Siamo vicini al collasso?
di Marino Badiale
Sono ormai in molti a sostenere che l’attuale organizzazione economica e sociale è destinata a finire, in maniera più o meno traumatica, nell’arco di qualche decennio. In Francia si parla, forse con un po’ di ironia, di “collapsologie” come di una nuova disciplina scientifica che studia appunto il collasso prossimo dell’attuale organizzazione sociale [1,2,3]. Intendo qui provare a riassumere i termini fondamentali della questione. Cercherò di sostenere che in effetti vi sono argomenti ragionevoli a favore della tesi del collasso prossimo. Questo ovviamente non implica che si possano fissare dei limiti temporali precisi, né che si possano fare ipotesi ragionevoli su quale potrà essere la nuova forma di organizzazione sociale che sostituirà l’attuale.
La tesi fondamentale che intendo esporre è che il collasso prossimo venturo deriverà dal concorrere di cause diverse, sarà cioè il risultato del confluire di diversi processi di crisi. Stiamo cioè entrando in una fase storica nella quale meccanismi di diverso tipo porteranno a problemi sempre maggiori nella riproduzione dell’attuale ordinamento sociale. Nessuno di tali problemi probabilmente sarebbe in sé tale da causare una crisi irreversibile, ma mi sembra ragionevole pensare che sarà proprio la loro contemporaneità a innescare il collasso.
Le crisi fondamentali che stanno confluendo assieme possono essere schematizzate sotto tre grandi etichette: crisi economica, crisi egemonica, crisi ecologica.
Esaminiamole in quest’ordine.
La crisi economica scoppiata nei paesi occidentali nel 2007/08 presenta caratteristiche che hanno spinto alcuni economisti a introdurre (o reintrodurre) il concetto di “stagnazione secolare” [4,5]. È certo vero che la fase più acuta della crisi è stata superata, e che alcuni paesi hanno ritrovato tassi di crescita economica sostenuti.
Ma questo non è vero per la totalità dei paesi avanzati, e, soprattutto, la ripresa, quando è presente, appare indirizzata sugli stessi binari che hanno portato alla crisi, cioè quelli dell’abnorme sviluppo di una economia finanziaria slegata dalla crescita dell’economia materiale. Gli studiosi che discutono la nozione di “stagnazione secolare” hanno in mente appunto una dinamica di questo tipo: cioè quella di una economia reale sostanzialmente stagnante, che viene “ravvivata” solo dallo sviluppo di bolle finanziarie, che inevitabilmente scoppiano producendo crisi economica, superata a sua volta solo dallo sviluppo di una nuova bolla, e così via.
Si può certo osservare che questa prospettiva di stagnazione sembra riguardare essenzialmente i paesi sviluppati, mentre in molti dei paesi attualmente in via di sviluppo si osserva ancora una robusta crescita economica. Si potrebbe quindi interpretare la tesi della “stagnazione secolare” non come indice di una crisi generale dell’attuale organizzazione sociale ma piuttosto come indice di un possibile avvicendamento ai vertici del potere mondiale; l’attuale fase di stagnazione potrebbe cioè essere vista come una crisi di passaggio da una fase storica di predominio dei paesi occidentali ad una nuova centralità dei paesi attualmente in via di sviluppo, in particolare dei paesi asiatici e fra questi, ovviamente, in primo luogo la Cina.
Il riferimento principale è qui al testo di Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo”[6]. In esso l’autore delinea la storia della modernità capitalistica come una storia di “cicli sistemici di accumulazione”, il cui schema è il seguente. Ciascun ciclo è dominato da una nazione egemone che acquista l’egemonia grazie ad una particolare forma di accumulazione economica, superiore a quella delle potenze rivali; con la crisi della forma che il capitalismo ha assunto in tale ciclo, la nazione egemone declina e una nuova nazione egemone sorge distruggendo le strutture del vecchio regime per instaurare le proprie; la nazione egemone guida l’espansione produttiva, caratterizzata dalla crescita di produzione e commercio. Il sistema entra in crisi quando l’investimento produttivo non riesce più a garantire un profitto accettabile, e di conseguenza il capitale, alla ricerca di un alto saggio di profitto, si sposta nella sfera della finanza. Questa “finanziarizzazione” rappresenta però appunto l’apertura di una fase di crisi per quella particolare forma di accumulazione capitalistica, e per la nazione egemone. La fase di crisi viene superata con l’instaurarsi di un nuovo ciclo, di una nuova forma di accumulazione, e di una nuova nazione egemone.
