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kriticaeconomica

La risoluzione UE contro i tirocini gratuiti è solo l’ennesima promessa

di Davide Curcuruto

È di pochi giorni fa una notizia che per alcuni sarebbe quasi rivoluzionaria: il Parlamento europeo ha votato a larga maggioranza una risoluzione per cui i tirocini e gli stage non retribuiti dovrebbero essere vietati dai paesi membri. Questa conquista sarebbe il frutto della crescente disoccupazione giovanile accentuata dalla pandemia (dal 14,9% pre-crisi al 17,6% di agosto 2020) e di un lento lavoro di mediazione fra i Socialisti&Democratici (sostenuti da Verdi e GUE/Sinistra nordica) e i Popolari (con liberali e Conservatori), per i quali sembra quasi che ogni minima regolazione dell’economia possa portare a una prospettiva apocalittica di collettivizzazione. Dopo mesi di mediazione, abbiamo una risoluzione non vincolante che dovrebbe fungere da messaggio politico dell’UE agli stati membri: un po’ come la risoluzione sui diritti delle minoranze, che non ha impedito alla Polonia di costruire per mesi e mesi “zone LGBT Free”.

L’incoerenza dell’Unione Europea diventa evidente una volta che si accede al sito del Comitato Europeo Economico e Sociale, che offre “tirocini brevi” da 1 a 3 mesi dichiaratamente unpaid.

Solo questo basterebbe a non farsi lasciare trascinare da facili entusiasmi per decisioni che altro non sono se non slogan o promesse di miglioramento, collocate in un futuro non meglio specificato. Ma è esattamente sul funzionamento della promessa che si basa la precarizzazione del lavoro, fino ad arrivare alla cosiddetta “schiavitù volontaria” che questa risoluzione dichiara di voler combattere.

Due sono gli strumenti per la precarizzazione e l’abbattimento del costo del lavoro nelle politiche neoliberali: coazione e promessa. La coazione all’abbassamento dei costi è ottenuta attraverso il workfare come illustrato in un precedente nostro articolo: il sussidio per i disoccupati di breve e lungo periodo viene ancorato all’obbligo di prestare lavoro, in qualsiasi forma venga esso somministrato dal Centro per l’impiego. Questo significa che, come avviene in Germania, le aziende si rivolgono ai Centri per i lavori per cui non riescono a trovare prestatori reali nel mercato ad un costo mediato dal sistema stesso: il lavoratore non può che accettare, pena la perdita del sussidio.

Questo è quello che è successo nel supermercato dove lavoravo come minijobber a Berlino, che era a corto di personale durante i primi mesi di pandemia. Dopo aver assunto la massa di studenti europei precari con i contratti a tutela minima, si è passati al lavoro somministrato delle Arbeitsfirmen (lett. industrie del lavoro) che ha dato in concessione lavoratori – tutti extracomunitari – che percepivano per quelle ore una retribuzione inferiore al salario minimo, accettato per poter aver il permesso di soggiorno. Da un lato la promessa di un lavoro, per pagarsi gli studi nella speranza di un futuro migliore; dall’altra quella di una cittadinanza che forse, un giorno, accumulando anni e anni di sfruttamento, arriverà. Il meccanismo della promessa, che legittima diversi gradi di sfruttamento in diversi gradi della gerarchia sociale, si ripete ancora e ancora.

L’economia della promessa vera e propria, invece, si riferisce perlopiù al lavoro editoriale e intellettuale ove il lavoratore “in formazione” produce valore senza ricevere compenso alcuno: questo è il caso dei tirocini e degli stage. A legittimare tale struttura di prestazione del lavoro vi è un impianto discorsivo e ideologico che dipinge un futuro “altro”: la visibilità, l’importanza della rivista o dell’istituzione presso cui si sta letteralmente lavorando gratis è il compenso legittimo, se e quando tale futuro arriverà non è dato saperlo.

Non vi è certezza, ma la suggestione di una certezza, che trova linfa vitale nella precarietà esistenziale in cui il soggetto-lavoratore è oggi immerso. La sociologia dei generi tedesca (si guardi Femina Politica, 2017) utilizza il concetto di “tecnologie affettive del potere” per spiegare l’accettazione di pratiche di dominio da parte delle minoranze marginalizzate: le promesse di felicità, sicurezza e soprattutto appartenenza al contesto ne sarebbero il motore, su un piano tutto emozionale e non razionale. Il lavoro gratuito funziona in modo abbastanza simile: la felicità della ricchezza futura, la sicurezza di una posizione e l’appartenenza ad un’idea di lavoro sempre più sfumata portano il soggetto ad accettare condizioni inaccettabili. D’altro canto, la psicanalisi ci insegna che può esistere un desiderio che muove il soggetto, solo se l’oggetto di tale desiderio sfugge: l’economia della promessa si basa sull’idea di un godimento futuro che si fa oggetto di un desiderio costantemente rinnovato dall’indeterminatezza.

Potremmo inoltre leggere questa risoluzione come specchio dello scontro interno al campo neoliberale: da un lato la promessa pura – il lavoro non retribuito in sé – legittimata dall’idea della competitività diffusa propria del neoliberalismo anglosassone; dall’altro la dis-retribuzione “controllata” dell’ordoliberalismo tedesco – orizzonte politico prevalente nella UE post-Brexit – che lega l’abbassamento dei costi del lavoro a delle protezioni sociali minime. Queste ultime renderebbero il sistema socialmente sostenibile, senza intaccarne il funzionamento centrale basato sullo sfruttamento, anzi, fornendo una cornice legale al lavoro nero: il contratto base dei minijobs in Germania, che non prevede nemmeno l’assicurazione sanitaria per le malattie non professionali, ne è un esempio.

Entrambe le visioni hanno il medesimo obiettivo, ma agiscono in modo diverso. Nella prospettiva tedesca, la protezione sociale rimane su un mero piano simbolico: da un lato giuridicamente e politicamente insufficiente, dall’altro ulteriore, fallace promessa di stabilità, smentita dall’andamento di un’economia reale in cui la ricchezza è concentrata sempre più in poche mani e la disoccupazione cresce. Un programma contro la precarietà dovrebbe porre non soltanto dei limiti, reali, al lavoro gratuito, ma scardinare l’intero sistema di precarizzazione. Il che significa sostituzione dell’attuale workfare con nuovi sistemi, orientati alla ridistribuzione della ricchezza; istituzione di un salario minimo dignitoso; lotta all’abuso della flessibilizzazione e al dumping salariale. Questi sono gli elementi di una lotta sistemica a favore di tutti i lavoratori e lavoratrici, in grado di produrre reali cambiamenti nella nostra quotidianità. Il resto è, ancora, solo una promessa.

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