Print Friendly, PDF & Email

carlo formenti facebook

Sull'entusiasmo eccessivo per l'esito elettorale americano

di Carlo Formenti

Qualche prima riflessione sugli eventi d’Oltreoceano. In particolare, sulla straripante euforia con cui la vittoria di Biden viene accolta dall’establishment (politici, media, intellettuali ecc.) europeo e nostrano ma anche dalle sinistre radicali e, d‘altro lato, sulla delusione che certi ambienti della sinistra sovranista manifestano per la sconfitta di Trump. Parto da un’intervista a Radio Uno, nel corso della quale un redattore americanista della rivista “Limes” ha gelato gli entusiasmi dell’intervistatore in merito ai radicali cambiamenti che il cambio della guardia alla Casa Bianca si presume potrebbe determinare nella politica estera Usa: ha decidere quest’ultima, ha ricordato, non sono notoriamente i presidenti bensì il deep state americano, perciò, ad eccezione del rientro degli Stati Uniti negli accordi internazionali sui cambiamenti climatici e di una probabile, ma non scontata, ripresa delle trattative con l’Iran, ben poco cambierà. La tensione con la Russia, ma soprattutto quella con la Cina, non diminuiranno, le interferenze negli affari interni dei Paesi latinoamericani socialisti o governati a sinistra non cesseranno, e anzi potrebbero farsi più pesanti in nome della “difesa della democrazia”, tornerà l’interventismo (con le stesse motivazioni ideologiche) in Medio Oriente e, dulcis in fundo, non è affatto detto che i rapporti con la Ue (al netto dell’assunzione di toni più soft) migliorino perché, ha spiegato l’intervistato, gli Stati Uniti non possono né potranno mai tollerare che un’Europa a guida tedesca si rafforzi oltre certi limiti.

Aggiungo che non meno illusorie appaiono le aspettative di un ritorno della globalizzazione alla fase precedente alla crisi in corso: come osservava un paio d’anni fa l’ex vicepresidente boliviano Linera, Trump non ha decretato la fine della globalizzazione e il ritorno al protezionismo, si è limitato a prendere atto di un processo già in corso da tempo, provocato dall’esplodere delle contraddizioni interne al sistema mondo.

Veniamo agli affari interni. Il senso di liberazione con cui ampi settori del popolo americano stanno celebrando la fine della presidenza Trump è comprensibile, ma anche in questo caso le speranze di cambiamento appaiono eccessive. L’unica vera novità (certamente da non sottovalutare) sarà che finalmente si tenterà di prendere sul serio e di combattere efficacemente la pandemia, ponendo fine ai deliri negazionisti. Ma si invertirà la tendenza all’aumento esponenziale delle disuguaglianze? Si farà una riforma radicale del servizio sanitario? Verrà garantito a tutti l’accesso ai livelli di istruzione superiore? Si tornerà a tassare a livelli decenti - cioè al doppio di quelli attuali – le multinazionali? E ancora: a parte le condanne ideologiche nei confronti del razzismo (che risuonano da decenni senza produrre alcun esito concreto), pensate che cesseranno i casi dei poliziotti che assassinano a freddo cittadini di colore senza pagarne le conseguenze? Assolutamente no, perché, come nota con soddisfazione Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di oggi, Biden è esponente del centro (o meglio del centrodestra!) democratico e, anche se ha dovuto fare concessioni formali alle istanze di Sanders e della Warren per ottenere i voti della sinistra, potrà sfruttare i vincoli impostigli dall’opposizione repubblicana (che continua controllare il Senato e passerà all’incasso in cambio del mancato appoggio al rifiuto di Trump di accettare il risultato elettorale) per continuare a servire fedelmente gli interessi del grande capitale in patria e nel mondo.

