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Il lavoro e la politica

Francesco Ciafaloni

operai 000Mi riconosco nella ricostruzione di Mario Miegge (“Inchiesta”, n.174) del lavoro politico negli anni ‘50-’70, dalle analisi e proposte di Pino Ferraris, Vittorio Rieser, Vittorio Foa, dei “Quaderni Rossi”, all’intervento pratico dal basso, al lavoro di indagine, di elaborazione, di formazione, per il controllo sull’organizzazione del lavoro e sull’ambiente di lavoro di Ivar Oddone e della Flm, alla Fiat e in tutta Italia. Se qualcuno si meraviglia del peso che continuano ad avere i rappresentanti dei metalmeccanici, malgrado la crisi, la cassa integrazione, il rischio di chiusura degli stabilimenti, di perdita del lavoro, dovrebbe ricordare che gran parte dello Stato sociale che consente a noi tutti di vivere con un po’ di sicurezza e dignità viene da loro e dagli altri operai italiani che si sono mossi con loro. Il controllo della salute nelle fabbriche, il Sistema sanitario nazionale, deteriorato dalla corruzione e dalla tendenza a privatizzare, ma sempre uno dei più universalistici e meno costosi del mondo, il sistema pensionistico universalistico, vengono di lì, dalle lotte degli anni ’60 e ’70, dall’unità sindacale, dalla collaborazione tra medici, epidemiologi, sociologi ed operai, a Torino, Milano, Porto Marghera, Emilia. Il primo sciopero in grande, alla Fiat, nella primavera del ’68, fu per le pensioni. Il Sistema sanitario nazionale è stato pagato, all’inizio, dai soli lavoratori dipendenti, ma esteso a tutti. Tutti ricordano le baby pensioni dei pubblici dipendenti; pochi il carico sopportato dai lavoratori dipendenti privati. L’ambiente culturale di quegli anni fu il prodotto della collaborazione, del lavoro sul campo, di operai (Marchetto, Surdo, Mara, e migliaia di altri), medici (Tomatis, Maccacaro, Oddone), epidemiologi (Terracini), giuristi (Giugni), per nominare solo quelli emblematici. Può darsi che i meccanici più giovani di queste cose non ricordino nulla e che reagiscano come possono alle minacce e ai licenziamenti, ma la Fiom (il suo gruppo dirigente) lo ricorda; e non è disposta ad arrendersi a discrezione.


 
Il lavoro politico e il contesto

Molto è cambiato, in Italia e nel Mondo, dalla fine degli anni ’70. Negli Stati Uniti, in Europa, ed anche in Italia (che pure resta, con la Germania, del cui indotto fa parte, un paese manifatturiero), il numero degli operai in senso stretto diminuisce, e così il peso delle grandi aziende; il lavoro manifatturiero viene delocalizzato. Anche negli anni ’70 il capitale finanziario esisteva e contava, ma negli ultimi trent’anni ha stravinto, culturalmente e praticamente. Ha talmente stravinto che rischia di suicidarsi, di crisi in crisi, e di travolgere noi tutti. Il contesto politico è sconvolto, corrotto, bloccato dal tenace attaccamento al potere dalla consociazione dei notabili, malgrado il ruolo svolto dal Presidente della Repubblica e il nuovo Governo, di destra, ma migliore del precedente.

Quaranta anni fa il contesto era tutt’altro che ideale. Non dimentichiamo la strage di Stato, la violenza, il terrorismo. Ma il lavoro nelle fabbriche, su temi specifici, come l’organizzazione del lavoro o la nocività, poteva appoggiarsi a sindacati e partiti che svolgevano ancora la loro funzione. Si poteva essere in disaccordo, si poteva polemizzare, organizzarsi, fondare partiti nuovi, ma una struttura di riferimento esisteva. La funzione di canalizzare la domanda politica non era affidata ai movimenti di protesta, o a piccoli gruppi. Se l’analisi dei fattori nocivi, l’iniziativa dai reparti, fosse stata affidata solo ai contatti diretti tra consigli non saremmo andati lontano. Le grandi organizzazioni sindacali, generali e di categoria, unitarie e non, inclusero i risultati e il metodo dei gruppi più attivi nella loro formazione e nelle loro piattaforme. Non credo che twitter o la rete stiano svolgendo o possano svolgere in futuro un ruolo analogo.

