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lacausadellecose

Lettera a una virologa

di Michele Castaldo

Carissima Ilaria,

ero poco più che ventenne quando sentii parlare del libro di don Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa, identificandomi immediatamente con i ragazzi della scuola di Barbiana per motivi che non sto in questa sede a descrivere. Scusami per il tu confidenziale, ma mi agevola nella scrittura.

Che c’entra una professoressa degli anni ’70 con una virologa dell’inizio del terzo millennio, si chiederà il lettore. C’entra, eccome se c’entra!

Ti ascolto e ti leggo volentieri, anche se spesso sei costretta a nascondere qualche verità spiacevole fra le parole, ma riesci comunque a porre le questioni in modo da far riflettere. Il tuo sorriso tende ad addolcire i pugni nello stomaco in una fase molto complicata per l’umanità.

In queste poche note intendo commentare due tuoi ultimi scritti per il Corriere della sera del 3 e del 19 agosto, perché degni di attenzione, perché un bravo analista si misura dalle previsioni e dalle proiezioni, e in base ad alcune cose che hai scritto hai dimostrato di essere all’altezza.

Tralascio quello che non serve per focalizzare i punti salienti. Scrivevi il 3/8: «La paura di un colpo di coda è palpabile al Nord e viene ridicolizzato altrove. Un gioco molto pericoloso». Alla luce di quanto sta accadendo in questi ultimi giorni ti va dato merito di averci messo correttamente in allarme. Ma l’uomo come specie è cretino e come mia nipote si affanna a dirmi che vuole credere in Dio, così le persone, in modo particolare delle nuove generazioni vogliono credere che il virus abbia rallentato la corsa, abbia perso di virulenza, sia meno pericoloso oppure che colpisce gli anziani e i malati cronici. Salvo poi scoprire che l’età media dei nuovi contagi si è abbassata di molto, «Ma tanto, che me frega, mica so Pasquale», diceva Totò in una divertentissima scenetta televisiva.

Scrivevi ancora nello stesso articolo:«Permettere al coronavirus di espandersi in maniera incontrollata sarebbe un nuovo triplo spreco. Si perderebbero vite di pazienti e operatori nel contempo bruciando anni di salute. Mi riferisco ai cosiddetti strascichi o alle complicazioni da Covid-19 che scopriremo nel tempo. Ma dobbiamo agire in maniera intelligente per evitare ospedalizzazioni anche perché hanno un costo». E la lingua batte anche dove il dente duole, ovvero le cause economiche di questa pandemia.

Fin qui, cara Ilaria, nulla di trascendentale: qualche giusta previsione, qualche plausibile preoccupazione, qualche seria raccomandazione. Come si sarebbe comportato un buon medico di famiglia di un tempo.

Diversamente dall’articolo del 3/8, in quello del 19/8 rompi gli argini e ti inoltri su un terreno più complessivo, sul quale richiami l’attenzione del lettore a riflettere. Un contributo dove è necessario soffermarsi spogliandosi dei panni del ruolo che rivestiamo per affrontare di petto il problema, ovvero quello delle cause che hanno prodotto questo e altri virus. E qui c’entra eccome, la Lettera a una professoressa di don Milani, che cercava nelle cause della povertà e della emarginazione sociale la crescita degli “asini” scolastici.

Scrivi: «sappiamo che questa è una pandemia che amplifica le diseguaglianze e le rende ancora meno accettabili. Una pandemia che mette soprattutto in discussione il nostro rapporto con la natura che già era stato messo in crisi dal cambiamento climatico, dagli incendi, dagli allagamenti e dagli tsunami, senza contare i disastri nucleari e la perdita della biodiversità».

Qui scendi sul terreno, per così dire, politico, un terreno molto ostico per gli scienziati che sono chiamati a obbedire, purtroppo, alle leggi dell’economia. E quando si parla di economia non è più possibile camminare sul filo del rasoio, non è più possibile fare gli equilibristi: o si sta dentro o si sta fuori e contro.