Possiamo ritrovare questo schema nelle vicende dell’Olanda, che dopo le lotte di indipendenza dalla Spagna diventa uno dei principali centri del commercio mondiale, per essere poi sostituita, nella seconda metà del Settecento, dall’Inghilterra, che diviene la potenza egemone per tutto l’Ottocento. Il declino dell’egemonia britannica coincide con la crescita economica dei due principali candidati all’egemonia, cioè Germania e Stati Uniti. Lo scontro per l’egemonia porterà al ciclo della “Seconda Guerra dei Trent’anni” (1914-1945) e si concluderà con la vittoria statunitense e l’affermazione dell’egemonia USA su tutto il mondo non comunista. Infine, in questi ultimi anni vi sono forti segnali del fatto che l’egemonia USA stia declinando e stia sorgendo il nuovo Stato egemone, la Cina. Questa fra l’altro era anche la convinzione di Arrighi, che si è dedicato allo studio dell’economia cinese in uno dei suoi ultimi lavori [7].
Il quadro fin qui delineato porta argomenti a favore dell’approssimarsi di un periodo di grave crisi della nostra organizzazione sociale, ma non di una sua fine prossima. Le dinamiche di crisi che abbiamo schematizzato descrivono infatti movimenti ciclici del capitalismo, che si sono avuti in passato e dai quali il capitalismo è uscito più forte di prima. Si potrebbe quindi pensare che, magari attraverso tensioni, drammi, guerre, l’attuale crisi economica ed egemonica si risolva con l’apertura di una nuova fase di forte crescita economica dominata dalla Cina, magari legata a qualche innovazione tecnologica al momento imprevedibile. È a questo punto che interviene la terza dimensione della crisi attuale, quella ecologica. Il punto decisivo è che nelle precedenti fasi cicliche il capitalismo ha sempre potuto contare, per la ripresa da una crisi economica minore o per l’instaurarsi di una nuova fase egemonica, su una ampia base di risorse naturali da sfruttare, e ottenibili a prezzi relativamente bassi. La ricerca di risorse (diverse nelle diverse fasi storiche, naturalmente) è la molla che presiede a secoli e secoli di conquiste coloniali europee.
Il punto decisivo mi sembra questo: a meno di scoperte scientifiche o innovazioni tecnologiche di vasta portata, delle quali al momento non si scorge traccia, quello che sembra oggi mancare è proprio un bacino di risorse a basso prezzo da sfruttare. Sembra, al contrario, che si stiano esaurendo tutti i bacini di risorse sfruttati negli ultimi due secoli. È questo che spinge a ipotizzare che la crisi attuale non sia una semplice crisi ciclica ma rappresenti l’inizio della fine per l’organizzazione sociale che ha dominato il mondo negli ultimi due secoli.
Il tema della crisi ecologica è ovviamente vastissimo, e mi limiterò ad accennare a due soli punti, peraltro molto importanti: il cambiamento climatico e il problema del possibile esaurimento del petrolio.
Il cambiamento climatico è un tema che finalmente sta ricevendo dai media l’attenzione che merita, e quindi non mi soffermerò a farne la storia, che do per nota. Osserviamo per prima cosa che si tratta di un problema che può essere classificato nella rubrica “esaurimento delle risorse”. Le risorse che la natura ci fornisce, infatti, non sono solo le materie prime che prendiamo e utilizziamo, ma anche i “servizi naturali” che ci permettono di disfarci degli scarti di produzioni e consumi. L’atmosfera è stata, negli ultimi questi due secoli, fra le altre cose, una risorsa di questo tipo: una grande discarica dove abbiamo buttato uno degli scarti delle nostre produzioni, appunto la CO2 (e le altre sostanze climalteranti), facendo affidamento sui meccanismi naturali di riassorbimento. Ora questa risorsa si è esaurita, abbiamo cioè esaurito la capacità della natura di assorbire le nostre emissioni senza conseguenze pericolose, e dobbiamo fronteggiare questo problema sempre più grave. Il punto decisivo, a mio parere, è che un intervento effettivo sulle cause del cambiamento climatico significa un intervento massiccio sull’intera organizzazione economica e sociale del nostro mondo: in sostanza si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione nella produzione, negli approvvigionamenti, nel consumo, negli stili di vita, nei valori fondamentali. E non si vede davvero come sia possibile realizzare tutto questo nel breve tempo che, secondo gli studiosi, ci è dato prima che il cambiamento climatico diventi irreversibile. È cioè giocoforza pensare che un serio cambiamento climatico, con tutte le sue conseguenze devastanti, e largamente imprevedibili, sia ormai inevitabile.
