Fai una donazione
Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________
- Details
- Hits: 1299
La militarizzazione della Scandinavia e la Grande Guerra del Nord 2.0
di Glenn Diesen
Sul tema dell’allargamento della NATO alla Penisola Scandinava e la sicurezza della regione del Baltico ripubblichiamo, tradotto dall’inglese, un interessante articolo del professor Glenn Diesen (titolo originale The Militarisation of Scandinavia & the Great Northern War 2.0 How a Region of Peace Became an American Frontline”) uscito il 6 settembre che valuta con un’analisi critica prospettive e sviluppi strategici in quella regione.
Glenn Diesen è professore presso l’Università della Norvegia sud-orientale (USN) e Associate Editor presso Russia in Global Affairs. L’attività di ricerca di Diesen si concentra su geoeconomia, conservatorismo, politica estera russa e Grande Eurasia.
* * * *
La militarizzazione della Scandinavia comprometterà drasticamente la sicurezza della regione e determinerà nuovi conflitti poiché la Russia sarà costretta a rispondere a quella che potrebbe diventare una minaccia esistenziale. La Norvegia ha deciso di ospitare almeno 12 basi militari statunitensi sul suo territorio, mentre Finlandia e Svezia seguono l’esempio trasferendo il controllo sovrano su parti del loro territorio dopo essere recentemente diventate membri della NATO. Saranno costruite infrastrutture per portare più velocemente le truppe statunitensi ai confini russi, mentre il Mar Baltico e l’Artico saranno convertiti in mari della NATO.
Mentre la Scandinavia si converte da una regione di pace a una linea del fronte degli Stati Uniti, ci si aspetterebbe un ulteriore dibattito su questo cambiamento storico. Tuttavia, le élite politico-mediatiche hanno già raggiunto il consenso sul fatto che l’espansione della NATO migliora la nostra sicurezza grazie a una maggiore forza militare e deterrenza. Più armi raramente portano a più pace, sebbene questa sia la logica della pace egemonica a cui questa generazione di politici si è impegnata.
- Details
- Hits: 1267
Vulnerabili all’allucinazione. Dalla tv ai social sulle orme di Neil Postman
di Andrea Sartori
Nell’agosto dello scorso anno, Luiss University Press ha opportunamente ripubblicato la traduzione in italiano del saggio del 1985 del sociologo e teorico dei media americano Neil Postman (1931-2003), dal titolo Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (Prefazione di Matteo Bittanti).
Quaranta anni fa, all’epoca dell’uscita per Viking (Penguin Random House) di Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business, Postman faceva sedere la televisione al banco degli imputati della critica dei media. Questo non significa che rileggere il suo lavoro oggi equivalga a una mera operazione archeologica sui mezzi della comunicazione. Divertirsi da morire, infatti, ci fornisce obliquamente delle indicazioni anche circa quel che sta accadendo nella nostra contemporaneità, segnata dal predominio dei social media, dei relativi codici comunicativi, e dei poteri economici che li alimentano (a partire da quelli di Mark Zuckerberg ed Elon Musk).
La tesi sostenuta in queste righe, ricavata da alcune riflessioni che Postman svolge su un testo di Northrop Frye (Il grande codice. Bibbia e letteratura [1981], Vita e Pensiero, 2018), è che i socialintensificano fino al parossismo una predisposizione o affordance che è propria della TV e già della parola scritta, benché in quest’ultimo caso essa sia sviluppata in misura minore.
Frye, come riporta Postman (p. 27), sostiene che «la parola scritta è molto più potente che non il semplice ricordare: essa ricrea il passato nel presente, e ci dà, non solo la cosa ricordata, ma l’intensità eccitante di un’allucinazione» (The Great Code: The Bible and Literature, Academic Press, 1981, p. 227).
- Details
- Hits: 1416
Gli americani hanno messo gli occhi su Trieste, e non è un bene per il porto giuliano
di Roberto Iannuzzi
Washington vuole integrare Trieste nella sua strategia di contenimento di Russia e Cina, ma i suoi progetti sono nel migliore dei casi inconcludenti, nel peggiore pericolosi
Negli ultimi mesi, diversi articoli riguardanti Trieste sono apparsi su think tank e riviste specializzate negli USA. Il più recente, pubblicato dal National Interest, risale allo scorso 14 agosto.
Senza giri di parole, gli autori (Kaush Arha dell’Atlantic Council, e Carlos Roa, visiting fellow presso il Danube Institute di Budapest) affermano che lo scalo triestino, storicamente porta marittima di accesso all’Europa centrale e orientale, può svolgere un ruolo chiave nel connettere l’Europa all’Indopacifico nel quadro dei piani americani volti a competere con la Belt and Road Initiative (BRI), la Via della Seta cinese.
Questi piani consistono essenzialmente nella creazione di un corridoio economico e commerciale che dovrebbe unire l’India alla penisola araba, e quest’ultima all’Europa attraverso Giordania e Israele. Denominato India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC), tale progetto fu lanciato da Washington al G20 tenutosi un anno fa in India (9 e 10 settembre 2023).
A livello mediatico, all’IMEC è stato spesso affibbiato il nome di “Via del Cotone”, per contrapporla ancor più esplicitamente alla Via della Seta cinese.
Un altro articolo, pubblicato dall’Atlantic Council lo scorso 21 maggio, sottolineava inoltre la necessità di integrare Trieste con il Baltico e il Mar Nero attraverso la creazione di due corridoi stradali e ferroviari che colleghino il porto giuliano con quelli di Danzica in Polonia e di Costanza in Romania.
Assieme a un terzo corridoio fra Danzica e Costanza, tali direttrici andrebbero a formare i lati di un triangolo di trasporti in grado di unire l’Adriatico con gli altri due mari.
- Details
- Hits: 1883
Il DDL 1660: vivisezione di una legge liberticida
di Il Pungolo Rosso
Da molti anni, con i più svariati pretesti, governi di diverso colore hanno introdotto leggi per limitare l’agibilità di scioperare, lottare, manifestare.
Il governo Meloni è deciso a proseguire questa operazione facendo fare alla repressione statale delle lotte e dello stesso dissenso un salto qualitativo e quantitativo attraverso il disegno di legge 1660, che dal 10 settembre è alla Camera per la discussione e la rapidissima approvazione.
Con questa “legge-manganello” il governo vuole regolare i conti con tutte le realtà ed esperienze di lotta in corso e creare gli strumenti giuridici necessari per prevenire e stroncare sul nascere i futuri, inevitabili conflitti sociali. La sempre più marcata tendenza alla guerra sul fronte esterno richiede sul fronte interno un contesto sociale pacificato, e a questo “lavorano” tutti gli apparati dello stato.