Inoltre, come giustamente sostiene Pino Ferraris, citato da Miegge, il tramonto della grande fabbrica rende molto più difficile la compresenza degli operai, la uguaglianza delle condizioni e la percezione dell’uguaglianza. Si moltiplicano le aziende e i contratti. C’è più lavoro politico da fare e meno possibilità di farlo. Cambiano i settori di attività; bisogna inventare forme nuove. Per rendere realistiche e dettagliate le proposte, che sono state tentate anche negli ultimi venti anni, dopo la fine del primo impatto della deindustrializzazione, bisogna richiamare alla memoria le cadute e le sconfitte, più gravi di recente, da cui in ogni caso bisogna partire.

 
Memorie di un declino

Alcuni protagonisti di quarant’anni fa sono ancora attivi; le idee, i principi, hanno retto: i processi alla Eternit, alla Krupp, per i reati commessi dai dirigenti nel proseguire consapevolmente la produzione di sostanze omicide, o nel mantenere reparti in condizioni di estremo, prevedibile rischio, si sono conclusi con condanne. Ma anche questa, che è stata in certi anni la più importante, la più efficace, delle lotte basate su un lavoro politico, non è ora sostenuta da una attività sociale di massa, non si regge più sul lavoro politico diffuso. L’impegno di alcuni medici, dei parenti delle vittime, è rimasto; gli epidemiologi hanno mantenuto aggiornati gli archivi, senza i quali non si va da nessuna parte; i procuratori hanno usato i dati; i giudici hanno applicato la legge con rigore. Ma, in diversa maniera, ambedue i casi citati, per il suo isolamento il primo, per il modo dell’incidente il secondo, segnalano anche una grave sconfitta, sindacale e politica: di sistema nel caso Eternit; specifico nel caso Krupp.

L’isolamento del caso Eternit è evidente. Non saremmo arrivati mai al processo, alle prove, alla condanna, senza la consapevolezza diffusa della pericolosità dell’amianto, in base alla esperienza diretta di una intera città colpita e a una sterminata letteratura mondiale. Non ci saremmo arrivati senza la mobilitazione, che prosegue da decenni, delle vittime e delle organizzazioni sindacali. Né ci saremmo arrivati senza l’uso giudiziario delle prove statistiche, che fa parte della migliore tradizione liberale americana – le usava Louis Brandeis, da giudice della Corte suprema, negli anni ’30 – ma anche della nostra, dagli anni ’70 in poi. Ma non c’è più l’attenzione generale a tutti i casi di inquinamento e avvelenamento collettivo. Le discariche abusive hanno avvelenato intere regioni; piccoli impianti chimici continuano ad esplodere; grandi città sforano per mesi interi, ben oltre i limiti europei, le soglie di inquinamento per polveri sottili, e l’attenzione politica è praticamente nulla. Ci sono le bandiere dei No-Tav, ma riguardano una sola opera emblematica. Opere analoghe si fanno senza adeguati studi. Siamo ben lontani da una inversione della deriva culturale. A Taranto ci sono operai che manifestano per il siderurgico, che avvelena loro e i loro figli, ma gli dà da vivere. Comprensibile, forse, ma atroce. Dietro ci sono decenni di vuoto nella attività sindacale di fabbrica.

Peggiore, e più sgradevole da dire, è il caso Krupp. In fabbrica decidono i padroni. Le responsabilità sono loro. Ma in una fabbrica in crisi sindacalisti e padroni si vedono tutti i giorni. Trattano di tutto. Non mi risulta che ci fosse un contenzioso per la mancata formazione contro gli infortuni degli operai dei laminatoi di Corso Regina; che ci fosse una ferma opposizione alla continuazione dell’attività senza manutenzioni adeguate. Gli incendi erano frequenti; il rischio evidente – così evidente che c’è sta una condanna per dolo eventuale; gli estintori erano scarichi; i condotti oleodinamici esposti al fuoco. Perché non è stato fatto uno sciopero ad oltranza? Lo sapevano i delegati che il rischio c’era? Se non lo sapevano, non saranno stati anche loro a corto di formazione? Abbiamo sentito, e condiviso, l’angoscia dei vecchi che avevano percepito il pericolo, che sono andati in pensione giusto in tempo. Ma è stato fatto tutto il possibile, anche a rischio di chiudere prima, che è meglio che morire?