Sicché fino alla denuncia generale sui cambiamenti climatici si può essere ospitati sul Corriere della sera, anche perché non è possibile nascondere l’evidenza, tutto l’establishment è consapevole delle cose che scrivi. Il punto vero è un altro, si tratta di affrontare non gli effetti, che rappresentano la constatazione dei fatti, ma le cause che hanno prodotto quegli effetti e che risiedono nello sviluppo intensivo di ogni tipo di produzione che provoca la devastazione del territorio unitamente alla devastazione degli altri animali abitanti questo pianeta. Altrimenti detto sul banco degli imputati c’è il modo di produzione che abbiamo chiamato a suo tempo capitalistico.

Il tuo allarme, in modo particolare riferito alle generazioni future, è monco quando scrivi: «Noi possiamo concentrare i nostri sforzi verso una riconversione sostenibile facendo un passo in più: un passettino che servirà ai nostri figli. Si sa, i giovani di oggi non accetterebbero mai delle violazioni al benessere animale o crimini ambientali su cui la nostra generazione ha nicchiato».

Perché monco? Ma perché il punto in questione non è cosa produrre, no, ma in che modo produrlo.

Qui non si tratta di essere comunisti per capire che quello che sta distruggendo l’insieme delle specie della natura è la produzione intensiva, ovvero la corsa al profitto che in virtù delle sue leggi non ha vincoli e calpesta le più elementari leggi di sopravvivenza di tutte le altre specie e con esse della specie umana.

Tu scrivi «I nostri figli […] Insomma, dovranno trovare delle soluzioni per arginare i danni che abbiamo fatto noi e i nostri predecessori, per esempio agli oceani, alla qualità dell’aria e alla madre terra che ci nutre». In che modo? Il punto è questo, altrimenti tutto ha il valore di niente. Mi rendo conto che non si può chiedere a una virologa di cambiare il mondo, ci mancherebbe, ma se non si affrontano le cause non si elimina il male. E purtroppo ancora oggi tutto ruota sugli aspetti minimi, necessari e indispensabili come le mascherine e il distanziamento individuale, quello sociale c’è ed è abbastanza ampio, mentre si spera di arrivare al vaccino. In questo modo non avremmo fatto altro che spostare in avanti, ingigantendolo, il problema e se non sarà questa pandemia a provocare la catastrofe definitiva siamo sulla buona strada perché nel giro di qualche decennio ciò accada.

D’altra parte David Quammen che ha scritto Spillover e L’albero intricato, non mi consta che militi in un partito bolscevico, ma è mosso da una straordinaria curiosità su un problema attualissimo di cui l’uomo non è in grado di venire a capo in un modo razionale e non fa altro che rincorrere la sua ombra, ovvero quello che impersonalmente e irresponsabilmente è capace di produrre.

Quando l’autore di questi due autentici capolavori descrive l’interlocuzione con uno scienziato in questo modo: «Fino a quando H5N1 è in giro per il mondo,» disse Webster, «c’è la potenzialità per un disastro. Ecco qual è il vero problema. Se è presente nella popolazione umana, è teoricamente possibile che acquisisca la capacità di trasmissione diretta». Fece una pausa. «E in quel caso, che Dio ce la mandi buona».

Si tratta di una dichiarazione di pochi anni prima dello scoppio della pandemia nel gennaio di quest’anno. Profeta di sventura Webster o è un mondo di imbecilli quello degli umani che non sono in grado di affrontare alla radice la questione, mettendo in discussione il modo di produrre?

Qual è il motivo di questa sorta di lettera aperta rivolta a una donna virologa che scrive continuamente su Covid-19 e rilascia interviste? Quello di fare lo sforzo, vista la forza di attrazione che hanno i tuoi argomenti, di spostare l’attenzione sulle cause che stanno producendo i virus; se lo fa un Quammen lo puoi fare anche tu, almeno non ti rendi complice di un colpevole silenzio. Ne hai autorevolezza, usala!

 

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