Contro la scuola e l’ università neoliberali
Cinque punti per un dissenso leopardiano
di Emanuele Zinato
1) Le Università propongono agli istituti scolastici dei “pacchetti per l’orientamento”: frequenti, tra gli altri, i corsi Che leader sei? e i laboratori sulle Soft Skills. I docenti delle scuole apprendono dalle circolari dei loro Dirigenti che l’istituzione universitaria dove si sono formati sulle “vecchie” discipline ora eroga competenze sulle nuove “dinamiche di leadership e di followership in un team”. Vengono così invitati a simulare in appositi “laboratori esperienziali di gruppo”, come si “orientano” le studentesse e gli studenti a “diventare dei leader”. Le stesse Università, in base al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 4 agosto 2023, hanno varato in fretta l’ “alta formazione” per i futuri docenti, il cui costo è a carico dei corsisti: circa duemila euro per acquistare un “pacchetto” di crediti, con lezioni atomizzate e in parte on line, in cui uno spazio non marginale sarà dato alle questioni di leadership e di skills. La giustificazione che serpeggia fra i docenti universitari meno cinici è che “se non li facciamo noi, questi corsi li faranno le università telematiche private”. I più disinibiti (i cosiddetti “docenti Alfa”) cercano di delegare queste incombenze che vanno espletate comunque perché, nella logica del monitoraggio e degli indicatori, sono computate dal “Ranking reputazionale”, il dispositivo che valuta, algoritmo su algoritmo, accanto alla produttività dei ricercatori, le terze missioni e il livello di gradimento dell’Ateneo presso i propri stakeholders.
2) L’Università promuove l’aziendalismo come suo unico orizzonte: non solo perché continua a demandare, in modo pressante, agli intellettuali accademici la gestione dell’ “autonomia contabile” ma anche perché organizza e disciplina ideologicamente (in modo solo in apparenza neutrale) sia la valutazione della ricerca che le tecniche della didattica: fattibilità e impatto dei progetti, rilevanza assoluta dell’innovazione tecnologica da un lato, standardizzazione e formattazione dell’insegnamento entro modelli precostruiti sulla misurazione degli “effetti d’apprendimento” (learning outcomes) dall’altro. Non è diverso il processo che investe la scuola, come risulta da una verifica dei rispettivi linguaggi, sostanzialmente intercambiabili e abbreviati in acronimi. Le sigle proterve che quotidianamente i professori, a scuola e all’università, utilizzano e ripetono (Anvur, Invalsi, Asn, Cfu, Gev, Orcif, Pof, PI, Pon, Gav, SSD, Prin, Pcto, Vqr…) passivizzano il loro pensiero e il loro lavoro: si presentano come dati da assumere senza dubbi o dissensi, come quelle registrate dal taccuino di Victor Klemperer.[1] Questa neolingua della formazione, della ricerca e della didattica è il solo ‘pensiero-azione’ rimasto dicibile dopo la cancellazione di tutti gli altri: come è noto, si può essere islamisti o islamofobi, repubblicani o democratici, sovranisti o europeisti, laburisti o tories purché si parli e si agisca costantemente come dei piccoli o grandi manager. Del resto, Unica è il nome eloquente della nuova piattaforma scolastica dedicata all’orientamento.
3) Dopo la pausa dell’emergenza sanitaria in cui le catene processuali sono state interrotte e rapidamente riorganizzate, l’Università si è socialmente legittimata come una frontiera del profitto. Per una istruttiva comparazione, si può rimemorare il saggio che Guido Viale pubblicò nel 1968 sui “Quaderni piacentini”: Contro l’università. Quel numero dei “Quaderni”, che ebbe una diffusione eccezionale e che contribuì alla stagione del movimento studentesco, avviava la riflessione sull’uso capitalistico dei saperi. Oggi, nel sistema della ricerca e della formazione, non si fa più solo uso mediato delle discipline ai fini del dominio, ma si inducono docenti e studenti ad apprendere immediatamente il linguaggio del dominio. In particolare, nel campo della scuola, a essere sfiduciata è la mediazione delle “vecchie” discipline, avvertite come fardello novecentesco e a esser esaltate come “innovative” sono invece le tecniche e le retoriche, falsamente “inclusive”, di riproduzione dei rapporti di potere. Si tratta del capolavoro dello Zeitgeist neoliberista: al centro di ogni apprendimento, dalla scuola primaria all’università, si accampa la competenza imprenditoriale, ossia il “gioco” della competizione e della concorrenza portato all’interno delle relazioni individuali, la costruzione di un senso comune in cui per ogni “vincente” ci deve essere un “perdente”.[2]
4) L’enfasi educativa sulla meritocrazia, sui leader, sulla competizione e sulle skills sembra tuttavia rivelare una sua condizione oscena: è retoricamente ossessiva nell’università e nella scuola nel momento stesso in cui la crisi di civiltà è giunta a mostrare le sue tragiche contraddizioni planetarie. Nell’arena della concorrenza globale non sembra esserci più futuro nemmeno per i “vincitori” perché il disagio psichico è sempre più connaturato alla performance[3], perché la concorrenza sta legittimando la guerra, i respingimenti e l’ecocidio, e perché le sorti stesse dell’umanità sono davvero a rischio. In una parola: che democrazia, progresso e competizione siano fenomeni virtuosamente correlati si sta dimostrando, alla verifica delle “sensate esperienze”, un sillogismo degno di Simplicio o di Don Ferrante. Se, alla luce dei conflitti attuali, la governance universitaria e scolastica, e il loro disciplinamento diffuso, figurano come i ciechi in processione nel dipinto di Bruegel il Vecchio, si apre, allora, tra gli intellettuali specializzati[4], un problema di ecologia politica: smettere di essere consenzienti e rilegittimare il bisogno di pensare e di agire contro l’università e contro la scuola neoliberali.
5) Per ora, lo spazio per questo pensiero-azione controtempo è invisibile e negato: l’’autoreferenzialità accademica e scolastica con cui si continuano a concepire docenti e studenti come dei businessmen in carriera trova le sue legittimazioni autoteliche nello Zeitgeist. Una diserzione dei docenti dalla ragione neoliberale esigerebbe la presa di parola e l’azione politica: per l’università, in specie, disertare comporterebbe ciò che dalla riforma Gelmini in qua i professori hanno rinunciato – per opportunismo o per cinismo – a fare: l’elaborazione di pratiche di produzione e diffusione dei saperi alternative alla logica dominante nel mondo dell’azienda accademica. Esistono, tuttavia, degli spiragli autocoscienti[5] in parte dovuti all’evidenza stessa della crisi. Il dissenso dei docenti potrebbe opporre al mito ossessivo della competizione le pratiche controfattuali della solidarietà attiva e della cooperazione infraumana, il mutuo appoggio, la necessità della giustizia sociale e ambientale come paradigmi culturali e politici da condividere. Un simile nuovo paradigma della conoscenza critica potrebbe trovare il suo più acuminato strumento concettuale nella nostra stessa tradizione: nel pensiero anti-antropocentrico di Giacomo Leopardi. E, del resto, Sebastiano Timpanaro, sulla base di una lettura leopardiana materialista e militante, ha posto una questione non eludibile: “se, per esprimersi con un linguaggio irritante per gli intellettuali odierni, homo sapiens dimostrasse di essere una specie zoologica capace di linguaggio, di pensiero, di arte e di tante ottime cose, ma incapace di eguaglianza e di autogoverno collettivo, la decadenza e la fine dell’intera umanità sarebbe definitivamente segnata, a scadenza non troppo lunga”.[6]
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