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Sovranità non è una parola maledetta

di Alfredo D’Attorre

Il voto del 4 marzo 2018 ha avuto un duplice e micidiale significato per tutte le forze variamente collocate a sinistra. Vi è il dato quantitativo, che segnala il peggior risultato di un’intera area in tutta la storia repubblicana, e vi è un dato qualitativo, caratterizzato dal definitivo mutamento della composizione geografica e sociale del voto a sinistra, con un andamento sorprendentemente parallelo, che riguarda PD, LeU e perfino Potere al Popolo. I risultati migliori vengono ottenuti nei centri delle aree urbane, connotati da più alti livelli di reddito e di istruzione, mentre nelle periferie e nelle aree interne, dove è più forte e concentrato il disagio sociale, le percentuali si inabissano abbondantemente sotto la media.

Questa comune composizione sociale nelle diverse espressioni del voto a sinistra (che per la verità porta a compimento un trend avviatosi a partire dagli anni Novanta) fa emergere un elemento clamoroso e impensabile, se raffrontato all’asprezza delle divisioni in questo campo e al livello di conflitto fra i gruppi dirigenti. Le differenze di programma e di posizionamento, che sono state vissute come profonde e insuperabili da un’area più politicizzata, semplicemente non sono state colte dalla stragrande maggioranza di quei ceti popolari e di quel mondo del lavoro che pure queste forze si proponevano di rappresentare.

In questa parte di elettorato, che si è orientata in gran parte su M5S e Lega, evidentemente sono prevalse una rappresentazione e un rifiuto comune delle forze della sinistra, in modo così netto da surclassare la percezione delle sue articolazioni e polemiche interne.

I tre tratti distintivi e unificanti del modo in cui la sinistra è stata percepita nei ceti popolari sono facilmente individuabili: essa è stata identificata come la parte politica schierata con l’Europa senza se e senza ma, a favore dell’immigrazione e delle politiche di accoglienza, a sostegno dell’ampliamento dei diritti e delle libertà civili. Questi tre elementi, che sono diventati il tratto unificante del progressismo nelle sue diverse declinazioni (dalla sinistra liberal-liberista a quella socialdemocratica fino a quella antagonista), hanno oscurato ogni altro elemento di carattere economico-sociale e hanno prodotto la percezione di una distanza siderale dalla natura delle domande che l’elettorato popolare ha espresso il 4 marzo.

La sinistra è rimasta inchiodata al mantra della società aperta, nobile e qualificante sul piano culturale, ma del tutto insufficiente a cogliere le istanze profonde che salivano dalle viscere della società italiana dopo la più devastante crisi economica del dopoguerra. Sul piano della rappresentazione simbolica, che come sempre ha contato ben più del dettaglio delle proposte programmatiche, la sinistra è rimasta così imprigionata dentro la bolla del politicamente corretto. Ciò le ha consentito di parlare solo a quella parte della società al riparo da problemi economici stringenti, che si è potuta permettere di decidere il voto testimoniando valori e preferenze di ordine culturale. In termini di radicamento sociale, lo spiazzamento è talmente profondo che non si può pensare di uscirne con aggiustamenti al margine e con la pure inevitabile sostituzione dei gruppi dirigenti. Se le diverse forze della sinistra vogliono uscire dal perimetro sociale in cui sono rinchiuse, occorre un vero e proprio cambio di paradigma, una discontinuità nello stesso vocabolario concettuale.

Si pensi, ad esempio, alle parole con le quali PD e LeU, sia pure con diverse proposte programmatiche, hanno provato a stigmatizzare la posizione delle forze poi risultate vincitrici: populismo, sovranismo, protezionismo. Si può discutere se questi termini abbiano un significato determinato, certo è che con questo vocabolario è molto difficile intercettare il voto di un popolo che si sente abbandonato e tradito dall’establishment, che reclama voce politica, ossia sovranità, rispetto a luoghi di decisione percepiti come sempre più distanti e opachi, e che chiede nuove forme di protezione economica a fronte dei guasti di una globalizzazione sregolata. Adoperando con disprezzo parole la cui radice è popolo, sovranità, protezione, la sinistra non ha semplicemente rifiutato le risposte di Lega e M5S, ma ha negato alla radice le domande stesse che sono state espresse dall’elettorato popolare. È stato peraltro osservato che populismo e sovranismo sono ormai parole passe-partout, che le élite adoperano per squalificare preventivamente tutte le posizioni non immediatamente compatibili con l’attuale ordine economico.

