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micromega

L'abbaglio della meritocrazia e il bisogno di un nuovo umanesimo

di Carlo Scognamiglio

Da poco ripubblicato “La tirannia della valutazione” della filosofa francese Angélique Del Rey: un testo intrigante che vede nella valutazione uno strumento di potere e critica il mito dell'oggettività. Ma il libro ha il grosso limite di un discorso troppo radicale: non è possibile retrocedere alla “vecchia” idea di valutazione o all’educazione autoritaria del passato, né rinunziare del tutto a pratiche di monitoraggio. È difficile immaginare modelli alternativi, ma se ne avverte un gran bisogno.

A partire dall’introduzione della customer satisfaction fino all’attuale protagonismo di istituti per la valutazione come l’ANVUR o l’INVALSI, l’idea di misurare, calcolare, comparare, diagnosticare qualunque aspetto della vita pubblica e privata, costituisce quello che Marcel Mauss avrebbe definito un “fatto sociale totale”. Indagando l’ansia valutativa che caratterizza questa fase malinconica del post-fordismo, possiamo davvero comprendere molto di noi stessi e della cultura in cui siamo immersi. Un’analisi importante da sviluppare, ma che esige una certa prudenza intellettuale.

La filosofa francese Angélique Del Rey ha scritto un libro intrigante, forte e capace di proporre una lettura chiara di questo fenomeno. Nel volume intitolato La tirannia della valutazione, appena ripubblicato da Eleuthera (20182), l’autrice raggiunge alcuni importanti traguardi analitici, salvo poi eccedere in alcuni passaggi, inebriata dalle proprie stesse intuizioni.

Cerchiamo di metterne a fuoco i punti cruciali, per valorizzarne i meriti fondamentali. L’incipit del libro mette subito le cose in chiaro: “La valutazione, nel nostro mondo neoliberista, è diventata uno strumento di potere” (p. 17).

Il libro di Del Rey ci rammenta le fondamenta concettuali su cui si regge l’impalcatura ideologica del capitalismo contemporaneo. Si tratta di alcune parole d’ordine che oggi vengono considerate sostanzialmente ovvie e indubbie da gran parte della popolazione, e che tuttavia così scontate non possono essere stimate. In primo luogo l’esaltazione del merito individuale come criterio di riconoscimento della legittimità di posizioni sociali adeguate, con corrispettiva attitudine alla misurazione e quantificazione di un parametro, quello del merito – appunto – che in assoluto non ha alcun significato, né alcuna stabilità. Il merito è sempre relativo a un sistema di valori, che sono i valori della classe dominante. E ciascun individuo conosce nella propria esistenza non solo ambiti differenti in cui raggiunge livelli assai eterogenei di merito (non tutti socialmente riconosciuti), ma anche incredibilmente variabili nella vita della persona. Ciononostante l’esaltazione della meritocrazia non incontra resistenze.

In astratto il concetto rinvia alla lotta contro i privilegi, al superamento dell’antico regime in nome dell’equa possibilità di raggiungimento del proprio successo. L’autrice, non a caso, cita la Costituzione francese del 1791, in cui si riconosce come unico criterio per l’accesso alle alte cariche il possesso di talenti e virtù. Non innati ma acquisiti attraverso un’adeguata istruzione. Giocando su questa ragionevole accettabilità della meritocrazia come eguale opportunità, di fatto quello che è oggi il sistema sociale più ingiusto e iniquo che la storia abbia mai conosciuto, riesce a riprodurre se stesso, scaricando sulla maggioranza della popolazione la responsabilità di occupare i più bassi gradini della scala sociale in virtù di un’insufficienza dei propri meriti.

