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Classe operaia globale: insurrezione o lotta di classe?

iwwIl concetto di “classe” è nuovamente divenuto popolare. Dopo la più recente crisi economica globale, anche i giornali borghesi hanno cominciato a porsi la domanda: “Dopo tutto, forse che Marx non avesse ragione?”. “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty è stato nella lista dei bestseller degli ultimi due anni  – un libro che descrive in modo dettagliato e puntuale come storicamente il processo capitalistico di accumulazione abbia sortito il risultato di una concentrazione di ricchezza nelle mani di una stretta minoranza di possessori di capitali. Per di più, nelle democrazie occidentali le notevoli diseguaglianze hanno provocato un accentuato timore di rivolte sociali. Negli ultimi anni, questo spettro ha ossessionato il mondo – dai disordini di Atene, Londra, Baltimora, fino alle rivolte in Nord Africa, a volte con la cancellazione di governi statali. Come di consueto, in questi tempi di agitazione, mentre una fazione dei detentori del potere invoca la repressione armata, l’altra solleva la “questione sociale”, che si suppone dovrebbe essere risolta attraverso riforme o politiche redistributive.

* * *

La crisi globale ha de-legittimato il capitalismo; la politica dei padroni e dei governi per costringere i lavoratori e i poveri a pagare per la crisi ha alimentato la rabbia e la disperazione. Chi potrebbe ancora contestare il fatto che noi viviamo in una “società classista”? Ma questo che cosa sta a significare?

Le “classi” nel senso più stretto del termine emergono solo con il capitalismo - ma l’appropriazione indebita dei mezzi di produzione, da cui deriva la condizione del proletariato privo di proprietà, non è stato un processo storico eccezionale. L’appropriazione indebita è un ripetersi quotidiano all’interno del processo produttivo: i lavoratori producono, ma il prodotto del loro lavoro non appartiene a loro.

Essi si limitano a ottenere ciò di cui hanno bisogno per la riproduzione della loro forza lavoro, o ciò che serve per mantenere il loro tenore di vita che essi hanno conquistato attraverso le lotte.

In linea di principio, le società classiste non riconoscono alcun privilegio per diritto di nascita, piuttosto è la proprietà del denaro a determinare la specifica posizione nella società. Di massima il capitalismo rende possibile una carriera che può partire dall’essere un lavapiatti fino a diventare uno speculatore di borsa (o almeno un piccolo imprenditore, e questa è la speranza di molti migranti). Nel contempo, i membri della piccola borghesia o gli artigiani possono discendere la china, fino al rango di proletario. L’ascesa nella scala sociale è raramente il risultato del proprio lavoro, piuttosto dell’abilità di diventare un capitalista e di appropriarsi del lavoro altrui. (La mafia, tanto per dire, possiede queste abilità.)

In realtà, si impone un processo di polarizzazione di classe, che già Marx ed Engels avevano afferrato come forza esplosiva e presupposto rivoluzionario. “Il movimento proletario è il movimento, cosciente di sé, indipendente dell’enorme maggioranza  nell’interesse dell’enorme maggioranza” (Manifesto). Immanuel Wallerstein ha dichiarato la tesi di Marx sulla polarizzazione di classe essere la sua tesi più radicale, che - una volta correlata al sistema mondiale - ha dimostrato tutta la sua validità. Polarizzazione significa, da un lato, proletarizzazione, dall’altro imborghesimento.

Il capitale non è solo ricchezza accumulata nelle mani di pochi. Il capitale è la precondizione e il risultato del processo di produzione capitalistico, in cui il lavoro vivo crea valore, che viene fatto proprio da altri.     

Per capitalismo non si deve intendere in genere lo ‘sfruttamento’ di un singolo lavoratore da parte di un maestro artigiano, ma lo sfruttamento di una grande massa di lavoratori in una fabbrica. È un modo di produzione basato sul fatto che milioni di persone lavorano insieme senza nemmeno conoscersi. Tutti insieme producono valore, però insieme possono anche rifiutare questo lavoro e mettere in discussione la divisione sociale del lavoro. Come forza lavoro, i lavoratori sono parte del capitale; come classe operaia, sono il più grande nemico del capitale al suo interno. 

Generazioni di ricercatori sulle “attività scientifiche di gestione e di direzione” hanno tentato di espropriare la conoscenza dei lavoratori su come produrre, per diventare indipendenti da loro. Hanno stabilito unità di produzione in parallelo, in modo da essere in grado di continuare la produzione nel caso in cui i lavoratori entrino in sciopero. Hanno cessato le attività e trasferito le fabbriche al fine di essere in grado di aumentare lo sfruttamento  e di assumere il controllo di nuovi gruppi di lavoratori. Ma non sono stati in grado di esorcizzare lo spettro (della rivolta sociale, n.d.t.). Durante le ondate di scioperi del 2010, per la prima volta questo fantasma ha ossessionato tutte le parti del globo, contemporaneamente. Queste lotte sono attualmente nella fase di cambiare questo mondo. Anche gli ambienti accademici hanno preso coscienza di ciò e dopo tanto tempo hanno trasformato nuovamente la classe operaia in oggetto delle loro ricerche – come dimostrano numerose pubblicazioni, nuove riviste e pagine web, attraverso le quali gli scienziati sociali di sinistra cercano di creare collegamenti tra i lavoratori in diversi continenti. In Germania, negli ultimi 25 anni, i lavoratori sono stati lasciati soli con le loro lotte – e però, ora, movimenti sociali e intellettuali hanno iniziato nuovamente a fare loro riferimento.