Introducendo nuovi reati e nuove aggravanti di pena, il DDL 1660 colpisce a un tempo le manifestazioni contro le guerre, a cominciare da quelle contro il genocidio dei palestinesi a Gaza, e quelle contro la costruzione di nuovi insediamenti militari; i picchetti operai; le proteste contro le “grandi opere”, la catastrofe ecologica, la speculazione energetica; le forme di lotta di cui questi movimenti si dotano per aumentare la propria efficacia come i blocchi stradali e ferroviari; le occupazioni di case sfitte. E contiene norme durissime contro qualsiasi forma di protesta e di resistenza, anche passiva, nelle carceri e nei Centri di reclusione degli immigrati senza permesso di soggiorno, perfino contro le proteste di familiari e solidali a loro supporto.
Il DDL 1660 arriva a punire anche il “terrorismo della parola”, cioè la detenzione di scritti che inneggiano alla lotta – dal momento che, gratta gratta, dietro il ricorso alla categoria “terrorismo”, usata apposta per creare paura, non c’è altro che la lotta di classe, la lotta al colonialismo e le lotte sociali ed ecologiste.
- Details
- Hits: 1267
Fabbricanti d’universi: ruoli, regole e fantasie
di Valerio Pellegrini e Davide Scaturro
Molto più di un manuale di scrittura, “Fare mondi” di Ian Cheng è una matrice di universi possibili
Fare Mondi di Ian Cheng si presenta come un manuale di scrittura. Ma in certi punti l’artista losangelino le cui opere sono esposte tra l’altro al MOMA, al Whitney Museum, alla Fondazione Louis Vuitton di Parigi, alza davvero alto il tiro quando punta ad applicare il suo metodo niente di meno che alla condizione umana. Un viaggio introspettivo scritto da un artista che indaga non solo la psiche del creativo, ma anche le complesse dinamiche della vita mentale di chiunque cerchi di dare un senso o una prospettiva al proprio universo. In pratica il libro di Cheng spiega un metodo per capire, progettare e comunicare interi universi di significato.
Che cos’è il worlding
Nella visione di Cheng, il mondo è “la realtà onnicomprensiva in cui siamo inglobati” (fisicamente e mentalmente inglobati), mentre un Mondo (con la M maiuscola) è il frutto dell’arte del “worlding”, ovvero la progettazione di un intero universo di significati in cui abitare nel tempo. Il Mondo è uno speciale tipo di universo in cui i significati sono disposti in una rete organica di giochi e di interazioni finalizzate alla sopravvivenza del Mondo stesso.
“Un futuro in cui è possibile credere, perché promette di diventare un gioco infinito. […] In un gioco finito si gioca per vincere. Ci sono regole chiare e un finale definito. In un gioco infinito si gioca per continuare a giocare. Se c’è il rischio che finisca, le regole devono essere modificate affinché il gioco prosegua”.
L’arte “innaturale” del worlding è la capacità di costruire un universo finito che scatena un gioco infinito di significazioni. Il termine concepito da Cheng si differenzia dalla comune accezione del termine world building per il fatto che tratta di Mondi come artefatti non necessariamente narrativi.
- Details
- Hits: 1699
Imperialismi e rivalità economica
di Costas Lapavitsas
Il crescente conflitto tra blocchi diversi conferma che non esiste un'unica classe capitalista mondiale. E non c'è motivo di considerare migliori i capitalismi di Russia, Cina o India
La geopolitica mondiale è attualmente segnata da straordinarie tensioni e conflitti armati che fanno temere una guerra mondiale, soprattutto in Ucraina, Medio Oriente e Taiwan. Dall’inizio del 2010, la disposizione delle principali potenze statali ricorda sempre più gli anni precedenti alla grande conflagrazione imperialista del 1914. Una simile svolta sarebbe stata difficilmente immaginabile negli anni Novanta, quando l’ideologia della globalizzazione neoliberista dominava e gli Stati uniti regnavano come unica superpotenza.
Gli Usa restano senza dubbio il principale – e più aggressivo – attore sulla scena internazionale, come dimostra la loro posizione nei confronti della Cina. È importante notare che nessuno dei suoi potenziali sfidanti proviene dalle «vecchie» potenze imperialiste, ma tutti sono nati da quello che una volta era considerato il Secondo o il Terzo Mondo, con la Cina come principale concorrente economico e la Russia come principale concorrente militare. Ciò riflette la profonda trasformazione dell’economia mondiale negli ultimi decenni.
L’inasprimento delle tensioni avviene, inoltre, in un momento di storica performance negativa del nucleo centrale dell’economia mondiale, in particolare dopo la Grande Crisi del 2007-09. L’attività economica nelle aree centrali è notevolmente debole in termini di crescita, investimenti, produttività e così via, e non ci sono segnali evidenti di un nuovo rilancio. Il periodo successivo alla Grande Crisi del 2007-09 è un classico interregno nel senso di Antonio Gramsci, cioè del vecchio che muore e del nuovo che non nasce, solo che in questo contesto segnala l’incapacità del nucleo dell’accumulazione capitalistica di intraprendere una propria crescita sia a livello interno che internazionale.
- Details
- Hits: 1167
I piani di Israele
di Enrico Tomaselli
La situazione mediorientale somiglia sempre più a una pentola a pressione, che però nessuno ha interesse a far esplodere realmente. Come spesso accade, quando un conflitto deve fare i conti con l’impossibilità di una vittoria sul campo, e con l’incapacità della leadership politica di misurarsi con questa realtà, il rischio maggiore deriva proprio dalla mancanza di una prospettiva chiara, e quindi dal fatto che la guerra – lasciata a sé stessa – finisca per prendere vita propria, scivolando verso la catastrofe senza che nessuno lo voglia effettivamente.
Per quanto ritenga che i rischi effettivi di un ricorso alle armi nucleari siano sempre sopravvalutati (il che, in fondo, è parte della strategia di deterrenza che le caratterizza), bisogna riconoscere che siamo qui di fronte a una congiuntura assai particolare. Da un lato, infatti, abbiamo uno stato – Israele – impegnato in un conflitto che non è in condizione di vincere militarmente, che non può sostenere a lungo socialmente ed economicamente, e che non può politicamente permettersi di perdere. Dall’altro, abbiamo il governo più estremista e fanatico della storia di questo paese, che sia per interessi e ambizioni personali (Netanyahu) che per delirio messianico (Ben Gvir, Smotrich), è disposto a tutto.
Sullo sfondo, aleggia l’ombra della semi-segreta e famigerata Direttiva Sansone [1] – una sorta di estensione ancor più delirante dell’ormai ben nota Direttiva Annibale. In base a questa folle clausola, qualora lo stato ebraico percepisse di trovarsi in una condizione in cui la sua stessa esistenza fosse minacciata, e non vi fosse alcuna realistica possibilità di annullare la minaccia, l’intero arsenale nucleare del paese (stimato in circa 300 testate) verrebbe lanciato contro paesi nemici e amici, col preciso intento di scatenare un conflitto nucleare globale – muoia Sansone e tutti i filistei, appunto – secondo una logica suprematista e razzista, per cui un mondo senza ebrei (in realtà senza sionisti, poiché circa solo la metà degli ebrei vive in Israele) non merita di esistere.
