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lafionda

Mollare gli ormeggi o restare nicchia

di Matteo Bortolon

Le elezioni regionali sono andate piuttosto male per la sinistra radicale.

Per la situazione della Toscana la lista Toscana a SInistra non ha raggiunto il quorum; il risultato piuttosto lusinghiero del 2015 (un 6,21% che ha permesso l’entrata di due consiglieri) non è stato replicato, ma ha visto un più modesto 2,86%.

Fra le liste di analogo colore politico, quella toscana è stata l’unica alla scorsa tornata a riuscire a sfondare il quorum. Stavolta nessuna ce l’ha fatta, anche con risultati peggiori.

Se lo scarso appeal elettorale di tali forze non è certo una novità, è più interessante seguire un dibattito in merito sulle ragioni post-voto per vedere di trarne qualche spunto per il nostro futuro.

Ci riferiamo all’articolo di Tomaso Montanari e la piccata replica di Antonio Floridia .

Entrambi personaggi di rilievo: il primo celebre storico dell’arte molto vicino alle istanze delle sinistre radicali; il secondo politologo di professione e direttore dell’Osservatorio elettorale della Regione Toscana, con una robusta militanza nella sinistra tradizionale.

 

Entrambi a loro modo ostili al PD (per non parlare della segreteria Renzi!); entrambi vicini ad una lista di sinistra: Toscana a Sinistra il primo, Sinistra civica ecologista – una lista di appoggio al candidato PD Eugenio Giani – il secondo.

Nessuna delle due liste (nemmeno quella “governista” di Floridia) è arrivata ad una percentuale di voti per poter eleggere qualche consigliere.

Il dissenso consiste nel fatto che Montanari sostiene che il candidato piddino ha vinto per una paura di una vittoria della destra fomentata ad arte da una campagna mediatica, portando molte persone a votare un programma liberista “turandosi il naso”.

Floridia risponde che non era un timore irragionevole, il rischio c’era ed è stato evitato.

Montanari tende a ricondurre al terrore della destra il fatto che la lista di Tommaso Fattori non ce l’abbia fatta; l’interlocutore risponde che la sinistra radicale si fa fuori benissimo da sola (cosa che l’altro ammette in qualche misura), ma il punto vero del contendere è che dà alla “paura della destra” una valenza positiva, nientemeno che “una reazione difensiva di alto valore civile e democratico” .

Lo si può considerare un tipico dialogo fra sinistra “radicale” e “moderata”: la prima accusa la seconda di votare forze che hanno ceduto oramai ai poteri dominanti, tradendo le proprie radici progressiste (mentre si dovrebbe votare la vera sinistra), la seconda risponde rinfacciando all’altra di “consegnare il paese alle destre” se non digerisce una collaborazione con altre forze di sinistra, sia pur moderate.

Sul livello comunicativo notiamo un problema: Montanari dice che “il programma di Giani è di destra”. Evidentemente Floridia non direbbe lo stesso, bensì parla di “campo di centro-sinistra”. Ora, lo scambio non riguarda quasi per nulla i contenuti concreti, mentre tali etichette sono continuamente evocate. Questo non è solo un problema di questo specifico scambio, ma ha una ampiezza molto più diffusa.

Da un lato “sinistra” diventa un termine fortemente connotato da contenuti ben precisi: forte ruolo del pubblico, difesa del lavoro, diritti, ecc.

Dall’altro diventa più sfumato, scivolando dalle politiche allo schieramento: “sinistra” è ciò che attiene alle forze che si oppongono alla destra.

È per questo che da una parte c’è più rigidità verso il Pd e le forze simili: non fanno le cose giuste, quindi non sono più meritevoli di tale denominazione: la vera sinistra è altrove.

Se invece si dà ai termini un significato relativo (sinistra rispetto a cosa?) è chiaro che allora votare una forza più moderata sarà non solo più accettabile, ma addirittura un dovere.

Così chiaramente le politiche concrete diventano meno significative, essendo date per scontate.

Il punto centrale è che la “bussola politica” delle maggioranza delle persone non segue i contenuti, ma la logica di schieramento. Per la quale una sinistra moderata, o persino corrotta o pervertita sarà meglio di qualsiasi destra.

Il Pd agli occhi degli elettori che si autopercepiscono come “popolo di sinistra” con tutti i vari attributi (apprezzamento dell’antifascismo, progressismo nei costumi sociali, laicità) sarà più votabile di Lega, di Fratelli d’Italia, di Casapound e simili; quindi perché non accodarsi ad esso illudendosi di “portare dei contenuti più radicali”?

La critica di Montanari non funziona politicamente perché potrà anche essere confermata dai fatti – e come negare la sua verità? – MA verrà sempre soverchiata da tale dualità di carattere valoriale, che è l’unico livello largamente accessibile a più vasti strati popolari.

