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Comunicato sul governo gialloverde

di Nuova Direzione

Cada o non cada in queste ore, venga o meno rimpastato in questi giorni, il giudizio sul governo gialloverde non può cambiare. Il 4 marzo 2018 la rabbia sociale covata in dieci anni di crisi ed acuita dal Monti ha potuto finalmente esprimersi sul piano elettorale mandando a palazzo Chigi una coalizione politica assai eterogenea, espressione di una embrionale coalizione sociale non meno complessa, che partiva dai disoccupati meridionali, includeva i piccoli imprenditori del nord e giungeva fino a gruppi assai più forti, fatti di imprese di maggior taglia e di apparati regionali di grande peso.

Il “governo del cambiamento” nasceva accompagnato da speranze di crescita del lavoro, del reddito, della sicurezza, e costringeva da subito l’establishment a svelare la natura antidemocratica dell’europeismo con un veto presidenziale (del tutto inedito in quanto espresso in base a valutazioni politiche e non etico-giudiziarie) alla nomina di un ministro indicato dai legittimi rappresentanti degli elettori. La verità della situazione del paese, ovvero il nesso causale tra appartenenza alla Ue, aumento delle diseguaglianze e decadenza dell’apparato produttivo, sembrava poter emergere con nettezza e consentire finalmente agli italiani di iniziare a mettere in discussione l’europeismo, che è la forma concreta in cui si esercita, da noi, il dominio del liberismo. Dopo poco più di un anno si può dire che quelle speranze sono state disattese.

Pur continuando a mugugnare contro l’Ue, il governo ha accettato da Bruxelles praticamente tutto. Ha ceduto sulla nomina di Savona, ha limato decisamente le previsioni di deficit, ha preso, per il futuro, impegni che ne limiteranno fortemente l’azione.

Soprattutto, ha visto formarsi al proprio interno uno stabile asse europeista (Conte-Tria-Moavero) linearmente connesso con Mattarella. Cedendo di fronte all’Ue sono diminuite le risorse a disposizione, è aumentata la litigiosità interna ed è aumentato inevitabilmente, anche grazie alla vittoria di Salvini alle elezioni europee, il peso della parte forte della coalizione, ossia delle medie imprese e degli apparati regionali. Questa parte, che è quella che finanzia soprattutto la Lega, non ha alcun interesse ad andare allo scontro con l’Ue, se non, forse, in caso di ripetizione di esperienze “alla Monti”. Per il momento, questa parte vuole solo ottenere qualcosa in termini di sconti fiscali e di regionalismo differenziato, ma soprattutto vuole raccogliere i frutti del tanto atteso decreto sblocca cantieri che (oltre a rendere più elastiche le norme sugli appalti a tutto vantaggio del clientelismo e delle infiltrazioni criminali) ripropone un modello di sviluppo tecnologicamente arretrato, ecologicamente disastroso, politicamente nocivo a causa dell’intreccio perverso tra pubblico e privato. Un decreto che allarga il consenso della Lega ben oltre le imprese tradizionali e costituisce in ogni caso la base materiale degli accordi di spartizione tra la destra e la sinistra. D’altro canto, nemmeno Salvini ha interesse a scontrarsi davvero con Bruxelles, perché anche per lui è tempo di raccolta (che inizierà quando riterrà sufficientemente indebolito il M5S) e non di pericolose avventure. L’antieuropeismo verrà dunque usato solo in funzione elettoralistica, dopo di che un governo Salvini-Meloni, pur se ne avesse intenzione, non avrebbe la forza di iniziare un vero contenzioso con Bruxelles, sia per la già ricordata natura della sua base sociale, sia per la presumibile completa incapacità di aprire varchi nel fronte avversario.

Se Salvini sta ben rappresentando il capitale (tutto il capitale, non solo quello piccolo: vedi Ilva e Benetton), Di Maio sta rappresentando in maniera insufficiente il lavoro, compito che gli è stato assegnato da gran parte del suo elettorato. Non si tratta solo del fatto che i rapporti di forza pendono dall’altra parte, né delle insufficienze (a volte inevitabili) di questo o quel provvedimento. Si tratta della filosofia generale che accompagna il M5S e che, salvo poche eccezioni, è analoga a quella della Lega perché non si fonda sull’intervento pubblico diretto e sulla diretta creazione di occupazione (e quindi di domanda) da parte dello stato, ma sulla pura e semplice incentivazione indiretta degli investimenti e della domanda attraverso sgravi e sussidi: una delle varie forme assunte in questi decenni dal “keynesismo privatizzato” che, al di là dei proclami contro lo stato, a cui nessuno più crede, ha costituito la realtà del liberismo. Il “governo del cambiamento” non ha cambiato in nulla la subalternità all’Ue, non ha cambiato in nulla il modello di sviluppo, non ha contrastato efficacemente – nonostante le accese dichiarazioni seguite al crollo del ponte Morandi – le privatizzazioni: con questi presupposti, gli interventi sulla povertà, sulle condizioni di lavoro, sul salario, o sono impossibili o sono del tutto insufficienti. L’ideologia liberista di cui il M5S è intriso, e che è anche frutto del suo costitutivo rapporto con una particolare impresa, non gli consente di mobilitare appieno i grandi, potenziali bacini di consenso del lavoro subalterno, che è la prima vittima della lunga crisi italiana. Ma gli consente, purtroppo, di accettare le parti più deleterie della politica salvinana sulla sicurezza, di procedere alla scellerata riduzione dei parlamentari, di abbozzare compromessi impresentabili sul regionalismo differenziato: cose che non compenseranno – anzi – i voti perduti altrove.