- Details
- Hits: 2098
“Sahra Wagenknecht è l’unica che pone le domande giuste — e offre le risposte giuste”
intervista a Wolfgang Streeck
Il famoso sociologo tedesco discute delle recenti elezioni nella Germania orientale, della necessità di tornare allo Stato-nazione, del comunitarismo di sinistra e delle carenze del populismo di destra. Wolfgang Streeck è un sociologo ed economista politico tedesco, direttore emerito del Max Planck Institute for the Study of Societies di Colonia. Il lavoro di Streeck si concentra sulle tensioni tra capitalismo e democrazia, in particolare su come i sistemi economici influenzano le strutture sociali e politiche. Tra i suoi libri più noti vi è Buying Time: The Delayed Crisis of Democratic Capitalism, dove esplora le conseguenze a lungo termine delle politiche neoliberali. Streeck è ampiamente riconosciuto per i suoi contributi alle discussioni sul futuro del capitalismo nelle economie avanzate.
* * * *
Zeit: A cosa sta pensando in questo momento, signor Streeck?
Wolfgang Streeck: Qualcuno come me, che ha lavorato per decenni sull’economia politica, non può fare a meno di notare oggi che la nostra prospettiva sulle società è stata a lungo limitata, perché spesso abbiamo trascurato il fatto che ci occupiamo di società nazionali. La storia del capitalismo democratico, ad esempio, può essere compresa solo esaminando le connessioni tra le singole società nazionali e la società globale.
Zeit: Lei è considerato una delle principali influenze intellettuali della politica di Sahra Wagenknecht. È soddisfatto del successo dell’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW) in Sassonia e Turingia?
Streeck: Oh Dio, raramente mi sento soddisfatto, ma guardo a questo con grande simpatia. La crisi del sistema politico tedesco è innegabile, e non è solo un fenomeno tedesco, ma può essere osservato in tutte le società capitaliste occidentali: il crollo del centro, il declino della socialdemocrazia e l’emergere di nuovi partiti che rappresentano interessi e valori che in precedenza non avevano posto nello spettro politico consolidato.
- Details
- Hits: 1360
Le tensioni tra Usa e Cina e lo stato di salute del capitalismo mondiale
di Raffaele Sciortino
Benjamin Bürbaumer, Chine/ Ètats-Unis, le capitalisme contre la mondialisation, Paris, La Découverte, 2024
Nella letteratura sullo stato delle relazioni sino-americane non è affatto facile ritagliarsi uno spazio. A maggior ragione se il focus è non su aspetti particolari ma sul quadro complessivo, nello spazio e nel tempo, dello scontro che va delineandosi tra Stati Uniti e Cina Popolare. Ciò vale in particolare per gli studi europei non in lingua inglese, sui quali pesa la scarsa attenzione per un tema che il pubblico continentale percepisce sì come cruciale ma tende a vivere da spettatore passivo. Gioco forza, data la crescente irrilevanza della Unione Europea nel quadro economico e geopolitico mondiale. Rappresenta una parziale eccezione la Francia, per ragioni che rimandano vuoi alle mai scomparse velleità geopolitiche vuoi alla percezione del declino interno e internazionale del paese.
Dopo la pubblicazione tra il 2022 e il 2023 di alcuni lavori in lingua francese sulla competizione tra le due potenze[1], è da poco uscito su questo tema il lavoro di un giovane studioso di economia politica internazionale, Chine/ Ètats-Unis, le capitalisme contre la mondialisation di Benjamin Bürbaumer. Mentre fin qui il focus delle analisi si è per lo più incentrato sull’ambito della politica internazionale, ciò che caratterizza in positivo questo studio è il rifiuto esplicito di un approccio che fa della geopolitica una dinamica separata e in ultima istanza decisiva incentrata oltretutto sulla relazione tra attori nazionali. La tendenza allo scontro Usa/Cina parla innanzitutto dello stato di salute del sistema capitalistico mondiale e della parabola paradossale della globalizzazione (che gli autori francesi chiamano mondializzazione). Paradossale a misura che il “nodo mondializzazione-finanziarizzazione” – il cui asse, vedremo, si è costituito proprio intorno alla relazione Stati Uniti/Cina – ha sì permesso al capitalismo mondiale la fuoriuscita dalla crisi degli anni Settanta, ma alla condizione di innescare l’ascesa di un potente rivale del capitale occidentale che è oggi arrivato a contestare la “supervisione” statunitense della mondializzazione stessa.
- Details
- Hits: 1288
A sinistra vietato vietare?
di Giovanni Di Benedetto
Il presente lavoro è stato elaborato in occasione della presentazione del libro Vietato a sinistra (a cura di Daniela Dioguardi per i tipi di Castelvecchi Editore,2024) che si è tenuta a Palermo Giovedì 27 Giugno 2024 presso la libreria Feltrinelli
Questioni dirimenti come quelle della legge 54 del 2006 sull’affido condiviso, dell’utero in affitto, della gestazione per altri (GPA), del sex work,la prostituzione o sesso a pagamento, e del blocco della pubertà indotto tramite farmaco su minori che si percepiscono di sesso diverso da quello di nascita, non si possono liquidare facilmente né possono essere affrontate in modo semplicistico; richiedono una riflessione quanto più approfondita possibile e, soprattutto, quanto più partecipata possibile. La discussione e il dibattito su questi temi non può che fare bene alla nostra democrazia, che è già abbastanza azzoppata e claudicante di suo. Il libro intitolato Vietato a sinistra, curato da Daniela Dioguardi per i tipi della Castelvecchi (Roma 2024), ha il merito di fare riflettere su tali questioni, a dire il vero temi a cui non sempre si dà il giusto peso. È un libro che costringe a documentarsi e ad approfondire. In questo sta, probabilmente, il suo merito più importante.
E allora vado subito al dunque. Non conosco a sufficienza le differenti articolazioni che animano il dibattito tra le varie correnti femministe e le nuove soggettività del variegato arcipelago delle identità di genere e di orientamento sessuale riconducibile al mondo lbgtqia+. Il rischio è quello di prendere, per così dire, lucciole per lanterne. Tuttavia i problemi e i dissidi che animano tale dibattito mi pare possano essere ricondotti a questioni più generali che rimandano alla debolezza e alla frammentazione del mondo che, genericamente, si potrebbe definire della sinistra non liberal.Per quel po’ che può valere la mia opinione, faccio mia la considerazione contenuta nel libro secondo la quale c’è il rischio che in nome della libertà si possano sdoganare prostituzione, maternità surrogata, pornografia archiviando tra i reperti del patriarcato il dato reale e simbolico che i sessi sono due (p. 6).
