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Quale "virus" ci minaccia?

di Sebastiano Isaia

Secondo Giovanni Floris, noto giornalista, scrittore e conduttore televisivo, con l’emergenza Coronavirus «Noi siamo di fronte alla potenza della natura»: niente di più falso, a mio avviso. A minacciarci non è la cieca potenza della natura ma la potenza disumana di questa società, della società capitalistica, la cui dimensione oggi è davvero mondiale. Nel 1970 il virus dell’influenza “spaziale” incubato a Hong Kong arrivò in Europa dopo 18 mesi (un italiano su quattro finì a letto), oggi la stessa distanza è coperta da germi e virus in pochissimi giorni, o addirittura in poche ore. Parlare di “globalizzazione” non rende l’idea di ciò che è successo nel mondo soprattutto negli ultimi 50 anni, e d’altra parte la “globalizzazione” non è affatto un fenomeno recente, come dimostrano proprio le malattie epidemiche che hanno segnato l’umanità negli ultimi tremila anni: dalla lebbra alla peste bubbonica, dal vaiolo alla poliomelite epidemica, dalla cosiddetta influenza spagnola all’Aids, per tacere delle ultime crisi epidemiche tipo la Sars-Cov del 2003. Storicamente parlando, non c’è niente di più sociale delle malattie epidemiche, le quali accompagnano l’uomo dal 10.000/9.000 a.C., da quando cioè le comunità umane incominciarono ad addomesticare piante e animali.

Scrive la virologa Ilaria Capua:«Covid 19 è figlio del traffico aereo ma non solo: le megalopoli che invadono territori e devastano ecosistemi creando situazioni di grande disequilibrio nel rapporto uomo-animale. La differenza con i virus del passato, conosciuti o sconosciuti (quelli che circolavano nell’ era pre-microbiologica) è la velocità della diffusione e del contagio. […] Stiamo assistendo a un fenomeno epocale, la fuoriuscita di un virus pandemico dal suo habitat silvestre e la sua diffusione globale che diventa un’onda inarrestabile, invade le nostre vite, le nostre case e i nostri affetti. È questo il Cigno nero che scuoterà violentemente il sistema? Lo vedremo» (Il Corriere della Sera). Lo scopriremo solo vivendo, se il Virus vuole…

Se il capitalismo “globalizzato” e ad altissima composizione tecno-scientifica del XXI secolo rende possibile la nascita di un focolaio infettivo e la diffusione delle malattie a esso associate, ciò non si spiega con la potenza della natura, o con la fatalità, oppure con l’imperfezione umana («Non possiamo eliminare l’errore e l’imprevedibile dalla nostra vita!»); ciò si spiega invece con la natura altamente contraddittoria della società capitalistica, che può spendere miliardi di dollari per mandare una macchina “intelligente” fino ai confini estremi del nostro sistema solare, mentre spesso trova razionale economizzare, ad esempio, sulla spesa sanitaria o sull’istruzione. La stessa Cina, patria, a quanto pare, del Covid-19, rappresenta la “madre” di tutte le contraddizioni capitalistiche: a centri urbani modernissimi, che si situano al vertice della civiltà capitalistica mondiale, fanno da contrappunto enormi sacche di arretratezza sociale, con ciò che ne segue anche dal punto di vista igienico-sanitario.

Non c’è magagna nella nostra società che non abbia una conseguenza economica più o meno immediata, che non debba fare i conti, presto o tardi, con la sostenibilità economico-finanziaria delle imprese e degli Stati, con tutto ciò che ne segue in termini di “costi sociali” – precarietà, povertà, paure, cessione di “sovranità esistenziale”, ecc. La possibilità della catastrofe economica non fa meno paura della catastrofe sanitaria che potrebbe provocarla, e per evitare la prima i governi di tutto il mondo cercheranno di scongiurare il collasso sanitario dispiegando mezzi finanziari e imponendo pratiche di controllo sociale eccezionali. Scrive Giuliano Ferrara: «Bisogna che i compatrioti si decidano a obbedire all’autorità, al governo, quando gira come un pipistrello un virus di cui non si conoscono l’origine, la natura, il comportamento, la cura. Affidiamoci per una volta ai pieni poteri. Compresi quelli di Giuseppe Conte [probabilmente qui Ferrara “percula” l’odiato Matteo Salvini]» (Il Foglio). Un invito che personalmente intendo lasciare cadere sulla cacca, con rispetto parlando: l’ondata di solidarietà nazionale antivirale che sta investendo il Paese mi dà il voltastomaco. La guerra contro il Coronavirus è un saggio di quello che ci potrebbe accadere in caso di altre e ben più bellicose emergenze. D’altra parte l’Italia repubblicana ha vissuto altre emergenze nazionali, come ai tempi della crisi energetica dei primi anni Settanta e del terrorismo; allora chi non si piegava all’imperativo categorico dei sacrifici e non solidarizzava con il regime “partitocratico” (centrato sull’asse DC-PCI) finiva automaticamente nella rubrica dei disfattisti e dei fiancheggiatori del terrorismo.

