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Culture e pratiche di sorveglianza digitale

Guy Van Stratten intervista Gioacchino Toni

Intervista a Gioacchino Toni, saggista e redattore della rivista “Carmilla online”, a proposito delle pratiche di sorveglianza digitale di cui si è recentemente occupato in alcuni scritti (gvs)

In una serie di tuoi scritti relativi alle pratiche di sorveglianza digitale usciti su “Carmilla on line”, hai insistito su come gli agenti principali di tali pratiche appartengano più all’ambito economico che politico.

Se ultimamente sull’onda delle misure restrittive relative alla pandemia si è guardato all’incremento del livello di controllo sugli individui e sulla collettività dispiegato dagli apparati statali, mi sembra che scarsa attenzione continui a essere riservata al ruolo svolto direttamente dell’ambito economico in termini di sorveglianza e indirizzo individuale e sociale. Colpisce che qualche ministro nostrano abbia parlato del Green Pass come della “più grande opera di digitalizzazione mai fatta” e colpisce ancor di più che tale affermazione sia stata presa per veritiera anche da ambiti conflittuali.

Basterebbe leggersi il volume Il capitalismo della sorveglianza (Luiss, 2019) di Shoshana Zuboff, che di certo non è un’estremista, riguardante l’universo “dentro gli schermi” ma anche il cosiddetto “Internet delle cose”, per rendersi conto che viviamo, già da qualche tempo, immersi in un sistema di sorveglianza digitale che ricorrendo a un immaginario orientato al conformismo ha saputo sfruttare al meglio la frenesia imposta dalla società della prestazione e della parcellizzazione dell’apprendimento. Stiamo parlando del più sofisticato strumento di monitoraggio e di predizione comportamentale mai visto all’opera nella storia e buona parte di tali pratiche di controllo e manipolazione sociale sono in possesso di aziende private che hanno ormai assunto il ruolo di vere e proprie nuove superpotenze. Altro che Green Pass di Stato come “più grande opera di digitalizzazione mai fatta”. In un quadro di tal genere diviene persino paradossale inveire sui blog o sui social contro le pratiche di sorveglianza, così come farlo in una piazza con uno smartphone in tasca o utilizzato direttamente per fare riprese da diffondere su quegli stessi social che sono parte integrante della macchina del controllo. Il paradosso è che così non solo non ci si sottrae ma si partecipa attivamente alla produzione di dati utili alla propria e altrui sorveglianza e mercificazione.

 

Visto che vi hai fatto riferimento, converrebbe soffermatasi su ciò che viene definito “Internet delle cose”.

Di “Internet of things” (IoT) ha parlato per la prima volta Kevin Ashton a cavallo del cambio di millennio riferendosi all’idea di connettere macchine al web in modo tale da permettere scambi d’informazioni tra macchine ed esseri umani. Laura DeNardis ha recentemente dedicato un libro, intitolato proprio Internet nelle cose (Luiss, 2021), allo stato di diffusione di quello che soltanto un paio di decenni fa sembrava un progetto un po’ fantascientifico. Ebbene, oggi, a distanza di un paio di decenni, vi sono più oggetti connessi digitalmente che persone e si tratta di un fenomeno in ulteriore e rapida espansione che non manca di comportare importanti ricadute non soltanto economiche ma anche a proposito dei diritti dell’individuo. Tornando alle riflessioni sulla sorveglianza di cui stiamo parlando, a insinuarsi nell’intimità degli individui non sono soltanto le sofisticate forme di controllo esercitate dalle piattaforme digitali di condivisione, ma anche i tanti oggetti di uso quotidiano progettati per poter raccogliere e condividere dati. Si pensi alla domotica, alle smart-city o alle automobili senza conducente, tanto per fare qualche esempio. In un tale contesto risulta sempre più difficile individuare un confine tra fisico e non fisico, tra online e offline: Internet sta diventando lo sfondo invisibile della vita quotidiana trasformando la connettività degli esseri umani da una modalità circoscritta all’uso degli schermi a una modalità diffusa nel quotidiano. Si è spesso online anche senza volerlo o saperlo. Viene da domandarsi se nel prossimo futuro esisterà ancora qualche aspetto privato della vita umana. E se tanti acritici tecno-entusiasti non mancano di rimarcare come la manipolazione diretta e connettiva del mondo fisico attuata attraverso Internet permetta un miglioramento della vita umana, conviene constatare come molti dei miglioramenti di cui parlano abbiano a che fare con i tempi e i fini imposti dalla società della prestazione, della mercificazione e del controllo. È per forza a queste triade che si deve far riferimento quando si parla di “qualità della vita”?