- Details
- Hits: 1943
Lo schwerpunkt è nel Donbass
di Enrico Tomaselli
La rovina dell’Ucraina è stata affidarsi alla NATO, credendo fosse davvero l’invincibile potenza che millantava di essere. Certo, questo ha consentito l’arricchirsi della sua leadership, e la corruzione diffusa a ogni livello ha favorito non solo l’accumulo di grandi fortune ma anche una più capillare redistribuzione del reddito, ma in termini collettivi, nazionali, questa scelta di campo è stata esiziale. La devastazione economica, sociale, demografica, è talmente evidente che non vale neanche la pena discuterne. Meno evidente, invece, è l’effetto deleterio che ha avuto la subalternità militare, ovvero l’imposizione alle forze armate di Kiev di un modello strategico, operativo e tattico ritagliato su quello NATO, al quale non solo erano impreparate (e inadeguate), ma che è risultato pericolosamente sbagliato.
Lo si è detto già numerose volte, la dottrina militare statunitense – quindi quella occidentale in generale – è ancora fondata su alcuni pilastri concettuali che però non trovano più riscontro nella realtà. Il primo di questi pilastri, è l’idea della propria assoluta supremazia tecnologica, che dovrebbe assicurare di per sé un dominio indiscusso. Il secondo è, conseguentemente, la capacità di infliggere perdite decisive già nella prima fase di un conflitto. Il terzo, anch’esso conseguente, è la convinzione di poter conseguire la vittoria in tempi rapidi.
Questi tre assunti convergono a delineare un modello di conflitto caratterizzato dall’assoluta asimmetria; non a caso, del resto, la dottrina strategica statunitense è a sua volta fondata sul principio di impedire il sorgere di una potenza con capacità equivalenti.
- Details
- Hits: 1264
Trump, Le Pen, AFD: abbiamo finalmente un’alternativa?
di OttolinaTV
Oh! Finalmente quando ci saranno Trump, Le Pen e Alternative fur Deutschland, quegli ipocriti dei progressisti globalisti la finiranno di fare guerre e di seminare il terrore in giro per il mondo; l’imperialismo dei finti buonisti è finalmente sconfitto e il popolo e la democrazia stanno per trionfare! Ce l’avrete sicuramente anche voi quell’amico un po’ speciale che, da una parte, si dichiara anti-sistema e dice di essere per la democrazia e gli interessi classi popolari e, dall’altra, esulta per tutte le vittorie elettorali della peggiore destra identitaria solo perché almeno non hanno vinto i Biden, i Macron o gli Scholz di turno (che culo!) o che, addirittura, vagheggia di improbabili alleanze tra le destre suprematiste del pianeta e le forze socialiste in nome della comune lotta al capitalismo e alla globalizzazione. Ora, se fino a qualche anno fa allucinazioni di questo tipo erano quantomeno scusabili – data l’assoluta egemonia culturale del progressismo liberale che poteva davvero far pensare ad un nemico comune – oggi invece potrebbero dimostrarsi dei deliri estremamente pericolosi perché, come si sottolinea anche in un recentissimo studio dell’istituto di scienze sociali tedesco Tricontinental, una nuova forma di destra sembra prendere sempre più piede nella politica occidentale; una destra tanto diversa dalla destra liberale e finto conservatrice a cui ci eravamo abituati negli ultimi decenni, quanto dalla destra fascista del ‘900, con la quale pure sembrare mostrare qualche inquietante analogia. Una destra, insomma, in gran parte inedita, ben rappresentata da Trump e dai suoi imitatori europei che oggi fanno il pieno alle urne e che, contrariamente al wishful thinking di qualche compagno sui generis, non sembra avere nessuna intenzione di mettere in discussione i rapporti di forza oligarchici nelle nostre società, né di porre fine alla volontà di dominio dell’Occidente sul resto del mondo. Insomma: proprio nulla di anti-sistema; una destra, anzi, che agli occhi delle tanto detestate élite transnazionali potrebbe rivelarsi particolarmente funzionale alla nuova fase storica che stiamo vivendo, tanto che potrebbe essere capace di imporre, nei prossimi anni, una vera e propria nuova egemonia culturale.
- Details
- Hits: 1356
Capitalismo digitale e stagnazione economica
di Cédric Durand
I giganti della Silicon Valley rivendicano il loro ruolo di distruzione creatrice all'insegna della crescita economica. Ma la produzione digitale, sconfinata e immisurabile, sta rallentando il Pil e fermando l'economia
Se il «nuovo spirito del capitalismo» analizzato da Luc Boltanski ed Ève Chiapello dovesse essere identificato con un luogo, sarebbero gli edifici luminosi e moderni riservati ai creativi della Silicon Valley. La sede centrale di Google ci vende un sogno con le sue sessioni di yoga, i ristoranti gratuiti e le palestre aperte 24 ore su 24. Mostra il mondo innocente e aperto che l’azienda intende realizzare.
Questo tipo di spazio di lavoro è un’illustrazione magistrale della riorganizzazione delle soggettività avviata dall’«epitumogenesi neoliberista» identificata da Frédéric Lordon:
Il desiderio di trovare un impiego non dovrebbe più essere semplicemente un desiderio mediato per i beni che i salari consentono indirettamente di acquistare, ma un desiderio intrinseco per il bene stesso dell’attività… desideri di un lavoro felice o, per prendere in prestito direttamente dal suo stesso vocabolario, desideri di ‘realizzazione’ e ‘autorealizzazione’ nel e attraverso il lavoro.
Promettendo che lo «spirito innovativo della Silicon Valley è più forte che mai», Google propone «un ambiente in cui ogni individuo può condividere le proprie idee con i colleghi in qualsiasi momento e chiedere il loro contributo». E in effetti, «prendersi cura dei Googler» sembra un modo efficace per innescare l’innovazione. Lasciare ampio spazio ai cicli virtuosi e al libero gioco della complementarietà e della collaborazione incoraggia l’emergere di ciò che, per definizione, deve ancora essere scoperto.
Xavier Niel tenta di guidare questo stesso spirito di innovazione attraverso il divertimento negli uffici flessibili e nella zona relax di Station F, il suo campus di start-up a Parigi. La flessibilità che facilita il lavoro creativo sembra ricordare la rivolta antiautoritaria degli anni Sessanta e sarebbe certamente bello credere per un secondo che questo potrebbe essere davvero il nuovo volto del lavoro.
- Details
- Hits: 1492
Dalla negazione del trascendente all’umanità cibernetica e transumana
di Silvia Guerini
Oggi siamo innanzi a una guerra totale senza precedenti ai corpi, alla vita, alla natura, all’umanità. Una guerra su tutti i fronti con sviluppi tecno-scientifici che aprono scenari senza precedenti. Concetti cardine come libertà, verità, giustizia, etica, realtà si sgretolano, ovvero vengono stravolti per essere riformulati in un modo che va a negare il loro stesso senso.