L’altro grande problema a cui vorrei accennare è quello del possibile esaurimento del petrolio. È noto che al momento non si può parlare di esaurimento di questa risorsa: l’innovazione tecnologica (“fracking”) ha permesso infatti di sfruttare nuove fonti di idrocarburi (petrolio da scisto, “shale oil”). Il problema è che queste nuove fonti di idrocarburi sono mediamente più costose del petrolio “tradizionale”, e questo fatto è a sua volta il riflesso di un problema di fondo: occorre una quantità sempre maggiore di energia per estrarre una quantità fissa di energia (il ben noto “barile di petrolio”). Questa dinamica viene espressa dalla nozione di EROEI: “Energy Return On Energy Invested”, che è definito come il rapporto fra l’energia fornita (da una certa risorsa) e l’energia usata per ottenerla. In termini di petrolio, indica “quanto petrolio è necessario consumare per ricavare un barile di petrolio” (per una introduzione divulgativa si veda [8, pagg.82-86]). Il calcolo concreto di questo indice non è facile ed è quindi soggetto a oscillazioni, ma gli studi sul tema sembrano indicare, al di là di tali oscillazioni, una tendenza alla diminuzione del rapporto, cioè una tendenza all’aumento dell’energia necessaria per ottenere un barile di petrolio. Questo fatto è in armonia col principio generale dei rendimenti decrescenti delle risorse. Tale principio deriva dalla ovvia considerazione che le prime risorse ad essere sfruttate sono quelle più facili da ottenere, perché più economiche e quindi più redditizie. Quando i giacimenti più economici si esauriscono si passa a quelli più “difficili”, e in questo modo tanto più una risorsa viene sfruttata tanto più costoso, in termini energetici, diventa il suo ulteriore sfruttamento. È chiaro che è questo il punto fondamentale, piuttosto che l’esaurimento del petrolio in senso stretto: se la tendenza finora rilevata proseguirà, si potrà arrivare alla situazione nella quale per estrarre un barile di petrolio sarà necessario consumare un barile di petrolio, e a quel punto ovviamente il petrolio cesserà di essere una fonte di energia, anche senza essere arrivati al suo esaurimento.
È necessario naturalmente osservare che le tre modalità di crisi che ho fin qui rapidamente delineato non possono essere pensate come evoluzioni fra loro indipendenti. È chiaro che c’è un meccanismo causale dell’intera dinamica, e può essere indicato nella logica intrinseca del capitalismo, che spinge le nostre società all’accumulazione senza fine e senza limiti. È tale logica interna che porta alle crisi economiche e allo scontro degli imperialismi, secondo i meccanismi analizzati da Marx e dai marxisti, e porta altresì alla predazione nei confronti della natura, considerata come riserva infinita di risorse a costo basso o nullo. Una trattazione teorica adeguata a questa realtà dovrebbe dunque riuscire a ricostruire rigorosamente i legami fra la logica di fondo del modo di produzione capitalistico e le dinamiche delle tre crisi sopra delineate. Si tratta di un impegno teorico fondamentale, che ovviamente è al di là degli scopi di un breve scritto come questo.
Vediamo adesso di riassumere e concludere.
