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Massimo D’Alema e la ricostruzione di un partito dei lavoratori

di Luca Michelini

Lo ripeto per non essere frainteso: tutti coloro che si immaginano che la deriva liberale del Pd abbia come attore fondamentale Matteo Renzi si sbagliano e dimostrano di non avere quella minima conoscenza dei fatti che in politica è indispensabile. La deriva liberal-liberista data dalla fine del Pci e, più precisamente, data dall’ascesa di M. D’Alema.

Per chi volesse annoiarsi a ripercorrere solo la cifra culturale di questa impresa che ha traghettato il più grande partito comunista dell’Occidente nel vasto arcipelago del “moderno” liberalismo (evitando accuratamente di transitare per qualsivoglia forma di socialdemocrazia), rimando ad un libricino che ho scritto, figurarsi, nel lontano 2008 (La fine del liberismo di sinistra, 1998-2008, Firenze, Il Ponte).

Quando si è consumata la scissione del Pd, che poi ha dato vita a quella che sarebbe diventata Leu, cioè poco di più del solito cartello elettorale di “sinistra unita e plurale” che tante sconfitte ha accumulato in questi anni, ho scritto nero su bianco ciò che non potevo non scrivere. E cioè che il tentativo di D’Alema e di Bersani non aveva la minima credibilità: appunto perché proprio loro sono stati protagonisti della svolta “liberal” del movimento dei lavoratori un tempo del Pci.

Naturalmente taglio con l’accetta e diversi distinguo andrebbero fatti: ma per ciò che ho letto e per ciò che è stato fatto dai governi del centro-sinistra, non ci possono essere dubbi sul fatto che quanto proposto da Renzi si inserisce in una parabola di tiro messa a punto dagli eredi del Pci.

I quali, ingenuamente (l’ingenuità è la riprova che con la cultura marxista nulla più avevano a che vedere), non hanno pensato che la continua invocazione di una “moderna borghesia” avrebbe inevitabilmente dovuto tradursi anche nella loro personale scomparsa politica. Costoro tutto potevano rappresentare socialmente,tranne che la borghesia. D’Alema e Bersani devono tutto, come ceto politico e come forza elettorale, al vecchio Pci: che certo si batteva per la nascita di una moderna borghesia, ma che rappresentava una larga parte di società italiana che aveva in mente di costruire un mondo diverso da quello borghese.

Ripeto tutto questo non tanto perché sentir parlare oggi costoro di “ritorno alla socialdemocrazia” mi fa rendere conto una volta di più della deriva puramente ideologica dei ceti politici dell’ex-Pci; una deriva che, in fondo, non fa che riproporre l’uso puramente strumentale che della cultura si fece, ad un certo punto, anche ai tempi del Pci.

Ripeto tutto questo perché, sfogliando il blog di D’Alema si viene a scoprire che costui è andato a parlare di Marx e del marxismo italiano nientemeno che al Second World Congress on Marxism tenutosi in Cina[1]. Naturalmente immancabile è stato il riferimento a Gramsci: già citato ai tempi…  della svolta liberista, per chi se lo fosse dimenticato.

Presumo che i motivi di tanto attivismo culturale siano altri, almeno me lo auguro. La Cina sta diventando una potenza imperiale mondiale, anche in Italia, e rievocare l’internazionalismo marxista, come ha fatto D’Alema nel suo intervento, chissà mai che non abbia implicazioni operative.

Ma queste mie riflessioni non vogliono essere di mera polemica. Penso, infatti, che se questi ex-leader del movimento operaio (ora possiamo usare questa parola: fino all’altro ieri era proibito…) hanno un briciolo di autentico ripensamento autocritico, dovrebbero fare tutt’altro di ciò che stanno ostinatamente facendo, cioè riproporsi per l’ennesima volta sulla scena politica.

Dovrebbero, invece, dire come stanno le cose per davvero. Rendere cioè piena e totale e veridica testimonianza di come funziona il potere nel nostro Paese. Dare precisa descrizione della sudditanza internazionale in cui l’Italia si trova. Di come funzionano i meccanismi di potere allorquando si decide di legiferare e di governare. Di quali sono per davvero le parti in causa. Quale sia l’enorme potere di ricatto che schiaccia la nostra sovranità. Quante le collusioni, quanti gli impedimenti, quanti gli intralci che qualsivoglia pensiero e azione progressista incontrano nella macchina statale e nei rapporti di forza internazionali. Quanti gli errori da loro commessi e quanti i compromessi a cui sono dovuti scendere o che hanno invocato per primi. Quali i passi precisi dell’incontro con la borghesia nazionale e internazionale: quanto hanno dovuto e quanto hanno voluto cedere. Un diario. Una cronaca. Un atto di verità. In sintesi: una testimonianza di come funziona il “capitalismo”, per riproporre una parola utilizzata da D’Alema nel suo intervento. Dopo aver distrutto l’ossatura fondamentale del movimento operaio italiano, cioè del più forte movimento operaio dell’Occidente, facciano almeno un atto di verità: ne lascino la cronaca minuta. Lasciando da un canto Marx e Gramsci, che un contributo all’umanità lavoratrice lo hanno dato per davvero.


Note
[1]http://www.massimodalema.it/doc/20004/second-world-congress-on-marxism

Comments

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Eros Barone
Wednesday, 16 May 2018 23:02
Propongo il seguente esercizio di logica dialettica:
o sapeva e voleva, o non sapeva e voleva, o sapeva e non voleva, o ancora non sapeva e non voleva. Se sapeva e voleva, va considerato, in quanto corresponsabile di una strage, i cui effetti, tra l’altro, si prolungano nel tempo, come un criminale di guerra e, secondo la normativa vigente, deferito al tribunale internazionale dell’Aja; se non sapeva e voleva, merita soltanto di essere escluso dal consorzio umano (“qui non sapit quod facit definitur bestia”); se sapeva e non voleva, doveva dissociarsi dalla più mostruosa delle guerre, quella atomica, e non doveva prendere le decisioni che ha preso; se non sapeva e non voleva, va considerato come un governante pericoloso a sé e agli altri (sia al proprio popolo che agli altri popoli).
Una domanda, tuttavia, s’impone: se la responsabilità dell’impiego delle bombe all’uranio impoverito, rivelatesi micidiali non solo per le popolazioni colpite (che ne sconteranno gli effetti per oltre venti generazioni), ma per gli stessi militari dei paesi aggressori, è da imputare agli uomini di governo (i quali, a mio modesto avviso,
sapevano e volevano) dei paesi che hanno scatenato e condotto la guerra, c’è davvero qualcuno che pensa che una simile responsabilità possa essere riconosciuta, giudicata e punita da un tribunale, quale quello dell’Aja, che è, esattamente come gli eserciti, uno degli strumenti di dominio della borghesia imperialista ?
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