La nascita e la vita contrastata del governo (così come la sua eventuale rapida morte) parlano dunque immediatamente di lotta di classe e di lotta fra stati. E’ il prevalere del capitale a rendere impossibile il necessario conflitto con l’Europa, ed inoltre a preparare una fase di nuovo bipolarismo (Lega da una parte, Pd-M5S dall’altra) in cui il lavoro non troverebbe nemmeno un canale indiretto di espressione e in cui si ripeterebbero, tra le parti in commedia, le urla sulle questioni secondarie e l’accordo sulle questioni essenziali: europeismo liberista e sottooccupazione. D’altro canto, soltanto la piena emersione delle esigenze dei disoccupati, dei precari e dei lavoratori in genere può imporre la necessaria svolta di politica industriale e sociale, e l’inevitabilmente connessa svolta nei confronti dell’Ue. Insomma: solo ricostruendo l’autonomia politica dei lavoratori sarebbe di nuovo possibile parlare di politica economica per il nostro paese, ed avere il consenso necessario a gestire il conseguente scontro su scala europea. Ma mentre il capitale ha forme di rappresentanza e di esistenza che sono indipendenti rispetto ai partiti politici a cui pure si affida, e che gli consentono di chiedere conto a questi partiti ed eventualmente di costruirne di nuovi, il lavoro, almeno in Italia, non riesce a darsi nessuna propria autonoma forma di esistenza, sia perché moltissimi sono i disoccupati e i precari, sia perché, salvo rare eccezioni, i sindacati sono ormai soprattutto strutture di servizio e non rappresentanze autonome dei lavoratori, avendo accettato, fin dall’inizio degli anni Novanta, di smettere di lottare. In nome dell’europeismo.

La lotta di classe, e il suo intreccio con la lotta nazionale, è quindi il filo di Arianna che consente di leggere l’intricata situazione attuale e di orientare un’azione politica, ancorché embrionale. NUOVA DIREZIONE si propone di agire per favorire l’autonomia politica del lavoro e, su questa base, la riconquista della sovranità democratica da parte del paese.

Oggi si tratta di :

Contrastare ogni ipotesi di riedizione del bipolarismo, valutando con questo metro tempi e modi della caduta del governo ed aprendo un confronto con il M5S (e con tutte le altre forze interessate) sulla necessità di ripensare radicalmente le idee, i modi di esistenza e di organizzazione di un terzo polo politico italiano, che non può non essere un polo popolare centrato sulle esigenze dei salariati e delle figure intermedie.

Organizzare campagne o comunque iniziative sui punti più acuti e più chiari di conflitto, come il regionalismo differenziato, il salario minimo e l’impostazione della manovra autunnale, per acuire le contraddizioni nel governo, quelle interne al M5S e quelle tra M5S e PD, e per diffondere la consapevolezza di una possibile alternativa.

Precisare un programma politico-economico di svolta, basato sulla centralità dell’intervento pubblico come base per l’occupazione, il riassetto ambientale-energetico del paese ed il superamento della sua posizione integralmente subalterna nella divisione internazionale del lavoro, base della subalternità delle sue scelte politiche interne ed estere. Tale programma non può ridursi alla pura e semplice uscita dell’euro e dall’Ue, ma deve essere prima di tutto la proposta di un’alternativa positiva, attorno alla quale accumulare le forze per l’exit. Tale programma inoltre non può essere soltanto il frutto di una elaborazione intellettuale, ma deve prevedere consultazioni, e quindi embrionali alleanze, con membri delle più diverse classi, delle associazioni private e degli apparati pubblici.

Darsi forme di organizzazione transitoria che abbiano comunque la caratteristica di consentire il contatto con esperienze di conflitto e resistenza sociale e di stabilire un nesso tra queste esperienze e le prospettive politiche più generali. Avviando in tal modo un percorso che porti ad una forza politica stabile, in grado di prendere le parti del lavoro – nelle nuove forme in cui ciò è possibile – dopo più di vent’anni di dominio incontrastato dei rappresentanti delle altre classi.

Compatibilmente coi limiti di una formazione che è ancora allo stato embrionale, NUOVA DIREZIONE si impegnerà nei prossimi mesi su questi fronti, anche per accrescere progressivamente le proprie forze ed intrecciarsi con altre esperienze che vogliano muoversi su questo stesso piano.

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