Siamo innanzi alla metamorfosi dell’umano e della sua esistenza, in cui tutto muterà irreversibilmente e, con l’avvento del transumano, non rimarrà nemmeno traccia dell’umano.
Gli sviluppi tecno-scientifici si innestano molto più in profondità di quello che potremmo immaginare, le élite tecnocratiche e transumaniste, grazie alle varie soglie di volta in volta abbattute da questi sviluppi, mirano a trasformare radicalmente il modo di pensare, di interpretare il reale, di relazionarsi, mirano a trasformare anche il così detto sentire comune delle persone per creare una precisa forma mentis, una precisa mentalità che si generalizzerà e che si radicherà diventando quella che si penserà si sia avuta da sempre o, comunque, quella giusta, buona, migliore.
Si andrà a perdere l’aderenza alle cose, l’aderenza al mondo reale per una dissociazione dai propri corpi, dalla realtà, dalla natura. Si andrà a perdere quel percepire che qualcosa stride con le narrazioni emergenziali che vedremo susseguirsi una dopo l’altra. Si andrà a perdere l’autodifesa della propria salute, integrità, dignità, l’autodifesa del proprio corpo e dei propri cari. Quell’autodifesa a tratti magari un po’ confusa, senza adeguati strumenti per comprendere un piano più ampio, ma che è stata necessaria per le opposizioni ai sieri genici.
- Details
- Hits: 1224
Lucio Colletti: marxismo dell’alienazione contra marxismo dell’astrazione
di Roberto Finelli*
§1. Scienza contro dialettica
È all’indistinzione tra marxismo della alienazione-contraddizione e marxismo dell’astrazione che si lega a mio avviso la rapida parabola del marxismo filosofico in Italia nella seconda metà del ‘ 900.
Con tale denominazione s’intende infatti quel marxismo che, caratterizzato soprattutto dai nomi di G. della Volpe, L. Colletti, M. Rossi e N. Merker, ha provato nella seconda metà del Novecento, dopo l’impresa di Labriola alla fine del secolo precedente, a far valere il marxismo, non solo come teoria politica dell’emancipazione e della rivoluzione, ma, insieme e soprattutto, come scienza del presente storico e sociale, dotata di una sua autonoma e autosufficiente fondazione logica e teoretica. Ovvero propriamente quale scienza della storia, lontana dalle fumoserie e dai misticismi della dialettica, e omologa, quanto a metodo conoscitivo, a quello delle scienze esatte della natura. E valida in tal modo a proporsi come filosofia egemone del nostro tempo, in quanto capace di coprire sia il campo e la legittimazione del conoscere che il campo e la legittimazione dell’agire.
Secondo Della Volpe e i suoi allievi, Marx andava infatti letto come il Galileo delle scienze storiche, come uno scienziato cioè che aveva indagato solo la fattualità concreta ed empirica dell’esperienza sociale e che aveva elaborato, fin dal suo scritto giovanile del 1843 Per la critica della filosofia statuale hegeliana, una logica materialistica della conoscenza storica radicalmente critica della logica speculativa e astratta del sistema di Hegel1.
- Details
- Hits: 1263
Crisi strategica di Israele e crescente rischio di un conflitto regionale
di Roberto Iannuzzi
Il crollo del paradigma israeliano della deterrenza, la deriva etnonazionalista del paese, e il rischio di una nuova “Nakba” palestinese, spingono la regione mediorientale verso l’abisso
Lo sciopero generale è l’ultimo nemico, in ordine di tempo, del premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Il ritrovamento dei corpi di 6 ostaggi nei tunnel di Rafah che, secondo il governo, Hamas avrebbe ucciso all’approssimarsi dell’esercito israeliano, ha scatenato l’ira popolare contro il primo ministro e il suo esecutivo, accusati di aver troppo a lungo sabotato il negoziato per il rilascio degli ostaggi.
In quasi 300.000 sono scesi in piazza a Tel Aviv, dando vita alla più ampia manifestazione di protesta dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, mentre altre 200.000 persone sfilavano a livello nazionale.
Ma Netanyahu pare inarrestabile. Parlando ai giornalisti riuniti in conferenza stampa, ha ribadito che non intende abbandonare il Corridoio Philadelphia, l’esile striscia di terra lungo il confine con l’Egitto che né il Cairo né Hamas ritengono accettabile rimanga sotto il controllo israeliano nel caso di un cessate il fuoco.
Una simile decisione è stata criticata da Washington e dagli stessi vertici militari israeliani, i quali hanno confermato al loro premier di poter riacquistare il controllo del Corridoio in ogni momento qualora dovesse ricominciare il contrabbando di armi fra Egitto e Gaza (contrabbando peraltro negato sia dal Cairo che da Hamas).
La scelta di Netanyahu, di fatto, condanna al fallimento i negoziati per il raggiungimento di una tregua, allontanando a tempo indeterminato la prospettiva di una sospensione permanente delle ostilità.
Un perpetuo stato di contraddizione
Che le proteste di piazza possano portare a un ripensamento del premier al momento pare poco verosimile.
- Details
- Hits: 2094
Come i Neocons hanno scelto l’egemonia invece della pace a partire dai primi anni ’90
di Jeffrey D. Sachs
Nel 1989 sono stato consulente del primo governo post-comunista della Polonia e ho contribuito a elaborare una strategia di stabilizzazione finanziaria e di trasformazione economica. Le mie raccomandazioni del 1989 richiedevano un sostegno finanziario occidentale su larga scala per l’economia polacca, al fine di prevenire un’inflazione incontrollata, consentire una valuta polacca convertibile a un tasso di cambio stabile e un’apertura del commercio e degli investimenti con i Paesi della Comunità Europea (oggi Unione Europea). Queste raccomandazioni sono state ascoltate dal Governo degli Stati Uniti, dal G7 e dal Fondo Monetario Internazionale.
Sulla base dei miei consigli, è stato istituito un fondo di stabilizzazione da 1 miliardo di dollari in Zloty, che è servito da supporto alla nuova valuta convertibile della Polonia. Alla Polonia è stata concessa una sospensione del servizio del debito dell’era sovietica, e poi una cancellazione parziale di quel debito. Alla Polonia è stata concessa una significativa assistenza allo sviluppo sotto forma di sovvenzioni e prestiti da parte della comunità internazionale ufficiale.
Le successive prestazioni economiche e sociali della Polonia parlano da sole. Nonostante l’economia polacca abbia vissuto un decennio di crollo negli anni ’80, nei primi anni ’90 la Polonia ha iniziato un periodo di rapida crescita economica. La valuta è rimasta stabile e l’inflazione bassa. Nel 1990, il PIL pro capite della Polonia (misurato in termini di potere d’acquisto) era pari al 33% della vicina Germania. Nel 2024, aveva raggiunto il 68% del PIL pro capite della Germania, dopo decenni di rapida crescita economica.