 

Retrospettiva

1978 – la classe operaia al culmine della sua potenza

Fino al 1989, noi eravamo in grado di darci spiegazioni su ciò che stava accadendo in questo mondo, o meglio, le lotte di classe erano in grado di spiegarcelo a noi. Il risveglio rivoluzionario attorno al 1968 aveva prodotto una nuova ondata di lotte operaie in molti paesi, e aveva generato una critica globale al sistema di produzione e alla cultura del lavoro supportata dai sindacati nelle metropoli. Alla fine degli anni 1970 la classe operaia era al culmine della sua potenza. Salari e redditi venivano garantiti dalla contrattazione collettiva e permanente, e il posto di lavoro relativamente sicuro era ancora la norma. Nei paesi industrializzati, le condizioni materiali dei lavoratori nel quadro del loro salario sociale complessivo erano le migliori che mai prima nella storia. E le loro lotte all’interno dei settori industriali centrali imponevano le condizioni migliori per tutti.

Già durante la crisi del 1973-1974, la capacità produttiva della classe operaia aveva iniziato a essere compromessa attraverso la delocalizzazione delle produzioni di massa ad alta intensità lavorativa verso il Sud-Est asiatico e tramite la ristrutturazione all’interno delle fabbriche. Il Capitale agognava sbarazzarsi di lavoratori divenuti troppo combattivi e sicuri di sé. Il colpo di stato in Cile nel 1973 e l’ascesa dei “Chicago Boys” indicavano la direzione che avrebbe preso la contro-rivoluzione del 1979-1980, in seguito associata ai nomi della Thatcher e di Reagan, che sfociò in pesanti sconfitte di ciò che, fino a quel momento, aveva costituito i pilastri della classe operaia (sconfitta alla Fiat nel 1980; il colpo di stato militare in Turchia; la controrivoluzione in Iran del 1979-1981, dopo che i consigli operai erano stati smantellati; il regime militare in Polonia alla fine del 1981; la sconfitta dei minatori in Inghilterra nel 1985 ...). Attacchi diretti sotto forma di licenziamenti di massa, con conseguente segmentazione della forza lavoro. Le classi operaie a livello nazionale [nationale Arbeiterklassen] si barricarono dietro i loro luoghi di lavoro e per un considerevole periodo di tempo riuscirono  - anche se con grandi differenze relativamente ai singoli paesi – a respingere gli attacchi diretti volti a deteriorare le loro condizioni.

Allora, per la gente dell’Europa occidentale, gli anni 1980 hanno costituito momenti densi di contraddizioni: da un lato attacchi massicci, d’altro canto l’azione di movimenti sociali radicali. Ma, dal punto di vista attuale, questo è stato un decennio di sconfitte drammatiche. Le politiche di austerità producevano uno smantellamento dei diritti sociali e/o questi venivano strettamente condizionati dalla spasmodica ricerca del lavoro. Immagini dagli Stati Uniti mostravano lunghe code di disoccupati davanti ad agenzie di reclutamento e collocamento, raffiguranti la nuova dimensione di impoverimento della classe operaia degli Stati Uniti - una classe operaia che da sempre si era dimostrata tanto potente. In Germania, durante la metà degli anni 1980, la mobilitazione sindacale per la riduzione dell’orario di lavoro (per combattere la disoccupazione!) in cambio di flessibilità e precarizzazione dei “regolari contratti di lavoro a tempo indeterminato” segnava uno spartiacque, un punto di svolta importante. Gli anni 1980 sono stati contraddistinti da dittature militari e declino economico in gran parte dell’America Latina, dalla bancarotta di Stato nel Messico, dalla crisi del debito e dalle imposizioni del Fondo Monetario Internazionale FMI per far rispettare “programmi di aggiustamento strutturale”.

 Dalla metà degli anni 1980, gli alti tassi di crescita economica dei quattro giovani “Stati-Tigre” asiatici, Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud, capovolgevano i vecchi presupposti della “teoria della dipendenza”.    

I movimenti di sciopero di massa del 1984 focalizzarono l’attenzione generale sulla Corea del Sud. Nelle condizioni dominanti di una dittatura dallo sviluppo di stampo occidentale, che aveva massacrato una rivolta operaia solo sette anni prima, era emersa una classe lavoratrice che sfidava il Capitale della Corea del Sud e i suoi metodi di produzione con forme radicali di lotta. Grazie a forti aumenti salariali, nel giro di pochi anni, i lavoratori erano stati in grado di mettersi alla pari con le loro controparti occidentali. Peraltro, in Europa, durante la fine degli anni 1980 una nuova composizione di classe sembrava svilupparsi nell’ambito di una nuova serie di lotte (il movimento delle assistenti sanitarie, scioperi negli asili nido, lotte dei macchinisti in Italia e Francia, scioperi dei camionisti in Francia, uno sciopero selvaggio alla VolksWagen ...) - ma poi era seguita una crisi e la guerra, e un massacro che avrebbe cambiato il mondo ...

 

Crisi e un’ondata di proletarizzazione negli anni 1990

Nel giugno del 1989 l’esercito apre il fuoco sulla piazza Tiananmen soprattutto perché masse di lavoratori erano accorse a sostegno degli studenti. Non agli studenti, ma ai leader dei lavoratori vennero inflitte lunghe pene detentive o la pena di morte. I sindacati non ufficiali vennero immediatamente dichiarati illegali e i loro dirigenti gettati in carcere.

Questo esempio non si è riprodotto a Berlino o a Lipsia (N.d.tr. Germania Est). Là, il regime si arrendeva. Quando il muro è caduto nel 1989, Wildcat si è avvicinato con ottimismo al crollo del socialismo reale esistente. Nel 1988/89 le lotte di classe in Germania occidentale si erano intensificate e nel corso del cambiamento di regime nella Germania orientale abbiamo assistito a dibattiti di massa nei luoghi di lavoro e per le strade circa un futuro sociale oltre il capitalismo e il socialismo della Repubblica Democratica Tedesca RDT – tutto ciò oggi è stato quasi dimenticato. La devastazione economica della ex RDT inizialmente aveva innescato un ampio movimento di lotta contro la chiusura delle fabbriche e il deterioramento dei servizi sociali.

