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volerelaluna

Siamo alla canna del gas: ma Putin, per ora, non c’entra

di Luigi Pandolfi

 

1.

Il prezzo fuori controllo del metano minaccia la tenuta del nostro sistema economico. C’è il rischio di chiusure a catena di attività economiche e della perdita di un numero elevatissimo di posti di lavoro. Con le famiglie a basso reddito costrette a scegliere tra mangiare e pagare le prossime bollette di luce e gas. Come si è arrivati a tanto? Come è stato possibile che il prezzo a megawattora di questa materia prima sia passato da venti a trecento euro in poco più di un anno? La colpa è di Putin che vuole ricattare l’Europa?

Prima di rispondere a queste domande, è utile premettere che, nelle condizioni attuali, la formazione del prezzo del gas naturale non ha niente a che vedere con la reale domanda e la reale offerta dello stesso. Il regime di scarsità, insomma, non è dato dall’interruzione – o da una pesante diminuzione – delle forniture da parte di Mosca, né da un’impennata “reale” della domanda, bensì dal trading (cioè l’acquisto e la vendita di titolo finanziari) su contratti derivati (cioè contratti a termine per la consegna di una determinata quantità di un certo sottostante a un prezzo e a una data prefissati) aventi il gas come “materia” sottostante.

Ma andiamo con ordine. La filiera del gas prevede sei stadi: l’approvvigionamento, il trasporto, lo stoccaggio, la vendita all’ingrosso, la distribuzione e la vendita al dettaglio. Nel nostro Paese, il 90% del gas consumato è di importazione (Russia, Algeria, Libia, GNL americano ecc.). La prima linea di faglia, per così dire, è quindi tra il prezzo di approvvigionamento e quello all’ingrosso e poi al dettaglio. Già a marzo, prima dei vertiginosi rincari degli ultimi giorni, il rapporto, dai dati Istat, era di 1 a 6. È questa la fonte dei cosiddetti extra-profitti delle imprese importatrici: l’utile di Eni nei primi sei mesi dell’anno è stato di 7,3 miliardi di euro, una crescita del 600% rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente. Ma come si spiega questa distanza tra prezzo di importazione e prezzi di mercato? Proprio con la natura del “mercato” di riferimento. In Europa, il prezzo del gas naturale si fa ad Amsterdam, presso il mercato virtuale TTF (Title Transfer Facility), istituito nel 2003 nell’ambito del mercato energetico dell’Unione europea. Su questa piazza, il gas scambiato realmente è però solo una parte. Una minima parte. Il resto sono scambi virtuali a mezzo di contratti future più e più volte negoziati. Solo una speculazione sul prezzo, insomma, senza alcuna consegna della materia prima alla scadenza del contratto. Niente di nuovo, a ben vedere. Soldi per fare soldi, a prescindere dai rapporti economici reali e dalla reale dimensione del mercato. La “mega-macchina” estrattiva di valore di cui parlava Luciano Gallino.

La guerra, e le strategie di Putin, in questo quadro costituiscono soltanto il contorno. Fanno da sfondo alla speculazione, ma non sono, almeno per adesso, il fattore scatenante, “reale”, dell’impennata dei prezzi (i contratti di fornitura ne risentiranno comunque in seguito). Non c’è, nella realtà, una scarsità di offerta a fronte di una crescita abnorme della domanda (pur tenendo conto delle riduzioni di flusso dalla Russia). Lo squilibrio è artificiale e per questo possiamo parlare, senza tema di smentita, di prezzi artificiali. Lauti guadagni per speculatori e multinazionali, dunque, dolori per famiglie e imprese.

Nel nostro Paese, fino al 2013, il prezzo del gas naturale era determinato da contratti a lungo termine indicizzati al prezzo del petrolio. Una garanzia di relativa stabilità. E di trasparenza nella formazione dello stesso. Poi l’allineamento al quadro dell’Unione. L’Autorità per l’energia (Arera) parlava dell’opportunità di «trasferire in bolletta i benefici dell’azzeramento dello spread fra prezzi nazionali e i più favorevoli prezzi europei». Il solito mantra sull’efficienza dei mercati concorrenziali. Come se i prezzi europei fossero un dato acquisito per sempre e non fossero, invece, il riflesso di dinamiche congiunturali e, soprattutto, delle aspettative degli investitori. Il risultato è stato che ad essere “trasferiti in bolletta” sono stati soltanto i costi della speculazione. Con tutte le conseguenze, economiche e sociali, che stiamo scontando in questo periodo. Il frutto avvelenato della conversione del nostro sistema economico ai dettami dell’ideologia neoliberista, sarebbe il caso di aggiungere. Quella che sovrintende al funzionamento dell’Unione europea e del suo “mercato unico”. Ma tant’è.

 

2.

Che fare, a questo punto?

La discussione sviluppatasi nel Paese, per il momento, è tutta concentrata sugli effetti e non tiene in giusta considerazione le cause. Le proposte avanzate dai partiti (tetto al prezzo del gas, sussidi, bonus, tassazione sugli extra-profitti) non mettono in discussione il meccanismo perverso di formazione del prezzo sulla piazza olandese, ovvero il meccanismo in quanto tale, prodotto dalla sussunzione dei bisogni reali agli appetiti della finanza speculativa. Una questione globale. Ammettendo – alcune di queste proposte – che i costi della speculazione debbano essere scaricati sui bilanci pubblici (nuovo debito o taglio di altre spese). Anche la decisione dell’Autorità per l’energia di indicizzare il prezzo del gas in bolletta al mercato virtuale PSV (Punto di Scambio Virtuale) italiano non appare una soluzione strutturale, essendo il TTF di Amsterdam un mercato di riferimento (benchmark) per tutti gli altri mercati locali in ambito UE.

Il problema sono i “derivati”: strumenti finanziari utili soltanto se si concludono con uno scambio “reale” della materia prima. Compro al prezzo di oggi un bene che mi verrà consegnato domani, coprendomi da eventuali rincari. Diversamente, sono soltanto uno strumento per speculare sulla variazione dei prezzi, a sua volta determinata della stessa negoziazione dei titoli (nella maggior parte dei casi con investimenti a debito, la cosiddetta “leva finanziaria”). Vietare innanzitutto l’uso speculativo dei derivati, quindi. Una soluzione che, nelle condizioni date, risolverebbe a monte il problema. Senza escludere una tassazione adeguata sugli extra-profitti fin qui maturati. Nella speranza, comunque, che i flussi dalla Siberia non vengano del tutto interrotti. In tal caso non sarebbe la speculazione – non soltanto – a renderci la vita difficile ma l’impossibilità, reale, di soddisfare il nostro fabbisogno energetico.

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