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Vi ricordo tutti gli effetti nefasti dell’austerità (che ha aggravato la crisi)

di Guido Salerno Aletta

Sono trascorsi sette anni dalla drammatica estate del 2011, quando gli spread sul nostro debito pubblico erano arrivati alle stelle. Solo il 28 settembre venne pubblicata la lettera datata 5 agosto, con cui il Governatore della Bce Jean-Claude Trichet e quello della Banca d’Italia Mario Draghi chiedevano al governo italiano misure drastiche per portare il bilancio in pareggio già nel 2014, e profonde riforme strutturali.

La intempestiva exit strategy dalla politica monetaria restrittiva decisa dalla Bce, con due aumenti dei tassi già decisi in marzo ed a luglio, aveva scatenato il panico sui mercati: i titoli di Stato italiani, che pure erano stati visti come un porto sicuro all’esordio della crisi finanziaria, erano tornati indigesti. Speculazione senz’altro, ma tant’è.

Al drammatico G20 di Nizza, a novembre, lo stesso Fmi dovette riconoscere di non avere fondi sufficienti per sostenere l’Italia. Lo scherno con cui il Presidente francese Nicolas Sarkozy e la Cancelliera tedesca Angela Merkel si rivolsero al nostro Presidente Silvio Berlusconi palesò che il cambio di mano era pronto: di lì a poco si dimise, per lasciare spazio a Mario Monti.

Lasciamo parlare le cifre. In termini di Pil reale, solo quest’anno avremo recuperato il tonfo di questi sette anni: nel 2011 era pari a 1.614 miliardi di euro, e se tutto va bene a dicembre arriverà a 1.619 miliardi. Nel frattempo, il debito pubblico è aumentato di ben 415,7 miliardi, passando dai 1.907,3 del 2011 ai 2.323 miliardi di giugno scorso.

Una cifra enorme, ma anch’essa modesta se paragonata al totale degli interessi già pagati in questi anni: si tratta di ben 582,5 miliardi di euro. In pratica, in otto anni abbiamo pagato di interessi un ammontare pari ad un terzo del debito iniziale. Nel frattempo, le spese al netto degli interessi sono aumentate solo di 10 miliardi di euro, passando da 717,7 a 727,7 miliardi: una cura da cavallo: una crescita zero in termini reali, ma una forte contrazione in termini nominali, visto che il pil a prezzi correnti è cresciuto nel medesimo periodo di 122,6 miliardi.

C’è da spiegare, ancora una volta, come mai il debito sia cresciuto per un ammontare inferiore agli interessi cumulati. La differenza l’ha fatta, ancora una volta, il saldo primario: è la somma che viene percepita dall’Erario ma non spesa, essendo destinata a coprire una quota di interessi, pari a 227 ,5 miliardi di euro. In pratica, l’aumento del debito è servito a pagare solo la quota degli interessi non accollati al saldo primario. E’ ovvio che si tratta di una scelta di politica di bilancio: sottraendo risorse all’economia, se ne rallenta la crescita.

Per quanto riguarda il debito pubblico, alla fine dello scorso mese di maggio, la detenzione dall’estero era pari a 748,7 miliardi, rispetto ai 680,5 miliardi del 2011 che riflettevano un periodo di forte sfiducia verso l’Italia, ed ai 741,1 miliardi del 2015. Nel frattempo, gli acquisti operati dalla Banca d’Italia attraverso il Qe hanno portato le sue detenzioni a quota 384,8 miliardi di euro: visto che a partire dalla fine del 2011 l’incremento del debito pubblico italiano è stato di 415,7 miliardi, a giugno scorso sul mercato privato c’erano appena 30,9 miliardi di debito in più rispetto al 2011. Il Qe è stato una enorme spugna: ha assorbito debiti in cambio di liquidità, che sembra essere stata tutta destinata a nuova finanza.

Le cose non sono andate affatto meglio sotto il profilo del credito: la duplice recessione ha portato al fallimento decime di migliaia di imprese, creando problemi giganteschi ed ancora insoluti per i crediti in sofferenza. La cessione degli Npl a soggetti terzi ha un valore esclusivamente contabile, depurando gli attivi bancari con un costo spesato sul conto economico. Ma i crediti e le garanzie sono ancora in piedi, nelle mani dei cessionari, con buona pace di chi ritiene che il peggio sia passato.

