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linterferenza

Memoria corta

di Ferdinando Pastore

Tutti ricorderanno le filippiche dei sapientoni che ammonivano le plebi sulla svolta europea. Il grande coraggio dimostrato dai venerati tecnici che improvvisamente scioglievano il loro cuore nello zucchero. Tutta quella immacolata retorica sull’epocale svolta che li esaltava a padri fondatori di un’era contrassegnata dalla giustizia. Il PNRR, con la sua resilienza dottrinaria, quel termine così pedagogico che impone all’essere umano predisposizioni caratteriali ottuse ma propositive, inclinazioni mansuete e pazienti, sguardi ottimisti nella penuria, era strumento equivalente al dono. Le condizionalità un’invenzione di strani topi impolverati dalla biblioteca virtuale, cavillosi complottisti che mal interpretavano il diritto di critica. Oppure di arnesi novecenteschi, sudati e ineleganti marxisti che ancora scartabellavano di salari, eguaglianza, investimenti pubblici o addirittura di classi sociali.

Ebbene oggi quel regalo presenta il conto. Approvare subito le Riforme; fisco e concorrenza. Essenziali. “Limitare la spesa per ridurre il debito”. Ma va? Insomma la nuova strada europea d’incanto sembra la copia carbone di quella vecchia.

Già sempre con lo stesso trucchetto. Sembrerebbe difatti che si stia parlando di accorgimenti tecnici, rarefatti dalla neutralità. Non di un programma ideologico, dettagliatamente normato da quella Costituzione economica che ritaglia la democrazia nel totalitarismo dei mercati. Nel consueto filosofeggiare a vantaggio dei ricchi.

Così la UE assolda i governi per l’economia di guerra senza l’economia di guerra. Ricorderete quegli indirizzi costituzionali sulla piena occupazione, sull’industria di Stato, sull’adeguamento dei salari. Tutta robaccia improponibile per le liberal-democrazie assolutiste. No. Liberalizzazioni. Risparmio competitivo. Attrazioni circensi per i capitali esteri. A questo servono i “competenti”. Oggi, come da tempo affermo, anche se in guerra, al fine di chiudere in senso totalitario la partita politica non servono divise mimetiche, ma blazers blu che cadono a pennello sui manichini senza volto della managerialità ideologica.

“Non sarebbe prudente finanziare le nuove misure di sostegno all’economia italiana con altri scostamenti di bilancio”. Così il Conte Gentiloni. Queste sciocchezze vengono ribadite fino allo spasimo da trent’anni e convincono per stanchezza. Per cementificare il buon senso comune arriveranno le inchieste sui furbetti del tesserino ministeriale, sulle magagne dei posti letto ospedalieri, sugli appalti agli amici degli amici, in una spirale auto-distruttiva che rianima di volta in volta il sistema del profitto privato. Efficienza, razionalità di mercato, culto d’impresa. Gli schermi pulluleranno di imprenditori moralisti, di vedette gastronomiche, tutti fatti rigorosamente da sé, che imprecheranno contro il Reddito di Cittadinanza, contro il salario minimo, che educheranno al coraggio di scegliere correttamente il proprio futuro. Che inneggeranno all’etica del lavoro sacrificale che non prevede corrispettivi.

In questo contesto i cosiddetti riformisti si coprono di ridicolo. Essere riformista ha un senso compiuto in epoche storiche conflittuali, quando insomma la democrazia concepisce e riconosce la legittimità della lotta. Quando i lavoratori organizzati possono incidere sull’indirizzo politico. Ma nell’era del merito affrancato dalle scuole di business il riformismo si trasforma in opaca resilienza. Un mezzo come un altro per avallare, con la coscienza pulita, le peggiori elucubrazioni reazionarie. Per poi rimanere di stucco, quando quei posti letto mancano per curare gli ammalati. E i medici diventano eroi.

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