Non cambierà nulla insomma? No, cambierà la NARRAZIONE. Per il sistema americano Trump era intollerabile non a causa delle sue scelte di politica economica o di politica estera, bensì per la sua scorrettezza politica (le sparate sessiste, razziste, omofobe, ecc.), per l’appoggio alle milizie suprematiste bianche armate fino ai denti, per la totale assenza di bon ton nelle relazioni diplomatiche, per il cinismo con cui celebrava i meriti dei super ricchi (dopo aver condotto una campagna elettorale in cui rilanciava demagogicamente le parole d’ordine di Sanders contro i baroni di Wall Street), per le assurdità negazioniste snocciolate in un Paese devastato dalla pandemia, per gli insulti alla stampa e agli avversari politici e via di questo passo. In un momento storico in cui le tensioni e le contraddizioni del mondo neoliberale raggiungono livelli intollerabili per centinaia di milioni di persone, la narrazione svolge un ruolo strategico per legittimare l’esistente come il migliore dei mondi possibili e per demonizzare qualsiasi alternativa (soprattutto se in odore di socialismo o anche solo di “statalismo”). Invece Trump gridava senza ritegno che il re era nudo, e ribadiva che il re era lui e non si vergognava affatto di essere nudo e anzi esibiva orgogliosamente il suo fallo contro tutto e tutti. Con Biden si torna alla normalità: torna il linguaggio politicamente corretto, si parlerà di pace e democrazia mentre si bombarderanno o si affameranno con le sanzioni e i blocchi economici gli “stati canaglia”, si parlerà di ambiente mentre si inquinerà impunemente, si parlerà di uguaglianza mentre milioni di persone continueranno a impoverirsi. Si parlerà soprattutto tanto (e a sproposito) di democrazia, così il mondo occidentale potrà di nuovo incensare e elevare a modello di democrazia un sistema politico che di democratico non ha nulla (più della metà degli eletti appartengono all’1% dei super ricchi perché per affrontare una campagna elettorale occorrono mezzi enormi, e anche chi ricco non è deve rispondere alle lobby che ne hanno finanziato la campagna, i sistemi elettorali sono macchine complesse e scarsamente trasparenti esposte a infinite possibilità di manipolazione). A dimostrarlo concorrono anche le modalità con cui Trump viene “fired” (licenziato), con i media che gli negano la parola, le istituzioni (anche quelle controllate dal suo partito) che lo scaricano senza scrupoli, la borsa che celebra la sua dipartita con festosi rialzi, tanto per ribadire che a comandare veramente, in quella “grande democrazia”, sono sempre e solo i poteri forti.

E con questo veniamo ai nostalgici “di sinistra” di Trump. Quando fu eletto, quattro anni fa, ebbi modo di scrivere: 1) che a votare per lui erano stati i perdenti della globalizzazione, quelle classi americane subalterne (perlopiù bianche ma non solo) che si erano sentite abbandonate da una sinistra clintoniana che faceva gli interessi delle élite finanziarie e degli strati sociali medio alti, dei residenti dei centri metropolitani gentrificati, una massa di diseredati che scelse Trump in odio alla politically correctenss di una Clinton vista come nemico di classe; 2) che il suo sgangherato populismo di destra aveva potuto trionfare sia perché riprendeva demagogicamente alcune parole d’ordine del populismo socialista di Sanders, sia perché l’establishment democratico aveva liquidato con ogni mezzo possibile la possibilità che quest’ultimo vincesse le primarie, per cui il popolo della sinistra si rifiutò di andare alle urne per votare la Clinton. Ora è evidente che i dati elettorali confermano che quella polarizzazione di classe (con segno ideologico invertito rispetto alla tradizione) permane invariata (i voti per Trump sono stati 70 milioni, cinque in più della precedente elezione) e che a fare la differenza sono stati quegli aspetti intollerabili di Trump che nominavo poco sopra (in particolare le sue prese di posizione sulla pandemia e sulla violenza razziale contro i neri), aspetti che, questa volta, hanno convinto anche la riluttante sinistra sandersiana ad andare alle urne. Ma fra il prendere atto del persistere di questo perverso rovesciamento delle forme della rappresentanza ideologica degli interessi di classe, e il manifestare solidarietà nei confronti dell’uomo che viene oggi “licenziato” dal sistema di cui lui stesso rappresenta il volto più brutale, ce ne passa. Nel 1905 Lenin riconobbe che fu il pope Gapon a guidare l’insurrezione popolare di cui i socialisti non avevano saputo assumere la direzione, ma ciò non lo indusse a esaltare Gapon, che anzi denunciò come agente provocatore del regime. Certi svarioni si spiegano solo con il fatto che, in assenza della capacità di svolgere un ruolo politicamente attivo, c’è chi si lascia sedurre dalla logica secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, la sinistra democratica fa schifo quindi è meglio Trump. Ma così si perde di vista il nodo fondamentale: se due fazioni si scontrano nel campo del nemico, non per questo cessano di essere entrambe nemiche, per cui non è il caso di schierarsi con l’una contro l’altra. Una cosa è sfruttare le contraddizioni nel campo avverso, altra è perdere di vista che vanno combattute entrambe. Altrimenti si rischia di legittimare alcune delle peggiori performance trumpiane, dal negazionismo sul covid19, al complottismo, alla propaganda anti cinese.

 

Add comment

Submit