A me capita di essere coetaneo, compagno di corso, dei giovani ingegneri che hanno avviato Taranto – il siderurgico s’intende – mezzo secolo fa, diretti da alcuni tecnici anziani, che venivano da Terni. Ci fu, all’inizio, un pauroso incendio dovuto alla mancata comunicazione tra aziende costruttrici. Chi aveva progettato il percorso delle siviere, dai convertitori alle lingottiere, non aveva parlato con quelli che avevano progettato i condotti oleodinamici. Le siviere passavano sopra i condotti, nascosti sotto il pavimento – e non dovrebbero. Qualcuno, inesperto, manovrò bruscamente i comandi; una siviera rovesciò qualche quintale di acciaio liquido sulle condotte; l’olio esplose – a quella temperatura si comporta come la dinamite, diceva un mio vecchio amico; scoppiò un incendio devastante. I vecchi, ingegneri ed operai, trasferiti da Cornigliano, esperti e solidali, si precipitarono a fare il possibile; impiegarono molto tempo, forse un giorno o più, a venire a capo del fuoco. Alcuni dei nuovi si misero a giocare a carte, perché tanto l’impianto era fermo; e non era mica roba loro. E poi nessuno aveva spiegato loro cosa si fa in caso di incidente. Il mio amico era indignato con loro, che all’inizio rifiutavano di partecipare allo spegnimento. Avrà avuto anche lui la sua parte di responsabilità? Certo c’era stata una mancanza di lavoro politico, in quella occasione e nella lunga serie di incidenti mortali, soprattutto di dipendenti di aziende appaltatrici, che si sono susseguiti nei decenni.

Nei grandi impianti la sicurezza si basa, in ultima analisi, sull’aiuto reciproco degli operai, che sanno tutto di quei forni lì, di quelle condotte lì, che ricordano i feriti e i morti, che sono nati con l’impianto e invecchiano con esso, che magari hanno fatto lo stesso istituto tecnico o professionale, che si cercano a vicenda prima di avviare un frantoio o di chiudere un portello, che non si fidano delle sicurezze automatiche – se c’è un infortunio vuol dire che hanno funzionato una volta meno del necessario.

Difficilmente la competenza e la solidarietà si trasmettono da sole quando c’è un cambio di generazione. Bisognerebbe continuare il lavoro politico, riconquistare sempre tutto, da capo. Questo non è avvenuto nemmeno a Torino, nemmeno alla Fiat. Persino alcune delle figure emblematiche erano state anestetizzate dalla routine; e non sono state sostituite. I responsabili conoscevano il numero degli operai che si percepivano a rischio; ma qualche volta non sapevano che si era verificato un incidente mortale. L’unico informato in tempo reale era il procuratore Guariniello. Forse anche nelle fabbriche, non solo in politica, il controllo di legalità è stato affidato alla magistratura.

Non parliamo poi di lavoro politico nell’edilizia, dove il subappalto regna sovrano, la dimensione aziendale media è poco sopra i due dipendenti, non si sa neppure il numero e il nome delle aziende subappaltatrici, figuriamoci dei dipendenti e dei lavoratori con partita Iva. La grande azienda si è frantumata, le aziende piccole e medie si sono moltiplicate, ma abbiamo continuato a ragionare come se tutto dipendesse da Mirafiori. Se vinciamo a Mirafiori il resto seguirà. Ed ora che Mirafiori non c’è più?

 
I servizi, il terzo settore, i giovani

Nel terzo settore, in alcuni servizi, è rimasto forte l’impegno politico ed è stata alta la presenza dei giovani. Si può dire che in quest’area di confine tra volontariato e lavoro, nel settore in cui i posti di lavoro sono cresciuti e non diminuiti, almeno fino agli ultimi anni, sono state tentate le vie che Miegge propone. Si lavora nelle cooperative sociali, nelle associazioni, nelle Onlus, nei progetti finanziati dagli Enti locali, dalle fondazioni, dai Centri di servizio per il volontariato perché si è motivati, si proviene dal volontariato puro e semplice, si condividono i fini di ciò che si fa. Non si lavora per vivere, per guadagnare il necessario, o più del necessario, per far carriera. Si lavora per raggiungere uno scopo non puramente individuale.