È proprio nei casi eccezionali, quando il Moloch sociale è costretto a mostrare la sua autentica faccia, che l’anticapitalista sente il bisogno di confermare la propria radicale inimicizia nei confronti di una società che espone gli individui a ogni sorta di pericolo, mettendone non di rado a repentaglio la stessa nuda vita. Il mio nemico non è il virus, ma il sistema sociale che mi ha esposto a esso. (Per Moloch intendo il potere sociale capitalistico considerato nella sua complessa e altamente contraddittoria totalità – ossia come esso viene fuori dalle pratiche economiche, scientifiche, tecnologiche, politiche, culturali, ideologiche). Scrivevo su un post del 2013 (Il cigno nero, il cigno rosso): «Sulla base del capitalismo un Cigno Nero, per mutuare Nassim Nicholas Taleb, ossia un evento del tutto inaspettato ma incubato silenziosamente per parecchio tempo e razionalizzato solo post festum, è sempre possibile». E questo non perché «l’improbabile governa la nostra vita», sempre per citare Taleb, ma perché noi non controlliamo il mondo che pure creiamo tutti i giorni, sempre di nuovo, e non riusciamo a farlo a causa dei rapporti sociali (di dominio e di sfruttamento, dell’uomo e della natura) che informano, più o meno direttamente e intimamente, le nostre diverse pratiche sociali. Occorre dare un volto a ciò che chiamiamo improbabile solo perché ci sfugge la natura di ciò che ci minaccia e ci inquieta.

Io non coltivo affatto l’utopia infantile della “società a rischio zero”; penso piuttosto che sia possibile organizzare una Comunità basata esclusivamente sul benessere e sulla felicità degli individui, cosa che nega in radice i vigenti rapporti sociali centrati sul Capitale nelle sue diverse determinazioni: denaro, merce, tecnologie, scienza, lavoro salariato. «Denaro, merce, lavoro salariato. Queste formule portano segnate in fronte la loro appartenenza a una formazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini e l’uomo non padroneggia ancora il processo produttivo» (K. Marx). Una Comunità che fosse autenticamente umana, umanizzerebbe anche la nostra relazione con la natura, con ciò che ne seguirebbe anche in termini di malattie e di “disastri naturali”. Già i filosofi europei del XVIII secolo (soprattutto Rousseau e Kant) misero in luce il fondamento umano della cosiddetta catastrofe naturale: gli uomini, ad esempio, non avrebbero dovuto costruire abitazioni in luoghi continuamente soggetti ai terremoti (vedi la Lisbona del 1755), e comunque non avrebbero dovuto costruirle così alte, né in così grande quantità e in uno spazio così ristretto. L’uomo aveva moltiplicato per mille le conseguenze di un fenomeno naturale.

«Manifestazione e ostentazione di potenza politica e tecnologica, la Grande Esposizione londinese del 1851 fu anche occasione per dichiarazioni universalistiche e filantropiche. Furono pronunciate dichiarazioni sulla “solidarietà” tra “tutte le nazioni della Terra” e sulla “unificazione di tutta l’umanità”» (*). Unificazione di tutta l’umanità sotto il tallone di ferro dei rapporti sociali capitalistici. Dopo 169 anni, e svariati massacri mondiali e regionali, la stessa idea di Progresso ci dovrebbe apparire come un insulto alla nostra intelligenza, ma purtroppo non è così, anche se nel frattempo le nostre aspettative “progressiste” si sono di molto ridimensionate. Eccoci dunque ancora appesi come bambini alle decisioni di chi governa (naturalmente per il nostro bene!) le nostre esistenze: politici, scienziati, esperti.

Scriveva Giorgio Agamben qualche giorno fa sul Manifesto: «Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo». Come sto cercando di spiegare nei post dedicati all’attuale crisi sociale, il problema è molto più grave e radicale di come lo prospetta Agamben, proprio perché esso investe direttamente le stesse relazioni sociali (capitalistiche) che determinano, “in ultima analisi”, le nostre pratiche, le nostre idee, il nostro modo di concepire i rapporti con il prossimo, la nostra sfera affettiva e psicologica, la nostra stessa nuda vita. Criticare «lo stato di eccezione come paradigma normale di governo», senza mettere in questione la società capitalistica in quanto tale, al di là degli assetti politico-istituzionale contingenti che ci governano, e anzi perorare la causa di un «ritorno alla Costituzione» (capitalistica, o borghese che dir si voglia), significa non aver afferrato concettualmente la radicalità del Male che ci espone, impotenti, a ogni genere di offesa.


(*) U. Fabietti, AA. VV., Alle origini dell’antropologia, Introduzione, p. 13, Boringhieri, 1980.

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