L’altro feticcio del nostro tempo, connesso a quello del merito, è il mito dell’oggettività. È davvero incredibile come gli europei ripropongano ricorsivamente tale istanza; come se la propria cultura non fosse stata minimamente attraversata da duemila anni di riflessione filosofica ed epistemologica. In realtà quello che viene valutato non è mai il merito in senso proprio, ma tutti i sistemi moderni di assessment altro non misurano altro che la capacità del soggetto di adattarsi al sistema di valutazione. Come scrive efficacemente Francesco Codello nella sua prefazione: “abbiamo creato una misura che misura la capacità di conformarsi alla misura stessa” (p. 13). Quella che ci ostiniamo irrazionalmente a riconoscere come neutrale oggettività, in ambito valutativo altro non è che frutto di una misurazione condivisa all’interno di una comunità, che definisce attraverso un atto volontaristico contenuti, strumenti e parametri della valutazione. Altro che oggettività! Al massimo potremmo parlare di atteggiamenti diagnostici orientati politicamente e ideologicamente, supportati da una procedura intersoggettivamente riconosciuta.

La valutazione, dicevamo all’inizio, è strumento di potere. Non si può negare. Chiunque sia deputato a esprimere un giudizio significativo sulla prestazione di un altro essere umano, stabilisce un rapporto di potere. Ma il confine tra l’esercizio di un potere e il suo abuso, non va ricercato – come spesso si tende a credere, in un evidente arbitrarietà del valutatore – ma proprio in quel difficile nesso con la pretesa di oggettività. Disegnato con un profilo impersonale e disinteressato, il sistema di amministrazione dei fenomeni sociali tende a esercitare una capacità di controllo selettivo, per mezzo della “valutazione permanente”, e al tempo stesso introduce una graduale trasformazione di stili di vita (in senso performativo) e sistema cognitivo dei soggetti che si adeguano più o meno consapevolmente allo sguardo del valutatore, per compiacerne le attese e garantirsi una dimensione numerica che li tuteli dall’esclusione sociale. È dunque del tutto evidente la natura di dispositivo biopolitico che possiamo riconoscere nei sistemi più moderni di valutazione.

L’autrice è veramente brillante nei passaggi in cui lascia emergere il paradosso dell’efficacia. Gran parte dell’opinione pubblica infatti è incline accogliere senza riserve il culto della misurazione della qualità e la valutazione oggettiva dei risultati. Parrebbe ovvio infatti che l’efficacia di un’istituzione, sia essa ospedaliera, universitaria o assistenziale, debba essere monitorata attraverso una raccolta di dati affidabili, funzionali anche alla costruzione di comparazioni diacroniche. Eppure, pochi sono in grado di notare come nella realtà gli effetti finiscano per essere opposti a quelli attesi. Il caso più emblematico e intuitivo è fornito dalla valutazione universitaria. I ricercatori, sollecitati da questo New Public Management, che esclude i non-pubblicati dalle università, o meglio, i non-pubblicati in determinate riviste e secondo alcuni parametri standardizzati. Qual è l’effetto prevalente? I ricercatori sono sempre più distratti dalla ricerca e dall’approfondimento, schiacciati da ottemperanze che stridono con il significato più profondo del loro mestiere. Processi analoghi accadono nella scuola, dove è constatazione comune che le pur importanti procedure di valutazione, con rubriche, griglie, prove comuni, prove standardizzate, nella loro implementazione non fanno altro che distrarre i docenti dalla preparazione delle lezioni e dall’azione educativa in senso stretto.

Ciò che tuttavia l’autrice sembra non vedere, forse abbagliata dalla buona qualità delle proprie intuizioni, è il rovescio della medaglia. Se l’opinione pubblica così agevolmente si schiaccia sull’ideologia del New Public Management, è perché in esso vivono pure istanze legittime. Come sempre, occorre saper ponderare le proprie posizioni. In qualche modo forme di monitoraggio o auto-monitoraggio vanno riconosciute. La difficoltà del pensiero critico consiste proprio nel controllarne gli eccessi, le idolatrie, per impedire che diventino forme di controllo socio-politico. Ha ragione la filosofa francese, quando evidenzia il rischio della quantificazione del tutto: “dietro l’idea di Total Quality Management, ovvero di qualità totale, si nasconde in effetti una gestione della quantità totale, dove non c’è più spazio per una determinazione intrinseca del valore”. Se però si imposta tutto sul piano della misurabilità, tutti i valori possibili sono omologati nella struttura della concorrenza, con se stessi o con gli altri. Benchmarking, best practices, sono espressioni che abbiamo imparato a conoscere, e sono tutte basate sull’idea della comparazione. Il valore non è più intrinseco al gesto, ma sempre relativo al confronto. Ecco perché “le valutazioni delle prestazioni scolastiche, delle istituzioni sanitarie, delle competenze sul mercato del lavoro, ecc. mirano tutte all’instaurazione di una concorrenza generalizzata” (p. 63).

