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Logiche neoliberali e cambiamento climatico: perché la svolta inizia dal pensiero critico

di Fabrizio Venafro

In questi giorni di caldo infernale, specie nelle città, vere distese di lamiera e cemento surriscaldati, ci si sofferma troppo poco su quanto abbiamo causato al clima e a noi stessi. I picchi di 40 gradi previsti Bretagna e in Inghilterra dovrebbero far riflettere sulle conseguenze di un modello di sviluppo che ha mostrato tutti i propri limiti. Quando a inizio anni Settanta il Club di Roma pubblicava I limiti dello sviluppo, eravamo in tempo per porre rimedio a una catastrofe annunciata. Ora, forse, non solo abbiamo poco tempo ma quel poco tempo non ci servirà a tornare indietro. Secondo alcune previsioni degli scorsi anni, il punto di non ritorno è stato già superato. Gli alti livelli di CO2 in atmosfera continueranno a salire per anni a prescindere dai nostri comportamenti. Questo stato di eccezione richiederebbe una risposta altrettanto eccezionale, come è avvenuto in risposta alla pandemia da covid-19. Ma in quel caso era a rischio la capacità produttiva degli stati. Cosa che, con il cambiamento climatico, non si paventa per il momento. Per questo non si vede alcuna prospettiva idonea a invertire la rotta nelle agende dei potenti della Terra.

Le logiche neoliberali che sono prevalse negli ultimi quarant’anni, tra le altre conseguenze sociali, ambientali ed economiche, hanno prodotto anche un mutamento antropologico che ha sedimentato nelle convinzioni e nei comportamenti degli individui. Il termine resilienza, che viene ripetutamente citato come fosse una dote da sfruttare, non indica altro che un adattamento passivo a una situazione avversa non voluta. Ma che si rinuncia anche a mutare. Resilienza è l’esatto contrario di resistenza (https://www.lafionda.org/2022/05/12/contro-lideologia-della-resilienza/). Gli evangelisti del neoliberalismo parlavano della necessità di mutare un quadro sociale ed economico per renderlo adatto all’instaurazione di un’economia di mercato dove la concorrenza sfrenata fosse la regola suprema e universale di governo; la norma da seguire per raggiungere un certo grado di benessere. Fin dagli anni Trenta del Novecento, come hanno spiegato Pierre Dardot e Christian Laval (La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Derive Approdi, 2019) è stato preparato il terreno per quella svolta che sarebbe arrivata nei primi anni Settanta, grazie alla crisi politica ed economica dei regimi a capitalismo avanzato. La cosa paradossale è che alla crisi del capitalismo si sia risposto con un capitalismo più aggressivo anziché con meno capitalismo.

Gli stessi corifei del capitale sapevano bene che l’imposizione di un regime di questo tipo, che avrebbe sostituito la competizione spinta tra individui e stati alle logiche della solidarietà proprie del welfare state, non sarebbe stata accettata come un dato naturale. Perché costoro erano consapevoli del fatto che un’economia di mercato concorrenziale era tutt’altro che naturale. Per questo occorreva impiegare una mole di lavoro inusitato per convincere opinioni pubbliche e governi ad abbracciare questa transizione. Era necessario inoltre spingere gli individui ad adattarsi alla nuova situazione, a stimolarne la resilienza si direbbe oggi. Bisognava imporre una nuova etica che fosse caratteristica del nuovo spirito del capitalismo. L’importanza della battaglia ideologica è attestata dalle parole che von Mises spende nel suo scritto L’azione umana: «ciò che comunemente è chiamata rivoluzione industriale fu il risultato della rivoluzione ideologica determinata dalle dottrine degli economisti». Con il che intendeva che la teoria precede e determina la prassi e le idee innovative dovevano essere trasmesse alle masse, incapaci di pensare, da circoli chiusi di intellettuali. Lo stesso lavoro svolto da Milton Friedman e dalla Scuola di Chicago è stato determinante per la svolta determinata dal reaganismo negli anni Ottanta. La battaglia ideologica era tenuta in grande considerazione dai teorici neoliberali.

Il lavoro di propaganda svolto dai think tank del neoliberalismo ha prodotto modificazioni sostanziali sia nei comportamenti individuali che in quegli degli stati. Sotto il profilo individuale, è stata data vita alla figura del cittadino imprenditore o all’imprenditore di massa. Concetto che va ben oltre il cittadino consumatore auspicato da Victor Lebow negli anni Cinquanta. Attribuire la qualifica di imprenditore a ogni individuo costituisce un salto di qualità per l’instaurazione di una società di mercato concorrenziale. Ogni individuo è chiamato al calcolo razionale e considerato come portatore di capitale da valorizzare in qualsiasi ambito della vita umana, non solo quello lavorativo. La logica utilitaristica è associata a quella quantitativa dove ogni valore è tradotto in numeri. Gli individui sono chiamati a continue indagini di mercato per capire quali siano i prodotti più convenienti, le polizze assicurative migliori, le compagnie telefoniche più valide, le forniture di gas luce e acqua più economiche. Gran parte del tempo libero deve essere dedicato alla scelta di consumi più vantaggiosi. In questo modo la democrazia si realizza nel mercato e non più nell’agone politico. Non è un caso che si sia determinato questo stato di fatto. Le persone devono rispondere ad input ben determinati. Il pensiero libero è pericoloso nel momento in cui potrebbe mettere in discussione il sistema.L’unica libertà ammessa è quella di scelta tra diversi beni di consumo. Quello che non si può scegliere è di cambiare le regole del gioco o lo stesso gioco.