Dopo i massacri della guerra del Golfo del 1991 e l’inizio della crisi economica, che in Germania veniva ritardata a causa del boom post-riunificazione, ma poi d’impeto esplodeva nel 1993, abbiamo assistito al collasso enorme delle condizioni esistenti nel settore metallurgico nella ex Germania Ovest. I sindacati hanno fatto la loro parte per salvare la Germania come “nazione-export”: ad esempio, nel 1994 la IG Metall (sindacato dei metalmeccanici) accettava l’intensificazione del lavoro e una massiccia flessibilità degli orari di lavoro con l’“Accordo di Pforzheim”. Inoltre, le prestazioni sociali venivano aggredite e ridotte su tutta la linea.

Le lotte che si sarebbero sperate - soprattutto nelle fabbriche che erano in procinto di essere smantellate nella ex Germania orientale - in gran parte non si sono concretizzate. La migrazione di lavoratori altamente qualificati dall’est all’ovest operava da valvola di sicurezza contro la pressione sociale - e il risultato era che per la prima volta ad ovest i salari erano in caduta durante il periodo post-bellico.   

La disoccupazione di massa nella parte orientale veniva tamponata con vari mezzi, per esempio le aziende inviavano di continuo gli operai a seguire programmi di formazione, perché non c’era lavoro, l’orario di lavoro subiva riduzioni, a volte a zero ore. Allo stesso tempo, quando si faceva notare che un compagno di lavoro guadagnava il doppio dell’operaio vicino, pur eseguendo la medesima mansione, subito avremmo iniziato a sentire dalla base operaia commenti del tipo: “La cosa più importante è che abbiamo un lavoro”.

L“esercito industriale di riserva” era tornato! Da allora sono stati sempre capaci di dividere la componente operaia mediante l’uso massiccio di contratti a breve termine e di lavoro temporaneo.        

Nella Germania Ovest degli anni 1970, avevamo imparato che, in larga misura, la funzione dell’“esercito di riserva” dei disoccupati per esercitare pressione sui lavoratori dipendenti era stata minata: fintanto che non esistevano problemi di trovare un lavoro, si poteva godere del periodo di disoccupazione pagata come una pausa ben accetta. Pertanto, eravamo cauti ad utilizzare termini come “esercito di riserva” e, soprattutto, veniva messa in discussione una prematura capitolazione.    

Poi, invece, siamo stati anche testimoni di un rapido deterioramento delle condizioni dei lavoratori disoccupati. Le leggi Hartz (riforme sull’indennità di disoccupazione del 2004/2005) hanno determinato una molto più pesante caduta del reddito in caso di disoccupazione (a lungo termine).      

Inoltre, la dissoluzione del “Blocco orientale” costituiva uno strappo nell’attivazione di un nuovo impulso alla proletarizzazione della popolazione mondiale. Mentre nei paesi dell’Europa orientale procedeva un tipo di “accumulazione primitiva” per mano di ex funzionari politici, che derubavano e ammassavano enormi ricchezze finanziarie attraverso privatizzazioni selvagge, le masse lavoratrici perdevano i loro diritti alla terra, all’alloggio e alle pensioni, precedente intermediario lo stato socialista.     

Su scala globale, tutti i regimi si erano spostati verso il “neoliberismo”, e gli scenari di guerra si moltiplicavano - e per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, anche nella stessa Europa.

 

Il ritorno della condizione proletaria

Quando il temibile concetto di “globalizzazione” veniva costruito in Germania durante la prima metà degli anni 1990 [dopo le idee di “produzione snella” (N.d.tr.: La produzione snella è un paradigma che mira a minimizzare gli sprechi fino ad annullarli) e di  “Toyotismo” negli anni precedenti], Wildcat, da un lato, ha cercato di dare rilievo alle carte vincenti che i lavoratori ancora possedevano (“ i padroni hanno bisogno della conoscenza dei lavoratori”, “quelli si trovano ad affrontare costi elevati per i trasporti e le operazioni di transazione”), e dall’altro lato, ha tentato di analizzare le potenzialità connesse alla socializzazione della produzione. Se tutto il mondo era diventato capitalistico, allora non esistono più a disposizione settori non-capitalisti in grado di fornire capitale con una riserva di forza lavoro fresca, il che significa che a un certo punto il Capitale deve affrontare una classe operaia globale.

Invece di consolidare il miraggio del potere invadente del capitale e della totale sottomissione dei lavoratori, noi dobbiamo chiederci dove sono situate le nuove dipendenze del capitale dalla classe operaia ... e il fatto che i lavoratori collaborino attraverso i continenti genera nuove potenzialità di lotta al capitale su scala globale.1

Allo stesso modo, non venne considerata la formazione dell’Unione europea immediatamente e automaticamente come un deterioramento delle possibilità di lotte.  

Questi erano i pensieri che, al momento, solo pochi hanno voluto condividere. La nostra proposta di ricerca militante su scala europea in diversi settori – l’industria automobilistica, il lavoro in ospedale, la migrazione, la precarietà – andò ad esaurirsi. Per la maggior parte della sinistra, altre questioni avevano priorità più alta: la fine del “blocco socialista”, la nuova ondata di nazionalismo e razzismo; i migranti; la creazione di sindacati alternativi ...