Però il contesto istituzionale in cui la crescita dei servizi e del terzo settore si è realizzata in Italia, dall’inizio degli anni ’90, ha di fatto trasformato rapidamente il volontariato in una succursale precaria e mal pagata del pubblico impiego. I contratti a collaborazione, a progetto, a chiamata, ecc., introdotti con la legge Biagi e circonvicine, hanno reso possibile ad associazioni motivate ed efficaci, ma non capitalizzate, senza un consolidato rapporto con un definito ambiente in grado di sostenerle, che mai avrebbero potuto assumere un dipendente, di pagare ad ore lavoratori precari, con soldi pubblici o degli Enti locali, o dello Stato, o dell’Unione europea, o delle Fondazioni bancarie, create per realizzare la via italiana alla privatizzazione del credito. E d’altra parte gli Enti pubblici, con gli stipendi bloccati, criticati per l’inefficienza e l’indisciplina dei dipendenti, con il divieto di assumere, travolti dalla convinzione universale che il privato è sempre meglio del pubblico, hanno scelto la strada di promuovere tutti o quasi i propri dipendenti a controllori di un lavoro svolto da precari, a progetto, o con contratti di collaborazione. Lo Stato, in tutte le sue articolazioni, è diventato la massima fonte di precariato. Qualche volta la motivazione dei volontari è rimasta; qualche volta è stata sostituita dalla necessità di avere un reddito; spesso il passaggio all’assunzione diretta è stata limitata agli esponenti dei partiti, grandi e piccoli, pro quota. In Italia non ci sono mecenati privati; e non c’è l’abitudine di tassarsi per raggiungere un fine, di contribuire economicamente per realizzare ciò che non si può fare col volontariato. Tipicamente sono rimasti volontari i molto giovani e i pensionati, che sono la parte più qualificata del lavoro di molte associazioni. Chi si avvicina ai trent’anni deve per forza farsi pagare almeno un poco, a qualsiasi condizione. L’innalzamento dell’età di pensionamento rischia di cancellare molte associazioni, perché a 66 anni anche i più entusiasti devono riposarsi di più.

C’è stato un eccesso di dipendenza dai progetti a breve degli assessorati, che non si spingono oltre l’anno nella maggior parte dei casi, e che non consentono le attività senza risultati misurabili a breve, non presentabili in un convegno finale, il quale assorbe una parte sconsiderata delle risorse. Si è promosso e sensibilizzato troppo, e si è fatto troppo poco. Si potrebbe dire che c’è stato un eccesso di parole, e di politica delle parole, e una carenza di realizzazioni utili: formazione al lavoro, assistenza diretta, ospitalità diretta, servizi insomma, in senso proprio.

Naturalmente si sono fatte cose ottime, ma spesso nelle sedi rimaste direttamente pubbliche e in quelle confessionali, che hanno una propria, limitata ma autonoma, capacità finanziaria. Le associazioni hanno seguito più i bandi di finanziamento che le necessità sociali nello scrivere i progetti. Le iniziative veramente innovative – per esempio l’Intesa per la protezione dei minori stranieri in Provincia di Torino – sono venute prima del boom del terzo settore, e sono state fondate su iniziative di tribunali, associazioni religiose, associazioni laiche, Enti locali (articolazioni dello Stato e società civile) non su lavoro retribuito promosso e connesso dal lavoro politico.

 
Qualche premessa indispensabile per il lavoro futuro


Non si tratta di ricette. Non sempre ciò che fa dolore fa anche “al dolor finestra”; non sempre la necessità induce ad attrezzarsi; non sempre i problemi hanno soluzione. Mi limito a fare qualche esempio delle risorse mancanti perché il lavoro politico possa riprendere, di cose che mancano e che mi sembrano indispensabili.

L’Italia ha un tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa, 56,9%, maggiore solo di quello dell’Ungheria, 55,4%. Ha anche un numero di ore lavorate da ciascun occupato tra i più alti d’Europa, 1778 ore (Ocse, Annual hours worked per worker. Employment rates, tabelle reperibili in rete). I paesi dell’Europa settentrionale hanno invece tassi di occupazione molto più alti, fino al 75,4% della Norvegia, a fronte di un numero molto più basso di ore lavorate: 1377 in Olanda, 1414 in Norvegia. Il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”, anche nostro, non è, dunque, una follia. Altrove ha funzionato; perché non ha funzionato qui?

E’ possibile, anche se non lo si può dire con la sicurezza di una tabella, che la successione temporale e causale reale sia opposta: “lavorare tutti, lavorare meno”. O che debba esserci contemporaneità tra la diminuzione del lavoro individuale e l’aumento del numero di lavoratori. E che l’aumento del numero degli occupati richieda una formazione adeguata, e mirata. Non si può pensare che la riduzione delle ore lavorate riguardi tutti, universalmente, senza tener conto dell’età, delle competenze, del tipo di lavoro. I vecchi dovrebbero avere la possibilità di lavorare di meno, di passare a lavori meno gravosi. I giovani dovrebbero avere tempo per formarsi come lavoratori e come cittadini.

