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L’illusione meritocratica e il potere attrattivo dell’aristocrazia del talento

di Francesca Fulghesu

Lo slittamento semantico si verifica quando il significato di una parola o di un’espressione muta nel tempo, spesso assumendo connotazioni diverse da quelle originarie. Un termine può cambiare rimandi e senso per varie ragioni, tra cui l’evoluzione culturale, l’uso comune o il cambiamento di contesto. Ma spesso è la politica ad appropriarsi di un vocabolo e travisarne – volutamente o meno – il valore. Distorcendo, così, anche la percezione socialmente condivisa.

Al giorno d’oggi in pochi negherebbero di voler aspirare a una società meritocratica. In Italia, del resto, persino i ministeri contengono la parola “merito” nel nome. Ma cosa significa “merito”? E quanto è insidioso usare questo termine – e addirittura elevarlo a paradigma di riferimento – in modo neutrale, pacificato, presupponendo che sia evidente e inequivocabile cosa è meritevole (o chi è meritevole) e cosa non lo è?

“Meritare” deriva dal latino “mĕrĕo”, verbo della seconda coniugazione con numerosi significati. A seconda del contesto linguistico d’uso, può essere tradotto come meritare, meritarsi, essere degno di qualcosa, guadagnare, ottenere, incassare, ricevere in pagamento, prestare servizio militare, essere o rendersi colpevole, commettere un errore, comportarsi bene o male verso qualcuno, rendere buono o cattivo servizio, prostituirsi, mantenersi prostituendosi.

A oggi, però, gli unici significati ereditati dalla parola hanno a che fare con il guadagno e con il valore.

Questo uso condiviso e pacificato della parola merito, che insinua ci sia un’obiettività possibile nel decidere che cosa qualcuno abbia diritto di guadagnare (in senso lato e no), naturalizza la disuguaglia, instilla la convinzione che le differenze economiche e culturali (in una parola, le differenze di “classe“) non siano un fatto sociale, ma un dato naturale. Alla base c’è il presupposto che ognuno di noi – chi “ce la fa” e chi “non ce la fa” – occupi nella piramide sociale il posto che “si merita”: un riconoscimento indiscutibile e interiorizzato che porta i “vincenti” a ritenere giustificato il proprio privilegio e i “perdenti” ad accettare la propria discriminazione.

Quando il sociologo inglese Michael Young scrive The rise of meritocracy, pubblicato nel 1958, ciò a cui pensa è una distopia. Una distopia in cui immagina l’avvento, su scala mondiale, della Meritocrazia, un sistema basato sull’istruzione e sul merito (inevitabile non pensare, di nuovo, al ministero italiano) e in cui i padroni governano in base a una selezione fondata sull’intelligenza misurata con strumenti scientifici. Un sistema discriminatorio che nel romanzo sfocia in opposizioni e ribellioni, soprattutto da parte delle donne. Con militanti che anziché occupare i posti designati a loro dal “merito”, vanno a fare lavori manuali per destare nella classe inferiore la consapevolezza del duro trattamento che sta subendo.

La partita è truccata. Il termine “talento”, utilizzato per parlare addirittura delle predisposizioni dei bambini, elude proprio quest’ingiustizia “ereditaria”: la differenza di classe. Avere o non avere libri in casa, avere o non avere accesso alle scuole migliori, avere o non avere la possibilità economica di poter fruire di manufatti ed esperienze culturali. Il volume edito per i tipi di elèuthera di Francesco Codello “L’illusione meritocratica”, nelle librerie dal 23 febbraio, parte da questo presupposto: naturalizzando (e quindi legittimando) le differenze, la meritocrazia alimenta «l’illusione della giustizia come risultato della libertà di competere ad armi pari e quindi di poter ottenere un giusto esito dalla vita comune». Un’illusione che esercita un innegabile potere attrattivo, legittimando ogni sopruso.

Codello, filosofo e pedagogista, distingue tra concetto e idea di merito. Il concetto spiega cosa significhi, la seconda, invece, lo colloca in un contesto predeterminato in modo arbitrario: è l’idea di merito a stabilizzare in modo gerarchico e autoritario un’organizzazione sociale. Il merito può essere una condizione particolare, relativa, legittima. Ma in un contesto meritocratico – o che ideologicamente tende al paradigma meritocratico – il merito, il talento, divengono rendite di posizione, centri di potere che in quanto tali vogliono perpetuarsi e riprodursi.

Il regime del talento e dell’impegno, sottolinea Codello nel volume, è a tutti gli effetti un regime aristocratico che si basa di fatto su un privilegio ereditario, quello socio-economico, legittimato e simulato però da un criterio intellettivo e intellettuale, che si suppone innato nelle persone. Ma ciò che comunemente viene definito “talento” è identificabile solo all’interno di un dato contesto di riferimento sociale e culturale, e non è un dono di nascita che legittima il privilegio. Il talento è accertabile solo in modo arbitrario, a partire da valori sociali specifici, e nell’ideologia aristocratica del merito sottende sempre un’idea di misurazione e di valore. Che legittima discriminazioni e gabbie sociali.

Una società libera dall’idea meritocratica, secondo Codello, considera il senso del merito e il senso dei bisogni di ognuno, e di conseguenza afferma e garantisce la dignità dei cittadini. Anche a partire dalla scuola e dalla sua ossessione valutativa. Tenendo presente l’ineguale armamentario di partenza. Perché, per dirla con l’indimenticata Lettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana e don Milani, “non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”.

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