 

Con riferimento a Internet, si parla spesso di “servitù volontaria”, quasi a voler colpevolizzare gli individui.

In effetti si fa presto a dire che la forma assunta dai processi di digitalizzazione dell’esperienza umana abbia potuto prosperare grazie a una certa propensione alla “servitù volontaria” scambiata volentieri dagli individui con qualche “servizio” offerto dal web e dai social… ma la carenza di rapporti sociali fuori dagli schermi e la dipendenza dalla rete non possono che essere rapportate a trasformazioni di cui non si possono colpevolizzare gli individui. Molte relazioni sociali e civiche si sono dematerializzate anche perché le comunità e i rapporti sociali tradizionali sono stati scientemente fatti brillare da quel neoliberismo che ha fatto dell’individualismo più cinico e spietato il suo cavallo di battaglia e l’asservimento digitale non è che la logica conseguenza di quella ricerca spasmodica di nuovi ambiti di sfruttamento che coinvolgono anche gli aspetti più privati dell’individuo. Gli utenti delle tecnologie digitali sono diventati merci e macchine produttive, incessantemente al lavoro per produrre dati.

Tutto questo deve essere tenuto presente anche quando si afferma, giustamente, che la cultura della sorveglianza contemporanea si caratterizza, rispetto al passato, per una maggiore partecipazione attiva dell’individuo alla propria e all’altrui sorveglianza (si pensi all’esibizionismo/voyeurismo dei social) in cui si è tutti controllati e controllori allo stesso tempo. Dal tracciamento tramite GPS di smartphone di familiari al controllo tramite software della navigazione in internet dei figli o del partner, dal ricorso sempre più diffuso a telecamere di sorveglianza fino alla miriade di oggetti connessi a Internet, tutto contribuisce a rafforzare la convinzione che la sorveglianza sia parte integrante di uno stile di vita, un modo “naturale” con cui rapportarsi al mondo e agli altri. A differenza delle ansiogene forme di sorveglianza tradizionali, deputate alla sicurezza nazionale e alle attività di polizia, le nuove forme di sorveglianza hanno saputo rendersi desiderabili e farsi percepire come pratiche poco invasive, comportando così una maggior propensione alla complicità, inducendo ad accettare con estrema disinvoltura di farsi sorvegliati e sorveglianti.

 

In che termini l’ossessione per la trasparenza e la propensione all’esibizionismo sono riconducibili alla cultura della sorveglianza contemporanea?

Si tratta di questioni contraddittorie. Se la smania per la visibilità e l’ossessione per la trasparenza possono derivare da finalità nobili, come ad esempio rivendicare pubblicamente e con orgoglio condotte, culture e appartenenze indigeste al pensiero dominante, non di meno rispondono anche a un’urgenza dettata da un sistema che richiede pressantemente all’individuo di fornire e gestire un’immagine personale adeguata alle richieste sociali prestazionali e mercificate. In cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, sancito magari dall’ottenimento di tanti like, si è facilmente indotti a mostrarsi e condividersi in maniera omologata in modo da risultare graditi ai più. La cultura della sorveglianza contemporanea esige che organizzazioni e governi siano trasparenti, anche alla luce dell’attività di sorveglianza che questi svolgono nei confronti della popolazione, ma tende anche a concedere volontariamente maggiore trasparenza giudicando ciò inevitabile in un’epoca caratterizzata da un coinvolgimento mediatico collettivo. Se, in generale, la sorveglianza agisce per gestire, controllare e indirizzare la popolazione, il tipo di sorveglianza reciproca e orizzontale che si sta dispiegando – la cosiddetta “sorveglianza sociale” – produce autodisciplina: lo sguardo della sorveglianza tende dunque a essere interiorizzato agendo sulle pratiche degli appartenenti alla comunità coinvolta.

Sebbene gli esseri umani abbiano sempre tentato di valorizzare la propria immagine nei confronti degli altri, nell’era digitale tale esigenza sembrerebbe essersi resa sempre più impellente all’interno delle competitive società massificate e urbanizzate. Dagli individui viene avvertita l’urgenza di costruirsi identità valorizzanti; la tendenza all’esibizionismo sulla rete deriverebbe dunque dalla necessità dell’individuo contemporaneo di creare e gestire la propria identità tentando di catturare l’attenzione attraverso un adeguamento agli standard di rappresentazione sociale prevalenti nella società al fine di allestire il proprio sé, la propria soggettività in una realtà d’interesse pubblico. Non è dunque azzardato, a mio avviso, vedere in tale pratica di esposizione (anche) una pratica di auto/etero sorveglianza.


A questo link la serie completa Culture e pratiche della sorveglianza di Gioacchino Toni su “Carmilla on line”

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