Sulla base del successo economico della Polonia, nel 1990 sono stato contattato da Grigory Yavlinsky, consigliere economico del Presidente Mikhail Gorbaciov, per offrire una consulenza simile all’Unione Sovietica e, in particolare, per aiutare a mobilitare il sostegno finanziario per la stabilizzazione e la trasformazione economica dell’Unione Sovietica.
- Details
- Hits: 1683
Se si va con un ladro…
di Nico Maccentelli
… non ci si può poi stupire se non trovi più il portafoglio. L’intera operazione del Nouveau Front Populaire delle sinistre francesi alle scorse elezioni è stato un potente assist a Macron, che è il nemico principale per le classi subalterne poiché diretta espressione delle oligarchie imperialiste atlantiste.
Questo argomento l’avevo già affrontato qui.
Infatti, scrivevo riguardo:“… al Front Populaire costituitosi in Francia, è ben evidente che il cuore del progetto guerrafondaio della NATO resta tutto ed è quello che per il nemico di classe conta realmente, in mezzo alla fuffa che la guerra stessa e la sua economia farà sparire come neve al sole. Questa è la tonnara di cui parlavo all’inizio. Una tonnara politica dove, spiace dirlo, gli attori finali sono degli utili idioti.”
A questo punto, sarebbe interessante sapere che ne pensa la base sociale che ha votato per il FP, i lavoratori, la gente delle banlieu, le componenti sociali scese in piazza contro Macron e le sue politiche, dagli aumenti del gasolio alle pensioni. Cosa ne pensa chi avrebbe vinto, riguardo la parte finale del copione macroniano: ossia del blocco anticostituzionale messo in atto contro il partito maggioritario della coalizione elettorale vincente? Questa base, composta da milioni di francesi, sarebbe stupita di questo?
In realtà tutto è andato secondo i piani dell’oligarchia imperialista espressa dal governo precedente, che poi è quello attuale degli”affari correnti”, e quindi nulla di cui stupirsi, come mostra di esserlo invece il Marrucci nel suo pippone su Ottolina tv. La scoperta dell’acqua calda. Pippone che tuttavia merita comunque di essere visto poiché fa una cronistoria puntale di tutta la vicenda francese del dopo elezioni europee e, per chi volesse saperne di più, rimando a questo contributo.
- Details
- Hits: 1087
Un terremoto politico nella Germania (e nell’UE) in crisi
di Il Pungolo Rosso
Le elezioni di domenica in Turingia e Sassonia, per quanto abbiano coinvolto meno del 10% della popolazione totale della Germania, sono state senza dubbio una scossa tellurica nella politica tedesca e, di conseguenza, europea.
L’affermazione prepotente dell’AfD nella destra e quella della BSW, l’Alleanza Sahra Wagenknecht, nella (per così dire) sinistra indicano, dopo le europee, una chiara linea di tendenza, probabilmente non di breve periodo.
Sulla stampa italiana assatanata di russofobìa, la chiave di lettura dominante è quella della vittoria dei filo-russi o filo-putiniani. Certo, dopo la batosta elettorale subita dal bellicista Macron, questa seconda legnata sulla testa di una coalizione come quella di Berlino sempre più allineata agli ordini dei comandi NATO, riempie Putin e i suoi di soddisfazione. Veder precipitare nel baratro dopo la Truss e Sunak, anche la belva verde Baerbock e l’ameba Scholz, pronto a firmare ogni fornitura di armi a Kiev fino all’istante prima rifiutata… li si può capire. Per noi le cose, però, stanno diversamente. E sebbene il fattore guerra in Ucraina sia stato di grande peso negli esiti delle ultime elezioni, bisogna scavare più a fondo: guardare ai cambiamenti in atto da tempo, da molto prima del febbraio 2022 (che li ha solo accelerati), nella divisione internazionale del lavoro e all’acutizzazione della concorrenza internazionale che hanno penalizzato tanto la Germania quanto l’UE provocando in tutti i paesi europei, i più ricchi inclusi, un crescente malessere sociale.
Da almeno cinque anni la Germania ha cessato di essere il traino dell’economia europea ed è entrata in stagnazione. È venuto al pettine un triplo nodo su cui ora l’economia tedesca è incagliata, con inevitabili riflessi sulla vita sociale e politica del paese: il boom post-unificazione fondato sul lavoro e le materie prime a basso costo, l’ossessione del pareggio di bilancio, il rapporto con gli Stati Uniti.
- Details
- Hits: 1443
Ripoliticizzare l'economia
Alcune riflessioni su un libro di Clara E. Mattei
di Francesco Tucci
Francesco Tucci riflette su L’economia è politica (Fuori scena, 2023), testo di Clara E. Mattei che si pone il fine, attraverso un’analisi radicale del sistema economico contemporaneo, di ripoliticizzare il modo in cui guardiamo alle relazioni economiche, mettendo a critica il metodo di studio degli economisti mainstream, spiegando come la depoliticizzazione sia stata funzionale sul piano ideologico al mantenimento dell’ordine contemporaneo, discutendo l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia.
* * * *
In conclusione alla sezione introduttiva del proprio volume, Clara Mattei dichiara esplicitamente quali siano gli obiettivi intellettuali ma soprattutto politici del proprio scrivere:
Voglio invece chiarire quali sono i meccanismi oppressivi e quali i nemici da combattere. Scrivo queste pagine esplicitamente militanti in opposizione alla tipica maniera distaccata degli economisti. Ciò non significa rinunciare al rigore scientifico nell’indagine. Al contrario, vuol dire rivendicare l’inestricabile posizionamento sociale dell’intellettuale, che non può che essere situato nel mondo e, come ricordava Gramsci, organico alla lotta di classe (Mattei, 2023, pag. 30).
In questo breve passaggio troviamo tutti i temi che animano L’economia è politica, uscito nel novembre 2023 per Fuori Scena. Clara E. Mattei è professoressa associata al Dipartimento di Economia della New School for Social Research, e la sua ricerca nel corso degli anni si è concentrata in particolare sulla relazione tra la filosofia del pensiero economico e le ideologie politiche. Tra i temi sollevati, a mio avviso ne emerge soprattutto uno, che rappresenta indubbiamente la spina dorsale del libro. L’economia è politica è infatti un volume che attraverso un’analisi radicale del sistema economico contemporaneo si pone il fine di ripoliticizzare il modo in cui guardiamo alle relazioni economiche, le percepiamo e ne discutiamo all’interno della società.