Dovrebbero avere la possibilità di studiare o di studiare e lavorare, da giovani; di lavorare a tempo pieno da adulti; a tempo ridotto da vecchi. E dovrebbero avere uscite differenziate a seconda del tipo di attività e delle condizioni di salute.

Ora si parla, con leggerezza, di abolire il valore legale dei titoli di studio. Ciò che andrebbe introdotta è la univocità dei titoli. Ricordo interventi di Vittorio Capecchi sulla disperante ambiguità dei nomi dei corsi di formazione professionale italiani, a fronte della univocità di quelli tedeschi. Corsi della durata di anni con lo stesso nome di altri della durata di tre settimane. Finché si resta all’interno di un distretto, forse tutti si conoscono e le aziende sono in grado di distinguere. Ma, se il lavoro si muove, come si fa a capire da un curriculum chi sa fare che cosa? I 5.000 master in cui si è disintegrata l’Università italiana hanno completato la distruzione della attendibilità dei titoli. Bisognerebbe ristabilirla, non distruggerla definitivamente. In gioco non è il valore legale, che non si capisce cosa voglia dire fuori dai requisiti dei concorsi nel pubblico impiego. In gioco è la possibilità di sapere con una decente approssimazione che cosa sa fare un lavoratore, manuale o intellettuale che sia, per poter decidere chi assumere con criteri non puramente clientelari.

Ricordo anche vecchie discussioni sulla scelta del tipo di istruzione, sulla compatibilità col mercato del lavoro o indipendenza da esso. Per ragioni di età, ricordo in particolare una polemica tra Fausto Bertinotti e Nicola Schiavone, che allora lavorava alla Fondazione Agnelli, ma non era un servo del Capitale. Bertinotti sosteneva la piena libertà: le scelte dei giovani non siano subordinate a quelle del Capitale; tengano conto le aziende invece delle specificità dei lavoratori. Schiavone sosteneva la necessità del raccordo. La controversia è stata risolta al peggio dal degrado della pubblica istruzione. Con poche, notevoli, eccezioni, non c’è nessuna formazione coerente. La condizione sociale dei padri determina quella dei figli. La indeterminatezza del lavoro possibile rende indeterminati i criteri e vuota l’istruzione. Di formazione civica è meglio non parlare; gli unici a cui si richiede di conoscere la Costituzione sono gli immigrati che fanno domanda per la cittadinanza.

Alla base della nostra collettiva sconfitta c’è una sconfitta culturale. La convinzione, che abbiamo interiorizzato, che la diminuzione delle ore di lavoro necessarie per produrre in serie un manufatto portasse a un rafforzamento automatico, senza organizzazione e lotte, del lavoro, portasse alla possibilità di aumentare per tutti il tempo del consumo, e non come è accaduto, all’indebolimento dei lavoratori, alla loro potenziale irrilevanza.

 
Il lavoro politico

Forse il lavoro politico non è mai stato il lavoro con cui ci si guadagna il pane. Non lo sarà neppure in futuro, se riusciremo a risalire la china della nostra sconfitta culturale. Il lavoro produttivo, retribuito, non diminuisce per l’assistenza, la sanità, la manutenzione del territorio. E’ una necessità sociale; personale per chi non può vivere di rendita. Il lavoro politico è un sovrappiù che si sceglie di fare per la propria personale e collettiva difesa; per realizzare i fini che come cittadini riteniamo prioritari.

Non si tratta di abolire il mestiere di parlamentare, di ministro, di segretario sindacale. Non abbiamo chiesto in passato, quando eravamo tutti più frugali, e non chiederemmo in futuro, a Giuseppe Di Vittorio di continuare a fare il bracciante. Ma il lavoro politico, come la formazione alla cittadinanza, non è un lavoro dirigenziale, di pochi; è un lavoro pratico, di molti, potenzialmente di tutti.

La politica non è un’attività pagata a ore, o un superiore destino. Ci sono i leader carismatici, certo. Ma leader in tedesco si traduce Führer e in italiano aulico duce. Non è quello il lavoro politico che vorremmo ricostruire.

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