In termini aggregati, il sistema bancario ha innanzitutto effettuato un consistente deleverage verso l’estero: la raccolta estera netta è passata dai 215,3 miliardi del 2011 ai 37,4 miliardi rilevati a giugno scorso, riducendo l’esposizione di 177,9 miliardi. Gli impieghi del settore bancario verso la PA sono rimasti pressoché stabili: dai 257,5 miliardi del 2011 si è arrivati ai 265,2 miliardi di giugno scorso. Il settore privato dell’economia, famiglie ed imprese, è stato invece fortemente penalizzato: il credito a suo favore si è ridotto di 182,7 miliardi. In pratica, mentre sono stati mantenuti stabili gli impieghi a favore della PA, la riduzione della raccolta estera è stata integralmente accollata al settore privato: suona bizzarro, ancora una volta, chiedersi come mai la crescita italiana sia così asfittica.

Ci sono poi i conti con l’estero. La bilancia dei pagamenti correnti, dopo due anni ancora in rosso nel 2011 e 2012, a fine 2017 aveva comunque accumulato un attivo di 107,9 miliardi di euro. Al surplus delle transazioni commerciali per beni e servizi, a partire dal 2016 si è aggiunto anche quello dei Redditi primari, conto in cui si compensano i flussi di interessi e dividendi, pagati ed incassati. Dai 5 miliardi del 2016, si è passati ai 10,2 miliardi dello scorso anno: siamo diventati un popolo di rentier, considerando soprattutto che all’estero defluisce la consistente quota degli interessi sul debito pubblico che è detenuto da non residenti.

Gli asset italiani all’estero sono aumentati di ben 633,8 miliardi, mentre le passività si sono cresciute di 450 miliardi: il risultato è che la posizione finanziaria netta dell’Italia è migliorata continuamente, di 183,8 miliardi di euro rispetto al 2011. L’aumento delle attività finanziarie allocate all’estero denota la persistente maggiore attrattività di altre economie, nonostante le ottime performance delle nostre esportazioni.

Occorre ribaltare la narrazione che è andata di moda in questi anni: le continue manovre economiche restrittive, le contrazioni salariali, e le mai concluse riforme strutturali hanno creato un clima di sfiducia tra i cittadini italiani. Hanno ben chiaro che portano solo ad un peggioramento inarrestabile dell’economia.

E’ stato tutto controproducente, come dimostrano i numeri. Le riforme per dare flessibilità in entrata ed in uscita al mercato del lavoro hanno determinato incertezza nelle famiglie ed hanno indotto le imprese a cullarsi nell’eterno precariato: se qualcosa va male, si licenzia.

L’austerità fiscale ha ridotto la capacità di spesa delle famiglie, assorbita da ogni possibile balzello sulle utenze domestiche, non solo quelle elettriche, e dalle tariffe sui servizi di pubblica utilità, favorendo le grandi rendite di posizione: far finta di combattere quella dei tassisti è stato il modo migliore per occultare ben altre principesche capacità di esazione.

La riduzione del credito ai privati è stato un fattore devastante: si prestano denari solo a fronte di collaterali finanziari di maggiore entità, per ribaltare sul prenditore ogni rischio.

Il crollo del mercato immobiliare, dovuto ad una insensata e dissennata ricerca di proventi fiscali, ha messo in ginocchio uno dei settori vitali dell’economia, senza nessun piano alternativo né di risanamento delle periferie né del territorio. Il mancato reimpiego dell’avanzo delle partite correnti dimostra che viviamo al di sotto delle nostre risorse, mentre il deflusso continuo di capitale all’estero non è altro che la ovvia conseguenza di tutte le politiche fin qui adottate.

Senza una profonda revisione strategica, un punto o anche tre punti di deficit pubblico in più, non faranno nessuna differenza.


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(Articolo pubblicato su Milano Finanza)

Comments

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massimo terli
Monday, 03 September 2018 23:12
potrebbe fare lo stesso articolo per la grecia?
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