- Details
- Hits: 1479
La visita di Meloni a Pechino e il senso delle relazioni Italia-Cina
di Alberto Bradanini
1. Sebbene sia trascorso appena un mese, che nel vortice di un mondo in ebollizione sembra un secolo, resta d’interesse gettare uno sguardo sul viaggio in Cina, a fine luglio, della Presidente del Consiglio. A Pechino, Giorgia Meloni è stata ricevuta con ogni decoro, alla luce della tradizionale ospitalità cinese, ma anche degli interessi che la Cina mira a tutelare nel suo rapporto con l’Italia, membro formale del G7 e una delle prime otto/nove economie al mondo. Qualche settimana prima si era recato a Pechino anche il Ministro delle Imprese e del Made in Italy, A. Urso, mentre il capo di Stato S. Mattarella concluderà in autunno un’insolita triade di viaggi istituzionali italiani in Cina.
Per comprendere il senso di tali interlocuzioni, in particolare la visita di G. Meloni, di cui questo scritto si occupa, è necessario scendere sotto la superficie per catturare quel prisma di sottintesi/malintesi solitamente rimosso per pigrizia, convenienza o pavidità. Un esercizio questo che offre altresì l’occasione per toccare altri aspetti di natura internazionale, scollegati dalla visita, ma utili alla riflessione.
A Pechino, G. Meloni ha incontrato i vertici della Repubblica Popolare, il presidente Xi Jinping, il primo ministro Li Qiang, il presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, Zhao Leji, tutti consapevoli, ça va sans dire, che i due paesi hanno un peso economico e politico ben distinto, oltre ad appartenere a diversi sistemi di alleanze.
Deve rilevarsi che le intese raggiunte non hanno per i due paesi una valenza di impegni formali. L’Italia, infatti, quale membro della gabbia europea, non può sottoscrivere accordi bilaterali veri e propri, una competenza questa che spetta solo alla Commissione Ue, sul cui sostegno l’Italia non ha mai potuto contare.
- Details
- Hits: 1723
Crescere
di Goffredo Fofi
Goffredo Fofi ci ha mandato queste riflessioni inquiete. Le pubblichiamo perché ci esortano provocatoriamente ad aprire un dibattito su di noi, senza nessuna pretesa di interpretare un evento terribile né di dire una verità su una giovane vita o la tragicità del crescere. (Gli asini)
“L’estate sta finendo / e un anno se ne va/ Sto diventando grande / lo sai che non mi va” diceva una canzone balneare di molti anni fa, parlando per voce di un ragazzino.
Ma “l’estate” è già passata, e siamo da tempo all’inverno – l’inverno del pianeta o, con maggiore certezza – del genere umano, e di questo sembrerebbe che si rendano conto, con palese o segreta immediatezza, piuttosto i giovani, gli adolescenti, che non gli adulti. I quali non cessano di pontificare, per bocca di filosofi e psicologi e teologi e quant’altro, sul disagio dei più giovani, pronti a sparare le loro miserabili cartucce a ogni, ricorrente e spaventante, fatto di cronaca che questo disagio dimostra in modi sanguinosi e quasi sempre dall’interno dell’istituzione fondante e centrale della società in cui viviamo, la famiglia.
La “sacra famiglia”, dissacrata vertiginosamente dalla società dei consumi e da altre “virtù” repubblicane che, tutte, hanno al loro centro – anche quando dicono il contrario – il Dio Denaro. L’orrore suscitato da certi fatti di cronaca come quello che ha sconvolto poco tempo fa (ma davvero in profondità?) una cittadina lombarda che chi scrive ha conosciuto durante gli anni delle ultime lotte operaie viene facilmente rimosso dalle spiegazioni e dai consigli degli esperti, primi fra tutti giornalisti-teologi e soprattutto i giornalisti-psicologi.
Sì, chi mai studierà quanto male hanno fatto e continuano a fare gli psicologi con le loro spiegazioni facili-facili e i loro ipocriti consigli alle famiglie e agli insegnanti? Con la loro super-presenza di guru che, beati loro, sanno tutto di come funziona la psiche umana e di conseguenza la società?
Ricordo con disagio la grande voga, e le grandi speranze suscitate nel declino del movimento del ‘68 dalla corsa di tanti giovani ex-militanti alla facoltà di psicologia di Padova – speculare a quella di altre corse, certo meno dannose, alla facoltà di sociologia di Trento.
- Details
- Hits: 1765
Effetti culturali dell’economia neoliberista III
di Luca Benedini
(terza parte: un atteggiamento egocentrico di fondo che si sta rivelando sempre più distruttivo sul piano ambientale ed umano e – grazie anche all’insipienza diffusasi durante il ’900 nella cosiddetta sinistra – un “sistema di potere” particolarmente efficace)*
La scarsa attenzione neoliberista per la salvaguardia dell’ambiente, della salute pubblica, della natura
Un’altra emblematica tendenza sociale attuale è il disinteresse di fondo con cui i neoliberisti trattano sia la prevenzione delle malattie, degli squilibri climatici e dei dissesti idrogeologici, sia la tutela della biodiversità e di una ben sviluppata fertilità della terra, un disinteresse che è nel contempo una sorta di “educazione delle masse” a dare anch’esse poca importanza a tutte queste cose: sarebbe pericoloso se le classi popolari pensassero che la loro salute è importante, più importante dei profitti delle grandi aziende industriali, commerciali, ecc., e se pensassero che anziché ridurre il più possibile le tasse ai ricchi e lasciare in tal modo al lumicino le finanze pubbliche – pur preservando comunque una certa tendenza della pubblica amministrazione (P.A.) al clientelismo e alla corruzione, tendenza che ai ricchi fa molto comodo... – bisognerebbe investire con diffusa attenzione e con oculatezza consistenti quantità di soldi pubblici per tutelare il clima planetario, l’assetto naturale di colline, monti, fiumi, mari e coste, la qualità intrinseca di terreni e acque, le specie viventi, la presenza diffusa di macchie di alberi e altri aspetti cruciali dell’ambiente e del paesaggio (investimenti che, per di più, in questo tipo di progettualità andrebbero fatti possibilmente prima che dagli squilibri di questi fattori derivino drammatiche devastazioni degli ecosistemi e della vita di questa o quella comunità locale)...
La tipica tendenza del pensiero neoliberista nei confronti delle problematiche ambientali, climatiche, sanitarie, sociali, ecc. è: “Lasciamo che esplodano, così potremo guadagnarci sopra in un modo o nell’altro...
- Details
- Hits: 2098
La moneta bancaria è la causa principale delle crisi del debito e delle crisi finanziarie
di Enrico Grazzini
Esistono tre tipi fondamentali di moneta: la moneta bancaria, creata dalle banche commerciali; le monete metalliche e le banconote, moneta legale; e la moneta riserva delle banche commerciali utilizzata per i pagamenti interbancari [1]. La banca centrale crea moneta dal nulla (moneta fiat) moneta di riserva solo ed esclusivamente per le banche commerciali e queste ultime creano moneta dal nulla (moneta bancaria) solo ed esclusivamente per l’economia reale e finanziaria, ovvero per le imprese, gli individui e gli enti pubblici -. I due circuiti – quello di banca centrale e quello delle banche commerciali – sono separati ma collegati [2].