Come detto, le logiche di solidarietà non hanno più spazio in tale visione della società. Semmai alla solidarietà vengono sostituite la carità e l’assistenza verso gli ultimi, considerati perdenti per propria responsabilità o incapacità di calcolo razionale.

Sotto il profilo degli Stati sono state prodotte modificazioni altrettanto sostanziali. Non è del tutto esatto affermare che le logiche neoliberali hanno richiesto un arretramento del perimetro di intervento dello Stato. Questo è forse corretto in tema di imprese statali. Lo stato non può farsi imprenditore in quanto la sua azione non risponde a logiche d’impresa e quindi non dimostra la dovuta efficienza nel mercato. Ciononostante allo Stato è richiesto un intervento deciso, sebbene di natura diversa rispetto a quella imprenditoriale. Questi deve infatti mettere in piedi tutte le azioni e dispiegare tutti i suoi poteri disciplinari per realizzare una società di mercato concorrenziale e per modificare, attraverso incentivi e sanzioni, i comportamenti degli individui. Si tratta di tutt’altra cosa che arretrare dall’intervenire nella società. Si impiegano mezzi massicci per modificare la società. Dalla distribuzione di beni essenziali alla vita, come avveniva nel welfare state, si passa al fare appello alle capacità di calcolo dei soggetti e alla loro capacità di competere con gli altri per accedere a un certo livello di benessere. Ma cambiano anche i soggetti che controllano l’azione pubblica. Se un tempo erano i cittadini i referenti dell’azione politica e quindi i suoi giudici, ora sono soggetti privati come investitori istituzionali, agenzie di rating, detentori del debito pubblico che giudicano l’affidabilità degli stati a perseguire interessi privati. I ragionamenti sullo spread dei titoli di debito pubblico hanno preso il sopravvento su quelli che ponevano il focus sull’occupazione, la disuguaglianza, la salute o l’ambiente. Gli stati sono ormai imprese al servizio delle aziende private (Dardot-Laval).

A questo punto risulta più chiaro perché l’emergenza climatica abbia bisogno di un approccio diverso rispetto a quello prospettato dalle varie conferenze delle parti sul clima. Le quali sono state finora fallimentari nell’imporre un’agenda ai vari stati. All’emergenza serve una risposta emergenziale. Ma uno dei portati dell’impianto neoliberale è stato quello di far considerare il modello di sviluppo socio economico non un dato storico ma naturale. Un modello che, seppur non perfetto, non è emendabile o, peggio ancora, sostituibile. Il concetto di adattamento, ora declinato col termine resilienza, è un cavallo di battaglia dei teorici neoliberali. Prescrive l’adattamento all’ambiente da parte dell’individuo, senza alcuna possibilità, financo teorica, di cambiare il sistema. Declinato al cambiamento climatico, questo concetto è deflagrante, perché non pone alcun dubbio che il modello vada sostituito ma cerca accomodamenti per adattarvisi. Ma con la questione ambientale, il rischio è quello che corre la rana che, immersa nell’acqua tiepida e portata ad ebollizione gradualmente, bolle senza che se ne renda conto se non quando è troppo tardi.

La chimera tecnologica, ad esempio, risponde a questa logica per due motivi: perché è una chimera, appunto, che offre soluzioni anodine e perché dilaziona i tempi d’intervento lasciando sperare in una futura trovata tecnologica. Il mondo ha l’imperativo di decelerare, ma non solo non sta rallentando, sta addirittura accelerando. La scellerata guerra in Ucraina, con i corollari di importazione del gas in Europa con mezzi meno sostenibili ecologicamente, è un ulteriore esempio di come le cose vadano in direzione contraria rispetto a come dovrebbero andare. La scommessa è se invertire la direzione, oppure lasciare che degeneri sperando che, come la rana, bolliamo anestetizzati dai nostri comportamenti resilienti. Poiché gli stati rispondono ad altre logiche che quelle del bene collettivo, non possiamo pensare a soluzioni in tempi rapidi. Allora occorre forse prendere esempio dai teorici neoliberali e provare a mettere in piedi quel pensiero critico che provi a cambiare rotta, consapevoli che, come diceva Mises, la teoria anticipa e crea la prassi. E provare a ribaltare il sistema e riportare in agenda logiche solidali. Che sono le uniche utili in un mondo globalizzato, dove la concorrenza può far emergere alcuni ma condanna le moltitudini alla catastrofe. Il solo problema è che non abbiamo a disposizione i decenni che hanno avuto i Mises e i Friedman per cambiare la visione del mondo. Possiamo solo sperare che nuove idee e un nuovo pensiero critico si propaghino e prendano consenso con la velocità di un virus, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione. D’altra parte, non abbiamo nulla da perdere.

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