Il punto fondamentale del mio intervento è che la fine dell’attuale organizzazione sociale non deriverà da uno particolare dei fattori di crisi che ho fin qui elencato, ma dalla loro interazione. Come abbiamo detto, è probabile che i prossimi decenni siano dominati, dal punto di vista geopolitico, dalla contrapposizione fra USA e Cina, ciascuna delle due potenze, presumibilmente, al centro di un sistema di alleanze. È chiaro che uno scenario simile è il peggiore possibile, dal punto di vista di una politica efficace di contrasto al cambiamento climatico, perché una tale politica richiederebbe collaborazione, e non contrapposizione, fra le grandi potenze. Pensiamo, per fare un esempio, alla collaborazione internazionale che si è creata attorno al problema del “buco dell’ozono”, con la messa al bando delle produzioni industriali responsabili di tale fenomeno. È chiaro che per rispondere alla massa di problemi che si stanno addensando sul nostro futuro occorrerebbe un grado analogo di collaborazione. Ma il problema del cambiamento climatico non riguarda un settore limitato della vita economica, come nel caso del “buco dell’ozono”, ma, come si è detto, riguarda l’intero complesso dell’economia e in generale della società. I cambiamenti necessari implicano ovviamente un prezzo da pagare. E in una realtà di scontro fra potenze, ovviamente ciascuno cercherà di far pagare il prezzo maggiore all’altro, e in generale di indirizzare il necessario cambiamento nella direzione di un accrescimento della propria potenza. In sostanza, come ha fatto notare A.Ghosh [9], la discussione sui modi per mitigare il cambiamento climatico e passare ad una economia “post-carbon” è anche una discussione sulla distribuzione del potere globale. A maggior ragione se al tema del cambiamento climatico aggiungiamo tutti gli altri che potranno arrivare al pettine nei prossimi decenni (esaurimento di una o più risorse fondamentali, grandi migrazioni). Uno scenario futuro che possiamo immaginare è allora quello in cui blocchi di paesi contrapposti, sotto la guida di un paese egemone, si oppongono nella lotta per l’egemonia mondiale (magari con episodi bellici localizzati), in un contesto generale di stagnazione economica, mentre il cambiamento climatico causa emigrazioni di decine o centinaia di milioni di persone, e l’esaurimento delle risorse rende estremamente difficoltoso sostenere l’attuale sistema di produzione e consumo, d’altra parte necessario per non far crollare l’economia. E si potrebbero aggiungere altri elementi che ho trascurato per brevità (crisi idriche, diffusione di malattie). Probabilmente nessuno di questi problemi, singolarmente preso, sarebbe tale da causare il crollo della nostra attuale civiltà. Mi sembra però ragionevole ritenere che il loro accumularsi possa alla fine provocare una decisiva rottura.
Occorre allora cominciare seriamente a pensare come possa essere la vita oltre la fine del capitalismo. Bisogna partire dalla presa di coscienza che tale fine non sarà lo sbocco rivoluzionario delle lotte della classe sfruttata che liberando se stessa libererà l’umanità, non sarà il passaggio ad un livello superiore di civiltà, come aveva sperato il marxismo. Avverrà come collasso di una civiltà. Occorre quindi cominciare a riflettere seriamente su come costruire reti di sopravvivenza che possano permettere il mantenimento di livelli minimi di civiltà attraverso il collasso, e la loro trasmissione alle generazioni che affronteranno il mondo dopo il collasso della odierna organizzazione sociale.
Comments
https://principia-scientific.org/
https://planetaryvision.blogspot.com
Non ho coltivato un interesse specifico sull'argomento, che comunque mi incuriosisce per le dinamiche di confronto e di comunicazione che si sono manifestate. I media hanno dato molto risalto alla figura di Greta, per la sua anomalia, perché si presta per fare notizia, spettacolo; ma ho l'impressione che produca anche confusione, apprensione: non mi sembra utile né a capire il fenomeno, né eventualmente a contrastarlo (è patetico il messaggio che Greta pretende di inviare con la sua traversata dell'Atlantico su una barca a vela di proprietà di ricconi).
Sui media mainstream io non ho colto segni di un confronto scientifico sulla questione. Ad esempio mesi fa su Radio Radicale è stato intervistato il professore Alberto Prestininzi, e nel corso della trasmissione il professore aveva ripetutamente accusato di catastrofismo l'informazione circa il cambiamento del clima; l'intemerata del professore aveva sollevato vivaci proteste in una lista di discussione che frequento, dove sono presenti scienziati e professori di varie discipline scientifiche. Al mio invito ai protestatari di chiedere una contro intervista o un confronto mi è stato risposto che loro si rifiutavano di parlare con coloro che essi ritenevano degli incompetenti. Purtroppo il mondo scientifico è parecchio settario, molto più di quello economico e politico.