Ho apprezzato molto, in questo libro, una delle sue conclusioni, in certo senso hegeliane. L’irrazionalità di questo esasperato razionalismo valutativo è proprio nell’incapacità di accettare l’incertezza, l’errore, l’irregolarità. Lo spirito ingegneristico che pervade la vita del mondo amministrato è sempre di più nevroticamente orientata a cercare armonizzazioni e linearità forzate. Non ci si avvedere che le organizzazioni sociali, essendo strutturalmente complesse, devono prevedere inevitabilmente delle anomalie. L’idea di razionalizzarne il funzionamento come se si trattasse di una macchina, non è nuova, e tende solo a peggiorare il quadro. Crea malessere e favorisce l’emergere di patologie psichiche e regressioni culturali.

Infine, in che senso allora questa nuova cultura della valutazione sta delineando un abuso di potere? Molti hanno dimenticato che la parola “statistica” deriva da “scienza dello Stato”. Fu il cuore dell’ansia di rinnovamento centralistico di Napoleone Bonaparte e da sempre non è solo uno strumento analitico, ma tende a svolgere una funzione normativa, perché costringe il misurato ad adeguarsi al sistema di misura. Le rilevazioni valutative modellano l’evoluzione della persona in direzioni attese dal sistema. Si tratta di una forma incruenta di violenza, che induce a vivere in un panopticon psicologico. Bentham indicava con quel termine l’ipotesi di una struttura carceraria con una torre al centro e un punto d’osservazione capace di raggiungere con lo sguardo qualunque cella. In tal modo, il detenuto si sarebbe sentito sotto osservazione in ogni momento, e avrebbe così auto-disciplinato il proprio comportamento.

Oggi, addirittura, chiediamo di essere osservati, esigiamo da soli la nostra sistematica contabilizzazione, divenendo sempre più dipendenti dal “numero” di visitatori sulle nostre pagine web, il “numero” di like, e ogni altra forma di ponderazione quantitativa. Osserviamo il curriculum vitae di un qualsiasi giovane lavoratore. Dovrebbe raccontare una storia formativa e professionale, e invece è un susseguirsi di tabelle con esiti di valutazioni e certificazioni, a dimostrazione del “potere crescente di questa identificazione tra l’individuo e le sue valutazioni” (p. 108).

Fa bene qui l’autrice a recuperare Marcuse: “la riduzione della vita all’economia diventa quindi un vero modo di essere e di pensare. Un modo di essere che svuota gli individui della loro interiorità, in quanto consiste nell’adottare i comportamenti “giusti”, acquisire le abilità “giuste”, investire nei capitali “giusti”: insomma, nell’adattarsi” (p. 106), cioè adeguarsi a standard predefiniti. E in questa definizione degli standard, insiste una vocazione più o meno consapevolmente totalitaria.

In fondo la valutazione così come oggi la si intende è una sorta di razionalizzazione ideologica di determinate forme di dominio, che – vivendo noi in una società democratica – non possono affermarsi senza soddisfare il desiderio popolare di una giustificazione plausibile, e che trova la sua forza nella sua finta oggettività e neutralità, apparentemente garantita dal dato numerico.

Solo nell’ultimo capitolo, l’autrice vede il limite di un discorso troppo radicale, e si rende conto che non è possibile retrocedere alla “vecchia” idea di valutazione o all’educazione disciplinare autoritaria del passato, né rinunziare del tutto a pratiche di monitoraggio.

Ma è altrettanto difficile immaginare vie d’uscita o modelli alternativi. Del Rey invoca un nuovo umanesimo, ma non è cosa semplice. Ciononostante, se ne avverte un gran bisogno.

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