Con la sua pubblicazione de “Il ritorno della condizione proletaria” nel 1993, Karl-Heinz Roth invitava la sinistra ad impegnarsi nuovamente nella questione del “lavoro”. Contrastando i propagandisti di una società postmoderna, egli delineava la “tendenza verso ‘un’ nuovo proletariato in ‘un’ mondo capitalista”. Considerava la “omogeneizzazione dei rapporti di lavoro verso la precarietà, verso il lavoro a contratto e il lavoro autonomo ‘dipendente’”. La sua idea però che un ambiente di sinistra, esso stesso sottoposto a precarizzazione, avrebbe dovuto avere un interesse specifico per la ricerca militante dei rapporti di classe, conteneva un vizio di fondo: da un lato la dissoluzione delle strutture di sinistra (infrastrutture) e la tendenza verso l’individualizzazione avevano già progredito notevolmente, e, dall’altro canto, … gli accademici di sinistra erano ancora in grado di trovare qualche sostegno finanziario da università o fondazioni di ricerca.     

La sinistra tradizionale ha criticato Roth in maniera piuttosto dura e dogmatica, perché egli presumibilmente aveva dato come spacciate prematuramente le parti centrali della classe operaia; la sua visione di “circoli proletari” come nuclei di organizzazione veniva scartata come settaria.   

Le sue profezie espresse in quella fase sono sorprendentemente precise, una volta messe in relazione alle condizioni attuali. Questo nonostante il fatto che, in quel periodo, le modifiche ai cui si riferiva con la “globalizzazione della produzione” erano appena sul punto di evidenziarsi e l’accesso a Internet e la comunicazione elettronica erano appena disponibili all’utente comune.

Molte speranze rivolte ad un allargamento delle rivolte sociali sono da allora andate deluse e molte delle sue proposte preliminari - principalmente formulate in risposta ai suoi critici - di formare associazioni internazionali non sono state riprese, o meglio, sono ancora in attesa di essere trasformate in pratica. Il motivo principale però per cui tali proposte non sono state accolte con un ampio consenso di base è consistito nel fatto che gli anni 1990 in Europa hanno rappresentato un decennio di sconfitte, implementate dalla sinistra in obbedienza preconcetta alle teorie post-moderne e post-strutturaliste e alla ricerca di un opportuno tipo di conveniente identità. Tutti i tentativi di generalizzazione sono stati distrutti dal di dentro.

Sin dalle sue origini, il ruolo di Wildcat è stato quello di diffondere in ambito locale le parole d’ordine delle lotte di classe che avvenivano in tutto il mondo, ma dopo la dissoluzione del Blocco orientale questo non funzionava più. Molti lettori, così, si sono rassegnati di fronte alla conclamata vittoria del capitalismo. Wildcat non poteva proprio continuare come nulla fosse successo e mantenere alta la bandiera. Nel 1995 il collettivo editoriale ha smesso la pubblicazione della rivista e per diversi anni ha continuato il dibattito in forma di “Wildcat-Zirkular”.

 

Anti-Glob

L’apparire dell’EZLN nella Selva Lacandona con l’entrata in vigore dell’accordo NAFTA nel 1994 ha riportato la rivoluzione di nuovo all’ordine del giorno e ha aperto la strada ad un dibattito del tutto nuovo e a grandi speranze. Ancor di più quando un “movimento antiglobalizzazione” si è collegato con il movimento operaio organizzato, in risposta alla conferenza dell’OMC a Seattle nel 1999.

a) L’EZLN, Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale è un movimento armato clandestino, di stampo anticapitalista, libertario ed indigenista, attivo in Chiapas, lo Stato più meridionale ed uno dei più poveri del Messico. Il più famoso portavoce dell’EZLN è stato il subcomandante Marcos, ritiratosi volontariamente dal suo ruolo di portavoce nel maggio 2014. Uno dei loro motti è Democracia, justicia y libertad.       

b) NAFTA, North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il libero scambio), è un trattato di libero scambio commerciale stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico. L’aspetto che maggiormente caratterizza NAFTA è legato alla progressiva eliminazione di tutte le barriere tariffarie fra i paesi che aderiscono all’accordo.      La rivolta zapatista aveva inizio perché le popolazioni indigene vedevano nell’accordo (anche sulla base di precedenti esperienze simili) un ulteriore mezzo volto a trasferire la ricchezza dalle zone povere del Messico verso il Canada e, soprattutto, verso gli Stati Uniti.

c) L’OMC, Organizzazione mondiale del commercio, conosciuta anche col nome inglese di World Trade Organization (WTO), è un’organizzazione internazionale creata allo scopo di supervisionare numerosi accordi commerciali tra gli Stati membri. Obiettivo generale dell’OMC è quello dell’abolizione o della riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale; oggetto della normativa dell’OMC sono, però, non solo i beni commerciali, ma anche i servizi e le proprietà intellettuali. N. d. tr.]

Lotte radicali sembravano prendere piede nel “sud del mondo” e nelle campagne, sotto forma di lotte contro “recinzioni” (appropriazioni private delle terre comuni) e “valorizzazioni”, piuttosto che nelle fabbriche mondiali. Nelle fabbriche, i lavoratori erano stati posti sotto pressione, i loro posti di lavoro erano stati ridotti, gli operai rimasti avrebbero dovuto lavorare di più, ecc. - e quindi articoli di giornale e pubblicazioni spiegavano loro perché le cose erano come erano: la globalizzazione significava maggiore concorrenza e “siamo in grado di restare a galla solo se abbassiamo i salari”. Il tutto suona logico, giusto? In conclusione, si tratta di argomentazioni che si limitano a confinare la forza lavoro al ruolo di vittima di onnipotenti sviluppi.    

Perciò, noi ci siamo sforzati di criticare il concetto di globalizzazione e le sue applicazioni propagandistiche: il dibattito sulla “globalizzazione” cerca, a livello ideologico, di “spacciare una fase di 30 anni di stagnazione globale del capitalismo come una serie trionfale di vittorie”. 2 Invece di usare i termini “globalizzazione” o “neoliberismo” abbiamo continuato a scrivere di capitalismo e fatto riferimento agli sviluppi tumultuosi in Asia.

L’Asia è dove si suona la musica!...

Il termine ‘classe operaia globale’ (“Weltarbeiterklasse”) è apparso per la prima volta in Wildcat Zirkular no.25 (aprile 1996). L’articolo ‘Il Mondo in un cambiamento radicale3 descriveva il processo di proletarizzazione dal Bangladesh all’Indonesia fino alla Cina, accompagnato da lotte dure e diffuse rivolte, e l’emergere di una nuova forza lavoro, con la migrazione dalle campagne verso il mondo urbano delle metropoli: le giovani donne, che preferivano il lavoro in fabbrica piuttosto del dominio patriarcale nel villaggio. Questi giovani lavoratori venivano definiti come una avanguardia della formazione di una nuova classe operaia, motivo per rinnovare speranze. Nell’articolo si dava come presupposto che una “esplosione di bisogni / desideri” era la base materiale del ‘neoliberismo’, che aveva annullato l’intransigenza e rigidità dei lavoratori nei vecchi paesi industrializzati, ed ora invece, a partire dall’Asia, si era innescata una trasformazione globale dei rapporti di classe. I lavoratori nei vecchi centri industriali presto avrebbero perso la loro prerogativa di essere i soli lavoratori in grado di produrre, ad esempio, automobili.

In definitiva, l’articolo era un appello per fare inchiesta su questi cambiamenti in Asia, America Latina e Africa - e per una riconsiderazione della “zavorra” teorica, del tipo teorie su “le nuove recinzioni” o la “fine dello sviluppo”.

Ne è seguito un intenso dibattito in Wildcat Zirkular sulla validità dei servizi stampa, che palesemente si commentavano da sé, sulle agitazioni dei lavoratori e sul significato della classe operaia in Asia orientale.   

Parti del collettivo editoriale non riconoscevano  la “crisi del capitale” e veniva riposta ogni speranza rivoluzionaria sulla  “nuova” classe operaia in Asia:

Questo è ciò che vogliamo suggerire: la classe operaia globale ricompone se stessa in una prospettiva e con una velocità senza precedenti. Questo presenta due aspetti, ed entrambi migliorano le potenzialità per il comunismo.   

1. Il proletariato è diventato la parte preponderante della popolazione mondiale o in altre parole: la partenza delle masse alla ricerca della loro fortuna è un passo verso il completamento4 del capitalismo sviluppato. Solo ora ciò che Marx ed Engels hanno postulato 150 anni fa nel “Manifesto Comunista” può diventare realtà. 

2. La ‘vecchia’ classe operaia, che è sinonimo di social-democrazia, sindacati, partiti comunisti, tute blu, orgoglio dei lavoratori, interessi basati sull’impresa ... perde di importanza in tutto il mondo e si dissolve in egual misura, data la fuoruscita dai luoghi della produzione, visto che è cacciata fuori dalle fabbriche, e per causa di lotte difensive di retroguardia. In linea di massima, questo processo è lo stesso qui come, ad esempio, in Cina. Ma però in Cina emerge una nuova classe operaia composta da giovani lavoratori, e, soprattutto, da lavoratrici di prima generazione. Ed è del tutto inutile spiegare perché una giovane di diciassette anni incarna la speranza rivoluzionaria più di un padre di famiglia di 35 anni.5

Una parte diversa del collettivo editoriale vedeva semplicemente una ripetizione della storia dell’operaio-massa, ma non vi intravedeva alcuna nuova qualità, ed insisteva su un radicamento teorico della nozione di “classe operaia globale”:

L’emergere di una ‘classe operaia globale’ si basa sulla questione se si realizza una vera e propria socializzazione attraverso una cooperazione produttiva globale, vale a dire, sulla questione di fino a che punto la produzione globale di capitale apre la possibilità di comunismo. [...] Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima di tutto avere ben compreso l’intima interrelazione tra gli sfruttati di tutto il mondo, vale a dire, tra coloro che già producono questo mondo (sottosopra, completamente in disordine) - e coloro che sono quindi in grado di cambiarlo.6Uno dei principali problemi della politica rivoluzionaria di oggi sta nella sua incapacità di criticare teoricamente e praticamente il processo di produzione globale, in un modo radicalmente demistificante.7

 

La proletarizzazione mondiale e lo shock dell’offerta

Nel gennaio 1998 Karl-Heinz Roth affermava inoltre che, 150 anni dopo il Manifesto Comunista, il proletariato si era costituito per la prima volta oggettivamente in tutto il mondo - e che, contrariamente alla supposizione di Rosa Luxemburg, i settori non-capitalisti si erano completamente integrati . “Per la prima volta nella storia coloro che non possiedono nulla, che hanno solo da offrire e vendere la loro forza-lavoro per vivere, costituiscono  quantitativamente la maggior parte della popolazione mondiale”. 8

Questa ipotesi solleva interrogativi su almeno due livelli: Dobbiamo intendere questo processo come un primo passo verso la costituzione di una classe senza mezzi di sussistenza, seguita da una seconda fase che prevede la transizione di proletari senza terra in lavoratori salariati? Oppure si sviluppa un universo di diversi rapporti di sfruttamento? Che cosa comporta questo per lo sviluppo delle lotte? 9

Durante gli anni 1980 la sinistra autonoma in Germania si era interessata più all’economia di sussistenza (o a ciò che percepiva come tale) e ai disordini provocati da coloro che erano stati esclusi dal processo di produzione capitalistica, piuttosto che ai ‘lavoratori salariati’. Nel 1983 Wallerstein aveva già sottolineato che la grande maggioranza della popolazione mondiale oggi lavora più duramente e più a lungo e per meno reddito di 400 anni fa. Potremmo definire questo processo di crescente dipendenza dal reddito salariale, nel senso di Marx, ‘proletarizzazione’. Ciò significa: un aumento del potere d’acquisto reale; quindi, a lungo termine, questo va a tutto interesse del capitale, ma d’altro canto va contro gli interessi dei singoli capitalisti che pretendono bassi costi di riproduzione dei propri lavoratori, cioè, sono interessati ad una ‘semi-proletarizzazione’: un’economia domestica  basata sul reddito proveniente da diverse fonti e un’economia di sussistenza o fondata sul lavoro a domicilio. 10

Per contro, una completa proletarizzazione (che significa: sia moglie che marito sono liberi salariati e possono acquistare tutti i mezzi per la loro sussistenza) è desiderata piuttosto dai proletari. Una proletarizzazione completa richiede un ‘welfare state’, uno stato sociale che trasferisce reddito a coloro che non lavorano. La Germania Est costituiva un esempio modello di ‘proletarizzazione completa’ – dato che risolveva i suoi problemi di carenza di mano d’opera con i migranti provenienti dal Vietnam e Mozambico. Sulla base delle tesi della Luxemburg, che il capitalismo non è in grado di riprodurre la forza lavoro che esso sfrutta, Wallerstein dimostra che gran parte della popolazione mondiale non raggiunge mai la proletarizzazione completa, ma piuttosto che le famiglie restano dipendenti dalla produzione di sussistenza e si impegnano in attività di tutti i tipi, non salariate secondo norma.

 

Forces of Labor

Wildcat ha sottolineato la vulnerabilità delle nuove catene di trasporto all’interno del nuovo panorama mondiale, altrimenti difficili da comprendere in ragione dei rapidi cambiamenti e subitanei spostamenti. Abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulle nuove sedi di produzione - nel corso degli anni 1990, apparivano fabbriche di automobili non solo in Asia, ma anche in Europa orientale.

Utile a questo proposito è stato il libro ‘Forces of Labor’ di Beverly Silver, che, nel quadro di analisi del sistema-mondo, posizionava i fermenti sociali e le lotte della classe operaia al centro della sua ricerca.       

Alla Silver riusciva rilevare che, storicamente, le lotte seguono immediatamente l’itinerario del Capitale: in reazione alle rivolte dei lavoratori negli anni 1970 il Capitale costruiva nuove fabbriche di auto in Sud Africa e Brasile – e qui si innescava una nuova dinamica di potenti lotte operaie. Durante gli anni 1980 l’industria automobilistica prosperava nella Corea del Sud – e questo provocava lotte durature del tutto simili portate avanti da una nuova generazione di lavoratori.

La cosa importante era che la Silver esaminava l’intero globo e sottolineava come le ‘correzioni strategiche’ riuscivano a riparare solo temporaneamente le falle del sistema e che il Capitale doveva senza sosta affrontare la resistenza della classe operaia - perché la conflittualità operaia è endemica al capitalismo. Sebbene la sua categorizzazione schematica fra lotte ‘secondo Marx’ e lotte ‘secondo Polanyi’ era meno convincente.

La Silver presumeva che l’indebolimento del ‘potere contrattuale’ dei lavoratori nei paesi del nord globale sarebbe stato solo temporaneo. I suoi dati empirici inizialmente erano stati raccolti solo fino al 1990, ma poi si erano allargati al 1996 - e fino al 1990 la sua analisi corrisponde puntualmente alla realtà.  

In Europa orientale, però, i salari sono ancora significativamente inferiori a quelli occidentali. I lavoratori dell’automobile hanno cessato di essere i lavoratori meglio pagati, comunque questo non è vero per tutti i luoghi del pianeta.

La Silver difende una visione ciclica del mondo, la crisi è sempre ciclica, sempre seguita da fasi di sviluppo ed espansione economica. Dal suo punto di vista una grande crisi dovrebbe comportare trasformazioni fondamentali, instabilità e nel sistema mondiale dovrebbe emergere una nuova forza egemonica. Lei non pone la questione di come le lotte operaie potrebbero portare al comunismo,  e “non si è interessata affatto” della lunga fase in cui i lavoratori del Sud-Est asiatico non hanno rappresentato una minaccia rivoluzionaria al capitalismo.      

Oggi, la Silver spiega che la profonda crisi del movimento operaio mondiale sarebbe dovuta al fatto che la ‘soluzione finanziaria’ è stata combinata con un ‘destrutturazione’ delle classi lavoratrici già esistenti. Il Capitale si era ritirato dalla produzione, il suo lato distruttivo era dominante. Tuttavia, la Silver afferma che la correzione finanziaria era temporaneamente efficace, andando a spostare la crisi solo geograficamente - e alla fine del percorso si andava a generare una nuova e profonda crisi di legittimazione del capitalismo.11

Ed è vero, non si era mai vista una resistenza tanto organizzata contro progetti di infrastrutture, dighe, centrali elettriche, ecc - in particolare nei paesi di più recente industrializzazione come India, Indonesia o in Cina. Sia che  cogliamo questi movimenti di resistenza come lotte contro la ‘mercificazione’ - o più semplicemente contro la distruzione delle basi dei mezzi di sussistenza - ormai su scala mondiale si è evidenziato che ‘il progresso tecnologico’ non porta automaticamente allo ‘sviluppo’, ma si accompagna alle distruzioni - e noi possiamo organizzarci contro tutto questo.

Questo contrasta con il fatto che il Capitale, durante un processo di industrializzazione, non ha mai incontrato così poca resistenza da parte dei lavoratori come durante la fase tra il 1990 e il 2005. È stato in grado di peggiorare le condizioni dei lavoratori continuamente, senza essere seriamente minacciato dalla loro resistenza collettiva. La compensazione di posti di lavoro nell’industria con posti di lavoro in servizi di alta qualità, come era stato previsto, si è dissolta nel nulla. Durante questo periodo le lotte operaie a livello globale - Cina compresa - hanno un carattere prevalentemente difensivo, sotto la guida della ‘vecchia classe operaia’ contro le chiusure delle imprese o le delocalizzazioni. (Questo spiega anche il motivo per cui, nello stesso periodo, la sinistra ha gettato a mare il concetto di “classe”).

L'apertura dei mercati del lavoro in India e Cina nel corso degli anni 1990 ha portato ad uno ‘shock di offerta’: da un giorno all’altro l’offerta di forza lavoro è raddoppiata. La Cina computava il doppio dei lavoratori occupati nel settore industriale rispetto a quelli dei paesi del G7 messi insieme. La Cina era diventata la fabbrica del mondo e il principale luogo di esportazione di beni di consumo di produzione industriale, in particolare di quelli con elevati volumi di prodotto. Le conseguenze per una parte della classe operaia mondiale erano - come previsto - catastrofiche: le industrie dell’abbigliamento abbandonavano il Messico e si spostavano verso l’Asia. La Cina aderirà all’OMC nel 2002 e l’Accordo Multifibre del 2005 avrebbe dovuto essere il picco di questo sviluppo - ma poi le cose sono cambiate: in Cina i lavoratori nei nuovi stabilimenti hanno iniziato a lottare e le loro battaglie si sono allargate ...

 

Cosa è cambiato negli ultimi 40 anni

A partire dalla ‘crisi petrolifera’ del 1973 ci sono stati cambiamenti con impatto a lungo termine: oggi oltre sette miliardi di persone vivono su questo pianeta. Tra il 1950 e il 1970 il tasso di crescita della popolazione mondiale è stato del 2 per cento, poi il tasso di crescita ha rallentato, in particolare in quelle aree dove la proletarizzazione ha avuto  luogo.

Nei paesi in via di sviluppo la forza lavoro è aumentata del 2 per cento, il che significa che la forza lavoro totale è raddoppiata nel giro di 30 anni, mentre in Europa questo processo è durato 90 anni. La proletarizzazione avviene a un ritmo molto più rapido rispetto a quello che l’economia capitalistica è in grado di assorbire: molti non trovano un lavoro con un salario bastevole per vivere. Un numero enorme di proletari finisce in settori privi dei requisiti di legge. Aumenta la quota di donne come parte attiva della forza lavoro. I tassi di disoccupazione sono alti, soprattutto tra i giovani, ancora di più tra i migranti, o meglio, tra le minoranze. (Questo aggrava la paura delle classi dirigenziali dominanti, paura di cui è stato trattato in precedenza: c’è una correlazione tra gli alti livelli di disoccupazione tra i giovani e la frequenza di disordini sociali; il ‘disordine sociale’ è aumentato drammaticamente dopo il 2009, con un aumento del 10 per cento degli incidenti registrati - soprattutto in Medio Oriente, Nord Africa, ma anche nel Sud dell’Europa, nell’ex Blocco orientale e un po’ meno nell’ Asia meridionale).

L'occupazione nel settore agricoltura si è ridotta drasticamente; solo nelle regioni più povere più della metà della popolazione continua a lavorare nei campi. Il processo di concentrazione nel settore agro-industriale continua e i contadini si trasformano in braccianti agricoli, alcuni dei quali vivono nelle città piuttosto che in campagna. Nell’Est asiatico la fuga dalle campagne, in larga misura, rinforza direttamente il mondo del lavoro industriale, mentre in America Latina e in Africa è soprattutto il settore dei servizi che registra la crescita. Dal 2007 (ed oltre) la metà della popolazione mondiale vive in aree urbane. Nei paesi in via di sviluppo, in particolare, crescono le megalopoli, l’80 per cento degli abitanti vive in baraccopoli. Slum e baraccopoli sono espressione del fatto che la gente vuole entrare a far parte della classe operaia mondiale. Questi sono punti di partenza e stazioni di transito verso una vita migliore - nel rispettivo o in un paese diverso, dove sono necessari lavoratori.

Nel processo mondiale di proletarizzazione, il ‘lavoro mobile’ (o ‘lavoro migrante’) è diventato la forma più generale del lavoro, tanto nella forma di migrazione verso un paese differente (ad esempio, l’UE) o come migrazione interna (ad esempio in Cina , dove il governo stima che ci siano 130 milioni di lavoratori migranti, dei quali 80 milioni sono migrati dalle regioni interne più povere verso le città costiere). Ad oggi (2013), il numero dei migranti internazionali è più alto che mai: 232 milioni (nel 2000 erano 175 milioni), di cui 20-30.000.000 sono senza documenti. Tra il 2000 e il 2013, la loro quota nel quadro della popolazione totale è aumentata dal 2,9 al 3,3 per cento. La grande maggioranza di loro sono lavoratori migranti, non rifugiati o richiedenti asilo.

Uno sviluppo degno di nota è costituito dall’aumento di un proletariato di lavoratori migranti che, con l’intermediazione di agenzie internazionali di reclutamento, vengono ingaggiati in ‘semplici’ lavori privi di specializzazione per salari bassi in paesi diversi, ma dove non è previsto il loro stabilirsi in quei posti: operai edili dall’India, Pakistan, Bangladesh che lavorano nei grandi cantieri di costruzioni nei paesi del Golfo, che vivono in campi-dormitorio e la cui situazione complessiva li ha spesso indotti a scioperi e ribellioni, affrontati sempre da una repressione draconiana; milioni di lavoratori domestici dalle Filippine o dall’Indonesia, ecc. che lavorano presso famiglie ricche o benestanti negli Stati del Golfo, ma anche a Hong Kong; lavoratori badanti per le persone anziane, che si spostano dall’Europa dell’Est verso Occidente, al fine di lavorare presso famiglie che non possono permettersi di assumere una badante locale. Inoltre, sempre più spesso, operai per l’industria vengono reclutati per lavorare in lontane ‘zone franche di produzione’, al fine di scalzare la classe operaia locale.

