a caso, il celebre scrittore italiano Italo Calvino affermò che un classico è tale anche perché ci aiuta a «relegare l’attualità al rango di rumore di fondo». I classici indicano le questioni essenziali e i punti ineludibili per poterle intendere a fondo e dirimerle. Per questo motivo essi conquistano perennemente l’interesse di nuove generazioni di lettori. Un classico rimane indispensabile nonostante il trascorrere del tempo e, anzi, nel caso del Capitale si può affermare che questo scritto assume tanto più efficacia quanto più il capitalismo si diffonde in ogni angolo del pianeta e si espande in tutte le sfere delle nostre esistenze.
Ritorni a Marx
In seguito allo scoppio della crisi economica del 2007-2008, la riscoperta del magnum opus di Marx fu una vera e propria necessità, quasi la risposta a un’emergenza: rimettere in circolazione il testo – da tutti dimenticato, dopo la caduta del Muro di Berlino – che forniva chiavi interpretative ancora valide per comprendere le vere cause della follia distruttiva del capitalismo.
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