Solo le banche commerciali hanno il privilegio di avere un conto corrente presso la banca centrale e di ottenere moneta legale di prima emissione: il pubblico – cittadini/e, imprese, enti pubblici – non ha accesso diretto alla moneta di banca centrale e alla moneta legale (moneta sicura perché coperta dallo Stato).
Circa l’80-90% della moneta che circola nell’economia reale è moneta bancaria. Il resto sono (oltre che le monete spicciole per le piccole spese) banconote emesse dalla banca centrale: tuttavia per avere le banconote di moneta centrale occorre avere prima un conto bancario. Infatti la banca centrale non emette banconote direttamente per il pubblico. Quindi tutte le monete che circolano nell’economia reale e nell’economia finanziaria hanno in qualche modo origine solo ed esclusivamente nel sistema bancario.
La banca commerciale crea moneta bancaria dal nulla quando concede un credito: la moneta creata dalla banca è moneta scritturale, ovvero la banca segna all’attivo il credito che il creditore dovrà restituire con l’interesse e segna al passivo il deposito bancario creato per il cliente [3].
- Details
- Hits: 1615
Persistenze e metamorfosi della questione ebraica
Una rilettura di Abraham Léon
di Il Lato Cattivo
«Ma in realtà la vita ci mostra a ogni passo, nella natura e nella società,
che vestigia del passato sopravvivono nel presente».
(Lenin, Stato e rivoluzione)
La presente nota mira a presentare e attualizzare il contenuto dell'opera di Abraham Léon, La concezione materialistica della questione ebraica (scritta nel 1942, pubblicata postuma nel 1946, e meglio nota in Italia con il titolo: Il marxismo e la questione ebraica1), in un'ottica non slegata dalla congiuntura internazionale attuale e, più specificatamente, dai rivolgimenti che hanno caratterizzato il contesto mediorientale dopo il 7 ottobre 2023. L'interrogativo soggiacente a cui ci si propone non già di rispondere, ma di fornire un impianto concettuale, concerne nientemeno che la perennità dello Stato di Israele. Con gli occhi incollati alle immagini dei massacri e delle vessazioni inflitte ai palestinesi, rischiamo di non vedere il dispiegarsi di macro-processi al tempo stesso più sotterranei e più potenti. Il contrattacco iraniano della notte fra il 13 e il 14 aprile 2024 in risposta al bombardamento del consolato d'Iran a Damasco, non è che il più eclatante, e senz'altro non l'ultimo, di una serie di episodi recenti che stanno via via svelando le numerose fragilità di Israele – fragilità che non sfuggono ai commentatori delle più varie estrazioni, israeliani compresi. Alcuni titoli apparsi recentemente, provenienti da voci anche eminenti, sono perlomeno sintomatici in questo senso: Israel is losing this war2; Israel's Self-Destruction3; The Collapse of Zionism4; Hamas is winning5. Nonostante la loro diversità, queste analisi trovano un terreno d'incontro nel constatare che la supremazia su cui Israele può far leva, sia in termini di alleanze internazionali che di autonoma force de frappe, non basta a dissolvere il grande punto interrogativo che ha cominciato ad aleggiare sul suo futuro.
Page 67 of 612
Gli articoli più letti degli ultimi tre mesi
Carlo Di Mascio: Diritto penale, carcere e marxismo. Ventuno tesi provvisorie
Carlo Lucchesi: Avete capito dove ci stanno portando?
Carlo Rovelli: Una rapina chiamata libertà
Agata Iacono: Cosa spaventa veramente del rapporto di Francesca Albanese
Barbara Spinelli: La “diplomafia” di Trump: i dazi
Domenico Moro: La prospettiva di default del debito USA e l'imperialismo valutario
Sergio Fontegher Bologna: L’assedio alle scuole, ai nostri cervelli
Giorgio Lonardi: Il Mainstream e l’omeopatia dell’orrore
Il Pungolo Rosso: Una notevole dichiarazione delle Brigate Al-Qassam
comidad: Sono gli israeliani a spiegarci come manipolano Trump
Leo Essen: Provaci ancora, Stalin!
Alessio Mannino: Contro la “comunità gentile” di Serra: not war, but social war
Sonia Savioli: Cos’è rimasto di umano?
L'eterno "Drang nach Osten" europeo
Gianni Giovannelli: La NATO in guerra
BankTrack - PAX - Profundo: Obbligazioni di guerra a sostegno di Israele
Alessandro Volpi: Come i dazi di Trump mettono a rischio l’Unione europea
Marco Savelli: Padroni del mondo e servitù volontaria
Fulvio Grimaldi: Siria, gli avvoltoi si scannano sui bocconi
Enrico Tomaselli: Sulla situazione in Medio Oriente
Mario Colonna: Il popolo ucraino batte un colpo. Migliaia in piazza contro Zelensky
Gianandrea Gaiani: Il Piano Marshall si fa a guerra finita
Medea Benjamin: Fermiamo il distopico piano “migliorato” di Israele per i campi di concentramento
Gioacchino Toni: Dell’intelligenza artificiale generativa e del mondo in cui si vuole vivere
Fulvio Grimaldi: Ebrei, sionismo, Israele, antisemitismo… Caro Travaglio
Elena Basile: Maschere e simulacri: la politica al suo grado zero
Emiliano Brancaccio: Il neo imperialismo dell’Unione creditrice
Fabrizio Poggi: Abituare gli italiani alla guerra
Gli articoli più letti dell'ultimo anno
Carlo Di Mascio: Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
Emmanuel Todd: «Non sono filorusso, ma se l’Ucraina perde la guerra a vincere è l’Europa»
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
Riccardo Paccosi: La sconfitta dell'Occidente di Emmanuel Todd
Andrea Zhok: La violenza nella società contemporanea
Carlo Di Mascio: Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
Salvatore Bravo: "Sul compagno Stalin"
Andrea Zhok: "Amiamo la Guerra"
Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
Eric Gobetti: La storia calpestata, dalle Foibe in poi
S.C.: Adulti nella stanza. Il vero volto dell’Europa
Yanis Varofakis: Il piano economico generale di Donald Trump
Andrea Zhok: "Io non so come fate a dormire..."
Fabrizio Marchi: Gaza. L’oscena ipocrisia del PD
Massimiliano Ay: Smascherare i sionisti che iniziano a sventolare le bandiere palestinesi!
Guido Salerno Aletta: Italia a marcia indietro
Elena Basile: Nuova lettera a Liliana Segre
Alessandro Mariani: Quorum referendario: e se….?
Michelangelo Severgnini: Le nozze tra Meloni ed Erdogan che non piacciono a (quasi) nessuno
Michelangelo Severgnini: La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto