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La morale rigorosa e scomoda di un grande eretico italiano: Piero Martinetti

di Eros Barone

La verità è il bene umano più alto e comprende in sé anche la forza e la giustizia; possiamo noi concepire una giustizia fondata sul falso? Perciò anche la dove il vero e il falso sembrano essere indifferenti al bene privato e pubblico, ciò realmente non è; la verità compendia sempre in sé, anche se pel momento sembra straniera a ogni interesse umano, una giustizia superiore e universale che riflette gli interessi più profondi dell’umanità.

P. Martinetti, Breviario spirituale.

Del filosofo piemontese Piero Martinetti (1872 – 1943) cadeva l’anno scorso l’ottantesimo anniversario della morte. Ma chi era Martinetti?

Si può rispondere che fu una singolare figura di intellettuale eretico, estraneo alla tradizione cattolica così come ai contrasti politici che caratterizzarono la sua epoca (ad esempio, non aderì né al Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile né al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce). Memorabile fu, tuttavia, nel 1931 la sua decisione, originata da motivazioni essenzialmente etiche, di rinunciare alla cattedra per non prestare il giuramento di fedeltà al fascismo (è da notare che soltanto diciotto furono i professori che fecero questa scelta su un corpo accademico che ne contava allora 1225).

Da vero moralista aveva il dono dell’indignazione morale. Lui stesso aveva scritto: «Disgraziato l’essere che non sa trovare in sé, in dati momenti della vita, una santa collera! Chi è senz’ira non pensa».

Aveva ragione. La passione morale, come le altre passioni, non può essere fredda. Non la sente davvero chi, quando essa è contrariata, non prova una perturbazione anche fisica. E Martinetti si arrabbiava. Gli studenti fascisti, come è noto, usavano invadere l’aula dei professori dissidenti. Martinetti allora rivolgeva ai malintenzionati un monito nella sua lezione che teneva la mattina presto, affinché non diventasse uno spettacolo mondano, come era costume dei professori più famosi: «Avvertite i vostri camerati che ho qui nel cassetto una rivoltella carica e sono deciso a sparare. Dopo mi ammazzeranno, ma intanto tocca a chi tocca».

Vi era in lui la consapevolezza che l’eticità non significa armonia ma conflitto, lotta per il bene contro il male.

Il congresso nazionale di filosofia del 1926 fu presieduto da lui. Lo aprì un filosofo anziano, De Sarlo, con un discorso, che nessuno si aspettava, contro il regime fascista. Questo discorso, sicuramente concertato con Martinetti, conteneva la famosa frase: «Gli immortali princìpi dell’Ottantanove», che Mussolini citava spesso con sarcasmo. Un altro professore replicò saltando sul palco, proclamando fedeltà al fascismo e terminando la sua testimonianza col saluto romano.

Allora si vide veramente in azione la “santa collera”. Martinetti gridava, scuotendo il campanello: «Le tolgo la parola! Le tolgo la parola!». Purtroppo la tolsero a lui, perché poco dopo i carabinieri occuparono la sala e il congresso fu sospeso ‘sine die’.

Questa capacità di “santa collera” era resa possibile in Martinetti da un motivo filosofico ben preciso: egli credeva nell’esistenza del male, anzi era uno dei pochissimi pensatori moderni che continuavano a credervi in quella forma. Il bene e il male, nei pensatori moderni, sono entità relative e cangianti; ricevono un significato mutevole dagli sviluppi della storia e della vita psichica; rientrano in un processo dialettico che ne confonde i connotati e fa scaturire l’uno dall’altro. Per Martinetti il male era invece una realtà vivente, ben definita, separata, incompatibile col bene e tale da non generare altro se non la propria abiezione. Nella sua idea della vita morale l’ambiguità moderna non aveva il minimo posto. Il male era per lui anche intellettuale: un misto di cattiveria e di idiozia: una realtà che non si conciliava con il suo Dio filosofico, e tuttavia esisteva, di un’esistenza piena e vera.

Martinetti sentiva fortemente la presenza del male come quella di un nemico perpetuo con cui non si viene a patti e contro cui la collera è la reazione naturale. Insomma, Martinetti inclinava verso un manicheismo metafisico, un dualismo inconciliabile tra il bene e il male, che forse nei suoi libri è velato da una sorta di reticenza filosofica, ma che appare chiarissimo nel suo comportamento pratico.

A questo tempo, in apparenza così culturalmente remoto, appartiene il potente messaggio etico del Breviario spirituale che Martinetti pubblicò anonimo nel 1922, dunque poco prima che il fascismo arrivasse al potere. 1 Si tratta di una guida di comportamento intellettuale e morale, che deriva la sua ispirazione da quei filoni protestanti e giansenisti che avevano (hanno?) tanta importanza nella cultura piemontese. Il suo intento, chiaramente documentato nelle parti del Breviario in cui sono trattati i temi civili e politici, era quello di combattere il disfacimento della società italiana con tutta la fermezza che egli aveva sempre insegnato. E invero Martinetti è un grande moralista, il quale del moralista classico possiede l’acume psicologico e anche l’inevitabile pessimismo di fondo.

Un rapido scorcio di alcuni passi del Breviario ci restituisce il profilo di questo “filosofo popolare” capace di parlare di filosofia in un linguaggio chiaro e comprensibile anche ai non addetti ai lavori. La tradizione filosofica del nostro paese, accademica e spesso inutilmente esoterica nelle sue espressioni, conosce pochi scritti di questo genere: in tal senso, il Breviario spirituale di Martinetti merita di essere accostato ai Frammenti di etica di Benedetto Croce, due guide morali apparse entrambe nel 1922.

Ma vediamo alcuni passi del Breviario, a cominciare da quello in cui compare un’esortazione mirabile nel suo programmatico minimalismo: «Non essere schiavi della vanità, del lusso e della moda». E leggiamo, non senza emozione, un altro passo che, per citare il sommo poeta, “a molti fia sapor di forte agrume”: un passo in cui Martinetti asserisce che è lecito usare in qualche caso, per opporsi alla violenza iniqua, anche la violenza armata (si pensi alla rivoltella quale ‘extrema ratio’ contro le provocazioni degli studenti fascisti). Notevole è il passo in cui sottolinea che lo Stato è l’organizzazione violenta di una minoranza, ruolo da cui può essere riscattato soltanto ad opera di un’aristocrazia di “spiriti eletti”, intellettualmente e moralmente superiori.

Del resto, egli non accetta il liberalismo, perché esso è conservatore e difende un ordine ingiusto, dà ai più forti la libertà di opprimere i più deboli ed è privo di slancio religioso; disapprova il parlamentarismo perché esso è demagogico, così come il socialismo che rivendica una direzione dal basso. Era severo coi filosofi, specialmente quando servivano il potere, come Gentile, e perfino quando scrivevano, come Croce, con uno stile raffinato in cui il giansenista piemontese fiutava una strategia della seduzione illecita.

Ma, di là dalle opinioni e dai precetti particolari, su tutto spicca il rigore del suo orientamento morale, scevro di qualsiasi condiscendenza. La libertà, su cui scrisse un libro stupendo per impeto espressivo e per passione razionale (1928), 2 aveva nel pensiero di Martinetti una parte di primo piano. La sua però non era la libertà di fare quello che ci piace, ma una sottomissione al comando divino, di cui il precetto morale è la cogente espressione: un comando divino diventato natura e necessità, giacché l’opposizione non è tra libertà e necessità, ma tra libertà e contingenza.

Da una siffatta impostazione e soluzione del problema morale discendono sia il culto stoico del dovere (Marco Aurelio, non a caso, è l’autore maggiormente citato nel Breviario) sia la netta dicotomia tra i ‘no’ e i ‘sì’. No alle speculazioni negli affari, al vitto abbondante, all’ozio nei caffè, al gioco e alla danza. No a quasi tutto il teatro ed ai romanzi di consumo; la prodigalità è peggiore dell’avarizia, che almeno esige disciplina; non bisogna accettare doni, che possono asservire; niente libertà sessuale, in quanto l’attività sessuale è inferiore di fronte a quella dello spirito, e i migliori tendono a disprezzarla; la donna non è pari all’uomo e deve sottoporsi alla sua tutela. No alla falsa pietà per il delitto e i delinquenti. Da evitare, infine, una certa sincerità viziosa: il “mettere l’animo a nudo”, il mostrare le proprie debolezze e sconfitte, il confessarsi agli altri: «Il mondo – nota Martinetti – è degli uomini freddi».

Eppure, pur situandosi agli antipodi della sensibilità etico-sociale corrente, niente di questo ci urta, tanto è sincero, mai ostentato. In questo insegnamento si esprimeva infatti un’idea o un sentimento comune a uomini diversissimi: quello secondo cui la vita morale non può mai essere né comoda né corriva; così pure quella intellettuale, che perciò diventava una morale anch’essa, magari a detrimento di altri settori della vita. Né gli studi né l’arte “dovevano” essere facili, e una dose di rigorismo si trovava perfino nelle rivolte libertarie.

La domanda che sorge spontanea a proposito del Breviario è allora questa: «Chi oserebbe oggi scriverlo?». E la risposta è: assolutamente nessuno.

Sennonché è difficile non ammirare Martinetti, un uomo senza paragone nella vita morale dell’Italia moderna e, secondo Ludovico Geymonat, che fu suo allievo, «uno dei massimi pensatori italiani della prima metà del Novecento». 3 Aveva la tempra di quelli che sanno farsi uccidere per le loro idee: diceva quello che pensava e faceva quello che diceva.

Tuttavia, se alcune parti del Breviario oggi possono apparire caduche, è presente e dominante in esso un insegnamento di valore pratico che è essenziale, più essenziale delle idee sulla donna, sull’autorità familiare e sulla castità. È l’idea di difficoltà. La difficoltà può mutare aspetto e assumere varie forme, ma è necessaria. Una morale rigorosa e scomoda come quella professata e testimoniata con l’esempio personale da Martinetti è più difficile da vivere di una morale permissiva che scambia la libertà con l’indifferenza e la scelta con l’acquiescenza. La morale insegnata da questo filosofo, lo si è detto, non si basa sull’armonia ma sul conflitto, richiede esplicitamente la lotta per il bene contro il male… A meno di non compiere un’altra scelta: il lasciarsi andare, il farsi risucchiare passivamente dai gorghi della vita.


Note
1 Il lettore che volesse delibare questo libro di laica morale militante può scaricarlo dalla Rete al seguente indirizzo:   http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/cristianesimo/Piero%20Martinetti,%20Breviario%20spirituale.pdf. http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/cristianesimo/Piero%20Martinetti,%20Breviario%20spirituale.pdf. http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/cristianesimo/Piero%20Martinetti,%20Breviario%20spirituale.pdf.
2 P. Martinetti, La libertà, Nino Aragno Editore, Torino 2005.
3 L. Geymonat, L’insegnamento di Martinetti, l’Unità, 22 marzo 1958.
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Comments

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Paolo Selmi
Tuesday, 17 September 2024 16:13
Carissimo Eros!

Scusa anzitutto il ritardo nel commento, ma qui sta diventando sempre più difficile... Volevo ringraziarti per il ritratto di questo nostro filosofo, che non conoscevo, e per la descrizione e l’analisi del suo lavoro.

Son riuscito a recuperare il testo originale del “Breviario spirituale” in rete,
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/cristianesimo/Piero%20Martinetti,%20Breviario%20spirituale.pdf
e gli ho dato una scorsa velocissima, indegna oserei dire.

Mi son fatto del male da solo leggendo la sua analisi e la sua valutazione, tipicamente vetero-cattolico-preconciliare, di ciò che definisce “socialismo”: d’altronde, quelli erano i tempi.

Mi sono fatto invece del gran bene leggendo da pagina 96 i suoi appunti sul lavoro. Tanto già letto, ma anche tanto che veramente merita di essere letto e riletto.

L’elogio della “pazienza”, alias perseveranza.

«Quando io guardo intorno a me (scrive un medico) i compagni della mia vita, io vedo nei migliori posti i più pazienti. I ritardatarii (sic!) non sono affatto i meno intelligenti: ma quasi tutti avevano, fra gli altri difetti, quello di non sapere attendere, occorreva, loro subito un guadagno, un godimento, e sono rimasti per strada come dei fanciulli distratti dal giuoco sul cammino della scuola».

Penso alle prove INVALSI. Alle “giocate da fenomeno” che si vorrebbero nei propri figli, così da “esibirle” come trofei agli altri. Al mondo. E non capiamo che i tempi, i TEMPI, son diversi per ciascun bambino. Quel che conta è la pazienza, intesa come perseveranza. Quello che scrivevi tu, del resto. E hai perfettamente ragione.

Qui riprende MARX (senza citarlo… mai sia) e il suo lavoro sull’alienazione, l’estraniamento:
“La pura e semplice attività professionale esercitata meccanicamente, senza iniziative, senza letizia come senza sforzo, deforma l ’uomo : l ’operaio che si specializza ed eseguisce (sic!) per tutta la vita lo stesso lavoro, in che cosa differisce per questo da una macchina?”

Sarebbe stato bello vederlo dialogare con un giovane sardo che probabilmente viveva non molto lontano da lui. “Americanismo e fordismo”, il “gorilla ammaestrato di Taylor”, la cosiddetta “organizzazione scientifica del lavoro”…

Proseguo nell’analisi di quelli che lui definisce i “precetti” da osservare. E mi soffermo sul secondo.

“In secondo luogo bisogna amare il proprio lavoro ed occuparsene con diligenza : prima di tutto per interesse, poi per trovare in esso un’occupazione gradita. Il lavoro è considerato generalmente, fin dal tempo della biblica maledizione, come una pena: il riposo come un compenso, un piacere, anzi
come l’ unico stato desiderabile.”

Qui mi è sempre venuto in mente un momento di italico campanilismo Nord-Sud che mi è risuonato per un certo periodo della mia vita (prima che si trovassero altri capri espiatori negli immigrati extracomunitari…): “i dialetti del sud sono gli unici che per dire lavoro usano il termine ‘fatica’” (sta ffatìu, me ne bbau a la fatìa, eccetera…)

Approfitto di questo spazio per dire ai “polentoni” che ANCHE LA PAROLA STESSA “LAVORO”, CHE PER NOI E’ TALMENTE “ASETTICA”, “SMATERIALIZZATA”, DA DIVENIRE QUASI FONDAMENTO ONTOLOGICO E FINIRE COSI’ INCASTONATA NELL’ARTICOLO 1 DELLA NOSTRA COSTITUZIONE… IN REALTA’ VUOL DIRE, NELLA LINGUA DI ORIGINE… FATICA!

Scopiazzo dall’ERNOUT MEILLET (p. 334)
labor… : travail (en tant qu’effort fourni), labeur ; souvent avec un sens acces-soire d’effort fatigant, d’épreuve(s)… On admet souvent que labor, -oris s’appa-rente à labo, -as et labor, -eris et que le sens en a d’abord été « charge » (sous laquelle on chancelle)… Laboro a le sens de « plier sous la charge, ou sous le choc », par exemple dans Hor., Od. 1, 9, 1 sqq… De là on serait passé au sens de « peine, souffrance, fatigue » (supportée dans l’accomplissement de quelque tâche, cf. πόνος)… puis, par un nouvel affaiblissement, au sens de « travail, effort, labeur »… Mais le mot qui désigne le travail, c’est, dans la langue classique, opus (résultat), opera (activité). Labor s’emploie fréquemment dans la langue rustique, où les travaux sont particulièrement durs… De là les sens techniques de « labour, labourer » conservés dans les langues romanes.

Quindi, cari “polentoni”…
1. anche il nostro LAURA’ (con l'accento sulla à) → LAVORO → LABOR altro non è che “pena, sofferenza, fatica” (travail → travaglio)
2. i latini per indicare ciò che noi chiamiamo LAVORO usavano OPUS e OPERA.

Pur tuttavia, NEI SECOLI LA PAROLA SEMANTICAMENTE NON HA PERSO, MA HA SUPERATO IL LATO “PENOSO, SOFFERENTE, FATICOSO” A ESSA CONNOTATO, CON UNA VERA E PROPRIA ETICA DEL LAVORO, UN VERO E PROPRIO ORGOGLIO, UNA VERA E PROPRIA SODDISFAZIONE. IL PASSAGGIO DALLA SOFFERENZA UMANA AL GODIMENTO DIVINO, NEL MITO BIBLICO DELLA CREAZIONE, CHE ALTRO NON E’ CHE LA DESCRIZIONE DI UN LAVORO, ALLA FINE DEL QUALE, OGNI VOLTA: “E VIDE CHE ERA COSA BUONA”

Ecco allora un’altra frase del Martinetti: “In realtà la vera gioia viene all’uomo dalla conquista, non dal possesso.” (aggiungerei, guardando al presente, “e dal consumo”)
VALLO A SPIEGARE OGGI.

Anche in questo che sostanzialmente è a metà fra un pippone moralistico e una frase da tatuarsi sul braccio, c’è tanta saggezza:amare il lavoro anche come un compito provvidenzialmente imposto, vedere in esso non una penosa necessità, ma il compimento d’un dovere in cui l’uomo, qualunque sia il suo posto, può trovare una sorgente di serenità e di nobiltà interiore.”

Ecco, qui al Martinetti avrei detto: “Prof, un passo in più, un solo passo in più… dove si crea la situazione ottimale per ciò che Lei auspica? Nel capitalismo o nel socialismo? In una società senza più sfruttati né sfruttatori?”

Aggiunge poco dopo:

“Certo vi sono per questo delle carriere favorite che hanno per sè un carattere quasi ideale: come l’amministrazione della giustizia, l ’insegnamento, la medicina. Eppure quanti mestieranti svogliati ed annoiati in queste professioni ! Ma anche nelle altre, se esercitate con una certa intelligenza ed attività di spirito, il pensiero può trovare materia ad estendere, approfondire, sistemare: quando si fa il proprio lavoro dominandolo da un orizzonte più vasto, esso diventa un esercizio interessante e piacevole.”

“Ma se “via te, c’è fuori la fila?”

Se “Mio nonno fava i matoni, mio babbo fava i matoni, fazo i mattoni anche me', ma la casa mia n'dov'è?”

… come si fa a CREARE LE CONDIZIONI di questo lavoro che Lei tanto auspica? E allora vede, prof, che viene dalla mia??? Che solo togliendo i vincoli tipici di una società capitalistica si creano le condizioni NECESSARIE, MA NON SUFFICIENTI - PUR TUTTAVIA NECESSARIE! - per arrivare a quanto Lei auspica?”

Leggendo però quanto continua a scrivere, è vero, ci troviamo di fronte essenzialmente a un ASCETA. Per essere asceti non serve pregare dieci ore al giorno. Basta avere la sua etica del lavoro. UN’ETICA DEL LAVORO IN GRADO DI SUPERARE QUALSIASI COSA. ANCHE LO SFRUTTAMENTO PIU’ DISUMANIZZANTE E SCHIAVISTICO.

E qui mi è venuto in mente un altro suo conterraneo. Stavolta non cattolico, non protestante valdese, ma ebreo. Che a un certo punto, nella famosa intervista rilasciata a Roth nell’Ottantasei, ripresa persino dai giornali padronali per dirci quasi “ecco, così dovete essere… questo è il vostro dovere”, cita questo ricordo:

“Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del lavoro ben fatto è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale”.

L’etica non del lavoro generico, ma del LAVORO BEN FATTO. E relativa domanda: “Può esistere un lavoro ben fatto senza la dignità del lavoro, in questo caso in uno stato di schiavitù?”

La risposta, carissimo Primo, a mio modesto parere è: DIPENDE. Se hai vissuto, prima di finire in un campo di prigionia, l’esperienza di essere HOMO FABER, di trovare DIGNITA’, RISCATTO, ONORE, SODDISFAZIONE, e quant’altro di positivo possa scaturire a livello di emozioni e sentimenti umani più o meno strutturati, anche in un lager cercherai questo. Ti aggrapperai a questo. Per non sentirti un numero tatuato sul braccio. O, mutatis mutandis, carne da cannone.

MA SE TUTTO QUESTO NON L’HAI MAI VISSUTO? Se ti hanno “disinsegnato”, “diseducato”, “maleducato”, “inculcato” che, RIBALTANDO I TERMINI SOPRA ESPOSTI, “La vera gioia viene all’uomo dal possesso”, o “dalla disponibilità ILLIMITATA al consumo”, alla fruizione, all’esperienza fine a sé stessa… una volta finito nel lager da dove salterà mai fuori la soddisfazione del “muro diritto”? DAL MURO DIRITTO IN SE’???? E no!

Questo però mi fa ancor più diventare materialista storico, carissimo Eros. I piemontesi, e non solo i piemontesi, ma tutti gli abitanti dell’italico stivale, da nord a sud, basti vedere le chiese, le cattedrali, le opere rimaste ancora a noi, che ci passiamo davanti senza neanche prestare attenzione al LAVORO che sono costate, C’E’ STATO ALMENO UN MOMENTO, NELLA NOSTRA STORIA NAZIONALE, IN CUI AVEVANO CREATO UN AMBIENTE, OVVERO UNA RISULTANTE SOCIALMENTE ED ECONOMICAMENTE DETERMINATA, DOVE A PRESCINDERE DALLA FEDE RELIGIOSA, DALLA SOVRASTRUTTURA RELIGIOSA, LA PENSAVANO TUTTI ALLA STESSA MANIERA SUL LAVORO! Cattolici, Ebrei, Valdesi.

Il LAVORO, quello vero, così come delineato qui sopra, homo faber, come FONTE DI DIGNITA’. Come PRIMA fonte di dignità.

Grazie mille per avermi fatto scoprire questo testo. E questo Autore.

Un abbraccio
Paolo
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jimmie
Sunday, 15 September 2024 23:19
Grazie. Molto interessante, non sapevo. E' peraltro sempre interessante scoprire personaggi un po' fuori della cosiddetta onda mediatica (che e' sempre esistita), ma che hanno contribuito a loro modo, anche se non vistoso, a 'raddrizzare' la direzione della prua della storia, per usare una metafora. In un certo modo mi ricorda la figura di mio Nonno, piemontese anche lui, che, per rifiutarsi di aderire al fascismo venne relegato alla stazione di Brianco (sulla linea Santhia'-Biella) e poi re-integrato alla fine della guerra. Caratteri come Martinetti non ce ne sono piu' (parlo per esperienza), ma fa gia' piacere che siano esistiti (sia pure con l'inevitabile tristezza inerente alla volubilita' del tempo e degli eventi.) Jimmie Moglia, Portland, Oregon www.yourdailyshakespeare.com
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