Le condizioni di vita delle persone sono in gran parte determinate dall’ambiente  della loro esistenza - ma le condizioni di lavoro dei lavoratori ‘non specializzati’ del Nord e del Sud del mondo stanno diventando strutturalmente sempre più simili. In Cina e in India, negli impianti di assemblaggio per la produzione di beni di consumo di massa si utilizzano perfino  macchinari dagli standard più moderni. Lavoratori manuali non specializzati vengono impiegati  ai margini della catena di approvvigionamento, nei cortili degli slums , ma anche nei magazzini dei centri di distribuzione nel cuore dell’Europa o degli Stati Uniti. All’interno della stessa catena valoriale il plusvalore assoluto e quello relativo sono combinati.

[N.d.tr.: Dal punto di vista del capitalista, il capitale erogato nella produzione si distingue in "capitale variabile" (per pagare i salari dei lavoratori) e in "capitale costante" (per le spese delle macchine e delle materie prime). L'origine del profitto capitalistico, ossia la produzione del plusvalore, è opera del capitale variabile; pertanto il capitalista tende ad aumentare il saggio di plusvalore (cioè il rapporto fra plusvalore e capitale variabile), incrementando lo sfruttamento del lavoro dell'operaio. In poche parole più il lavoratore lavora, più aumenta il capitale variabile, più il capitalista può guadagnare. Questo risultato può essere ottenuto in due modi: prolungando la durata della giornata lavorativa o riducendo la parte di essa destinata a compensare il salario pagato. Con il primo metodo, allungando la giornata lavorativa, si ottiene un plusvalore assoluto; mentre col secondo, rivoluzionando i processi tecnici del lavoro, un plusvalore relativo.]

Fino alla crisi del 1973-74, la crescita economica persistente aveva più che compensato gli aumenti di produttività e la buona riuscita della ‘razionalizzazione’, vale a dire, il tasso di occupazione non diminuiva e lo stato sociale ampliava il suo campo di azione. Da allora, la crescita della produzione industriale è entrata in stagnazione - attualmente si aggira intorno al 3 per cento; forse, in un prossimo futuro è prevista verso l’1,5 per cento?

L’occupazione nel settore manifatturiero (compreso quello delle costruzioni) è aumentata a livello globale, ma i tassi di industrializzazione, come riscontrati 50 o 100 anni fa, non si raggiungono più da nessuna parte: il Capitale abbandona le sedi, dove si trova collocato, molto più velocemente rispetto al passato, ricolloca la produzione in aree ‘più convenienti’ o la trasforma in ‘servizi’ locali - o arresta del tutto  gli investimenti. In molti dei paesi di nuova industrializzazione la quota di lavoratori industriali ha già raggiunto il suo picco del 20 per cento della forza lavoro totale.

Nelle nazioni di antica industrializzazione è in atto un processo di de-industrializzazione - anche se siamo in grado di distinguere differenze importanti: negli Stati Uniti lavora nelle industrie l’11 per cento dei salariati, mentre la Germania è in cima alla lista in Europa con il 22 per cento (2007). Nel 1970 i lavoratori industriali ancora rappresentavano il 37 per cento della forza-lavoro (mentre oggi, il lavoro esternalizzato a ‘fornitori di servizi connessi con l’industria’ non conta più come lavoro industriale). 12

La globalizzazione ha portato ad una nuova polarizzazione tra posti di lavoro più o meno qualificati. Nelle nazioni di antica industrializzazione sono ridotti quei lavori che richiedono un livello medio di qualificazione, nuovi impieghi tendono ad essere temporanei e meno ben pagati. Il ‘settore dei servizi’ si sviluppa su scala mondiale - e in questo campo, comunque, questa polarizzazione si replica ugualmente: si assiste  all’aumento , da un lato di lavori cosiddetti ‘semplici’ o non qualificati (pulizia, assistenza alle persone, ecc. ) e d’altro canto a lavori ‘non di routine’ che esigono livelli di qualificazione più elevati, mentre i lavori di routine che richiedono qualifiche di medio livello (contabili, impiegati d’ufficio) diminuiscono: l'introduzione dei computer ha reso molti aspetti di queste mansioni ridondanti, semplificati, e la delocalizzazione di questo lavoro è stata resa perciò più facile. Questo è uno dei motivi per cui il divario salariale all’interno dei settori si allarga.

Comments

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KR
Saturday, 07 May 2016 18:14
Insomma, la patologia lavorista non cede, anzi sembra che stia sempre avanzando, nelle ideologie di quella cosa che chiamano "sinistra"...

Cit.:
OGGI "La precarietà ripropone invece al completo la figura operaia, con tutte le sue manifestazioni, forme ed espressioni.
Vale a dire: se la classe operaia è l'antagonista assoluto del capitale, non lo è prima di tutto perché è sfruttata (lo sfruttamento classico concerne coloro che lavorano, non i disoccupati, ecc.), BENSÌ perché è alienata dai mezzi di produzione, da tutti i beni comuni essenziali per lavorare e produrre, e deve QUINDI sottomettersi a ogni tipo di sfruttamento fisico, culturale, intermittente o peggio ancora schiavistico (salariato) del suo lavoro, per sopravvivere".

"Questa è la classe operaia.
Mentre CHE i lavoratori NON formano la classe, ma unicamente ne sono il settore più impiegato dal capitale produttivo, sfruttato direttamente nella produzione con più continuità, e quindi maggiormente alienato, naturalmente."
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