Al di là di questo, la questione della sovranità democratica è particolarmente delicata, o almeno dovrebbe esserlo per una sinistra che si richiama a ogni piè sospinto (ultimamente anche da parte di autorevoli esponenti del PD) al valore della Costituzione repubblicana e dei principi scolpiti nei suoi primi articoli. Il primo di questi principi è quello della sovranità popolare, affermato nello stesso primo articolo che fonda la Repubblica democratica sul lavoro: lì viene affermato un nesso strettissimo fra autodeterminazione democratica e diritti del lavoro. Proprio quel nesso che i ceti popolari oggi avvertono essere stato strappato e la cui riaffermazione affidano alle forze cosiddette “populiste”, ritenendo la sinistra ormai schierata dalla parte delle élite cosmopolitiche che diffidano delle decisioni prese a livello nazionale. Dopo l’urto della crisi i ceti popolari esprimono un nuovo bisogno di comunità e di protezione, chiedono un potere democratico che torni a rispondere alle loro esigenze, e non solo alle compatibilità fissate dall’Europa e dalla finanza globale, ma trovano solo la risposta regressiva e talora xenofoba di Lega e M5S, perché la sinistra, in tutte le sue articolazioni, sembra accettare acriticamente l’equazione fra sovranità e nazionalismo. Come se la sovranità popolare, in quanto diritto di una comunità politica di autodeterminare le proprie condizioni fondamentali di vita, non fosse irrinunciabile anzitutto per quella parte politica che dovrebbe essere più ostile alla dittatura ideologica del TINA (There is No Alternative).

Qui si pone il tema cruciale della ricostruzione dei poteri di intervento economico dello Stato. Dopo il crollo del socialismo reale, gran parte della sinistra italiana ha trovato nell’europeismo una sorta di nuovo mito fondativo. Il punto è che l’Europa reale costruita da Maastricht in poi si è rivelata distante dall’utopia di Ventotene non meno di quanto il socialismo reale lo sia stato da quello immaginato da Marx. Il disegno di integrazione è stato portato avanti non per costruire una sovranità europea in grado di offrire alla politica democratica strumenti di intervento più efficaci sull’economia, ma con esiti assolutamente opposti. C’era qualcuno che lo aveva capito fin dal principio: basta rileggere, ad esempio, le pagine del diario di Guido Carli, all’epoca ministro del Tesoro italiano, scritte subito dopo la firma dei Trattati che avviano il percorso verso la moneta unica: «L’Unione Europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva degli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e dell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a favore di quest’ultimi».

Si può dubitare sul fatto che il nuovo patto si sia rivelato favorevole ai cittadini, ma per il resto la descrizione puntuale di ciò che sarebbe avvenuto nei venticinque anni successivi è piuttosto impressionante. Così come è evidente lo scarto fra questo modello economico-sociale e quello disegnato nella prima parte della Costituzione. Per gran parte della sinistra italiana e continentale l’ancoraggio al disegno europeo e alla nobiltà storica delle sue motivazioni è diventato prevalente rispetto alla praticabilità di politiche di segno sociale e keynesiano. Anziché rendere il suo europeismo compatibile con una ispirazione autenticamente socialista, la sinistra riformista ha accettato di convertirsi alla Terza via blairiana e clintoniana, approdando a un europeismo liberale che ha progressivamente cambiato la sua base sociale. Su un altro versante, la sinistra radicale ha anch’essa sostanzialmente accettato la narrazione neoliberale della fine dello Stato, inseguendo la suggestione di un’attivazione su scala europea e globale dei movimenti di rivolta e di emancipazione. Di qui la comune avversione verso qualsiasi forma di sovranismo, pure se declinata in chiave democratica e costituzionale, con il brillante risultato di consegnare a una nuova destra, di impianto non più solo liberista e thatcheriano, la bandiera della sovranità popolare e della critica alla natura opaca e tecnocratica della governance europea. Ora non si tratta certo di inseguire questa nuova destra sul suo terreno o di vagheggiare illusorie scorciatoie di uscita dall’Unione europea o dall’euro. È il momento però di dotarsi di un nuovo apparato concettuale e di un nuovo linguaggio, che consentano di riproporre in termini moderni e credibili un ruolo attivo dello Stato nell’economia. Si può mantenere l’orizzonte ideale di una sovranità democratica europea, ma non si può pensare di riguadagnare la fiducia dei ceti popolari solo sulla base di questo sogno e dell’idea che fino alla sua realizzazione le democrazie nazionali siano condannate all’impotenza o all’irrilevanza.

Se la sinistra non riuscirà a fare i conti con il nucleo di verità che sta dietro il successo dei cosiddetti “populisti”, non sarà il loro fallimento al governo del paese a restituirgli automaticamente uno spazio. È il tempo allora di un europeismo di nuovo conio, un europeismo costituzionale, che non rinunci a un grande disegno di pace e di cooperazione tra i popoli europei, ma che sia più compatibile con il dettato della Costituzione e che nutra più fiducia nella capacità di autogoverno del nostro paese oltre la costrizione del vincolo esterno.

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