L’analisi di Daniela Chironi sulla sconfitta si avvicina al punto, quando scrive: “abbiamo utilizzato un argomento che non ha convinto il nostro elettorato. Si tratta della tesi delle due destre, secondo la quale centrosinistra e centrodestra sarebbero tanto simili da essere sovrapponibili. Questa similitudine è effettiva se si guardano i programmi e le politiche pubbliche, ma rimangono delle differenze percepite come importanti se si guarda invece […] al discorso pubblico e all’immaginario proposti dai due schieramenti”.

Ma perché dunque non ha convinto? Anzi, non solo non ha strappato voti alla sinistra che “è un po’ di destra” ma gliene ha ceduti, come la stessa Daniela ricorda nel suo intervento (“Secondo l’analisi dei flussi di voto fatta dal Consorzio Opinio Italia, il 58% dei voti che abbiamo perso rispetto al 2015 è andato, attraverso il cosiddetto voto utile, a una delle forze del centrosinistra nel 2020. La frammentazione ha fatto il resto: un altro 39% dei nostri voti persi è andato ai partiti comunisti”), che pare coerente coi flussi individuati da Demopolis in relazione ai voti presi da Giani:

bortolonNicchia

Nello stesso intervento troviamo l’argomento asserito da Montanari: la strategia comunicativa del Pd di terrorizzare con la possibile vittoria della Lega. Ma una strategia si deve basare su elementi di realtà già presenti, amplificando emozioni già esistenti.

Affermare che sinistra e destra siano solo etichette prive di collegamento con la realtà può parere un assunto estremo. Eppure la maggioranza avrebbe forti difficoltà a descrivere le politiche fattualmente poste in atto che giustificano il loro sostegno ad uno degli schieramenti, salvo rifugiarsi in precedenti storici (la Resistenza, Berlinguer) troppo remoti.

Anzi quando le politiche si mostrano di segno inverso, ciò non spinge a defezioni di massa; troppo numeroso è il corteo di politiche antipopolari e filo-padronali del PD (forse il più evidente il Jobs Act di Renzi) per non dubitare che guardando ai contenuti il partito avrebbe dovuto precipitare a percentuali da prefisso telefonico; invece una robusta flessione con flussi verso il M5S e l’astensione è stata recuperata. È evidente che ci muoviamo sul terreno pre-razionale o irrazionale. Non contenuti e ragione, ma emotività.

La sinistra radicale non contesta tali categorie destra-sinistra ma si limita ad avocare la primogenitura del secondo membro, cercando di fare della propria maggiore coerenza sui contenuti il traino della propria spinta politica. Anzi, per quanto ha potuto fare (in realtà non molto) per lo più ha contribuito a stigmatizzare chiunque tentasse di portare avanti un discorso che scalfisse ritenendolo in sé un sintomo di qualunquismo, populismo e simili, lottando per lasciare intatte quelle stesse categorie che la condannano quasi certamente all’estinzione. Si vede come muoversi in autonomia, senza l’accesso ai media e alla visibilità conferite da alleanze con forze di sistema sia davvero molto difficile. Né appare promettente rifugiarsi nei simboli e nel frasario della tradizione socialista (“bisogna mettere falce e martello sulla scheda”), evocando una purezza ideologica che appare piuttosto retrò.

Chiaramente esistono altri problemi, alcuni enucleati nell’intervento di Daniela Chironi sopra citato, più contingenti, di carattere organizzativo, ma anche se gli sforzi enormi degli attivisti fossero coronati da successo consentendo lo sfondamento del quorum, anche per un contesto favorevole (che oggi non c’è ma un domani potrebbe ricrearsi,) è quasi certo che riuscirebbero appena a superare il pelo dell’acqua per respirare, piazzando qualche suo esponente nelle istituzioni ma restando assai lontani dal consenso necessario per dare una direzione alternativa ad esse.

Un obbiettivo da non disdegnare (anche per dare sponda e visibilità alle lotte e allo scontento suscitati dall’acutizzarsi delle dinamiche dominanti) ma insufficiente per attuare trasformazioni profonde e radicali.

È proprio lo schema destra-sinistra che tende a polarizzare il paese e a compattare le persone sotto l’ombrello di una identità non fondata sui contenuti, ma sull’immaginario e sul discorso pubblico, condannando anche le forze radicali a confrontarsi coi fuochi fatui di etichette slegate dalla prassi reale.

Purtroppo le speranze di cambiare fattori emotivi così saldamente radicati in tempi brevi non sono realistiche. Ma senza mollare gli ormeggi e senza inoltrarsi in acque incognite, costruendo nuove categorie in grado di radiografare le dinamiche reali e di fondare una azione politica coerente coi bisogni sociali più diffusi non si vedono orizzonti oltre a scegliere fra le diverse declinazioni (progressista o identitario) del solito modello antidemocratico, antiambientale ed antilavorista.

 

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