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Più di dieci anni fa l'aumento vertiginoso del prezzo del petrolio aveva messo in allarme associazioni e attivisti sul tema dell'esaurimento delle fonti fossili, che era dato per imminente. In effetti, in precedenza, un articolo su Le Scienze del 1998, The End of Cheap Oil, di due esperti del settore, Laherrère e Campbell, aveva anticipato e sposato la tesi allarmista. Ma oggi sembra che le nazioni dei produttori non riescano a mettersi d'accordo su come aumentare il prezzo del petrolio: quindi la situazione è contraddittoria, poco chiara.
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Ho seguito direttamente il progetto KiteGen per sfruttare i venti di alta quota, ho conosciuto personalmente il progettista, una persona che racchiude la competenza di 4-5 super ingegneri, che ha depositato una quarantina di brevetti che circoscrivono e blindano le soluzioni più vantaggiose. Teniamo presente che i venti di alta quota permettono di intercettare dei fronti molto più ampi e a velocità più elevate (la potenza estratta varia col cubo della velocità). Comunque a più di dieci anni dalla presentazione della tecnologia e dai primi voli dimostrativi, ancora non sono stati costruiti prototipi significativi. Questa situazione pone degli interrogativi circa le reali capacità delle attuali tecnologie nel controllare il volo di oggetti particolari come gli aquiloni di potenza. A questa tecnologia si sono interessate le maggiori società del settore energetico: qualche anno fa la società saudita Sabic aveva sostenuto il progetto con una cospicua dotazione finanziaria; mentre di recente c'è stato un accordo con la società Saipem.
Si pensi che un certo D'holbach sul "buon senso" scrisse un libro bellissimo.
Bravo Sandro che paragona il movimento capitalistico alla vita di un uomo: nasce, cresce e muore. Mentre molti intellettuali e cattedratici si rotolano nelle parole.
E' proprio vero: chi troppo scrive è perché non ha chiaro quello che vuole dire, mentre i concetti chiari hanno bisogno di poche chiare parole.
Michele Castaldo
Perciò, pur tenendo conto della serietà attuale del monito malthusiano sulla limitatezza delle risorse, non dobbiamo assumerlo come un dogma e restare intrappolati nei limiti concettuali del malthusianesimo. Non credo che il colpo decisivo al sistema capitalistico derivi dai limiti naturali. Ovviamente, non nego per nulla la crisi ambientale nella quale ci siamo impelagati e la sua importanza. Ma io penso che questa non sia un effetto della crisi del "progresso" in generale, bensì della crisi, come sottolinea anche Badiale, dei meccanismi di un modo di produzione determinato. Se è così, non è condivisibile la conseguenza che ne trae l'autore. Non condivido lo scenario apocalittico postatomico disegnato da lui e la cancellazione del ruolo decisivo della lotta di classe con il suo possibile sbocco in una riorganizzazione sociale che non si fondi sulla povertà, la penuria e la regressione ad una condizione quasi preistorica. Io credo che lo sbocco della crisi capitalistica possa essere il socialismo e il comunismo, con i "fiumi della ricchezza" che potranno scorrere liberamente. Salvo capire che la ricchezza concepita e indicata da Marx, lontana certamente dall'austerità reazionaria e religiosa, non è comunque l'abbondanza quantitativa delle merci, ma la ricchezza di valori d'uso sottratti alla logica della necessità della riproduzione allargata e dell'espansione compulsiva della catena del valore (con i suoi bisogni indotti, il feticismo, ecc.) e la ricchezza dei rapporti sociali tra individui coscienti e onnilaterali (possibile, però, solo in una società liberata dai bisogni impellenti, non in società povere ed austere dominate dal bisogno materiale e dalla fatica che occupano totalmente i pensieri e il tempo di vita).
La dimensione economica e politica è anche filosofica e antropologica. Per questo mi sembra che Eros Barone abbia ragione quando indica le carenze nello scritto di Badiale e tiene ferma una prospettiva di classe e socialista.
Un'ultima considerazione: dice bene Badiale quando sottolinea che probabilmente il capitalismo in futuro non potrà uscire dalla crisi da caduta tendenziale del saggio di profitto (a questo mi sembra rimandi) con l'espansione coloniale, poiché non c'è più, o non ci sarà più a breve, un primo mondo capitalistico egemone e dominante che può espandersi a piacimento e predare altre aree del mondo. Ciò a causa (io dico "grazie a") dell'emergere della Cina e del blocco alternativo coagulato intorno ad essa. Si tratta della cosiddetta Grande Convergenza. Solo che io penso che non ci sia speculare simmetria tra il blocco USA del vecchio mondo colonialista e il blocco cinese che ad esso si contrappone.
Comunque la si pensi, a mio avviso questo sarà un fattore che creerà il terreno per la ripartenza della lotta di classe per il socialismo. In occidente non ci sarà lo sbocco colonial-sciovinistico da offrire alle classi lavoratrici, le quali non troveranno più la comoda soluzione tradeunionistica a spese del terzo mondo, e in oriente la lotta di classe sarà necessaria per dare soluzione alle contraddizioni indotte dai rapporti di tipo capitalistico introdotti.
Come è possibile mettere sullo stesso piano storico il 1920 con il 2019 quasi 20? Ma dove vive questo signore? Cosa era la Cina nel 1920 e cosa è la Cina oggi? Cosa era l'India del 1920 e cosa è la l'India oggi? Cosa era l'Urss nel 1920 e cosa è la Russia oggi? potrei continuare all'infinito, sarebbe tempo perso.
In natura non esiste un movimento infinito, perché dovrebbe essere infinito il modo di produzione capitalistico? Esso può essere infinito solo per chi immagina di poter essere l'artefice della rivoluzione, ovvero di dirigere la storia.
"Povero diavolo, che pena mi fai" cantava Riccardo Cocciante e mai espressione sarebbe più appropriata per chi è tanto innamorato del proprio ombelico.
Michele Castaldo
Ci sono parecchi team e società che stanno studiando nuove fonti di energia dai venti di alta quota, che potrebbe aumentare di alcuni ordini di grandezza l'attuale potenza installata. Il progetto più promettente dal punto di vista concettuale è il KiteGen, ma è privo di un adeguato management, sia dal punto di vista tecnico che societario.
Il determinismo è una concezione molto seria e complicata perché fa leva sui fattori oggettivi piuttosto che sulla volontà dell'uomo o del libero arbitrio che dir si voglia.
In questo pezzo Marino Badiale esprime una posizione di natura determinista. Che in altri lavori - che non conosco - abbia potuto fare delle proposte come la decrescita felice o nei paraggi d'essa, negherebbe - ripeto se così fosse - il determinismo qui espresso. Perché delle due l'una: o il modo di produzione capitalistico è un movimento storico finito e deve perciò finire oppure esso è un modello correggibile con una decrescita.
La tesi che nega la possibilità che una classe disarciona l'attuale classe al potere per instaurare il proprio - tesi del Manifesto di Marx-Engels - è giusta proprio perché è sbagliata quella di Marx-Engels.
Michele Castaldo
Ma vivaddio:
Finalmente una riflessione di una certa serietà sul terreno del materialismo storico. Un ragionamento semplice e alla portata di tutti, senza astrusità mentali come si usa fare nella sinistra "marxista". Lui centra la questione argomentandola in modo egregio: il capitalismo non sarà abbattuto da una classe come aveva ipotizzato Marx e i marxisti ma arriverà al collasso. Se i "marxisti" si cimentassero correttamente sulla «impersonalità» del modo di produzione capitalistico non potrebbero che arrivare alle stesse conclusioni cui giunge Marino Badiale.
Ma questo vorrebbe dire mettere in discussione il proprio "io", cioè il libero arbitrio dell'uomo che sogna «una leva per sollevare il mondo», una leva ideale e arriva a fare proposte assurde senza capo e senza coda..
« sembra oggi mancare è proprio un bacino di risorse a basso prezzo da sfruttare. [...] la crisi attuale non sia una semplice crisi ciclica ma rappresenti l’inizio della fine per l’organizzazione sociale che ha dominato il mondo negli ultimi due secoli. »
« Il cambiamento climatico [...] classificato nella rubrica “esaurimento delle risorse”. »
« Bisogna partire dalla presa di coscienza che tale fine non sarà lo sbocco rivoluzionario delle lotte della classe sfruttata che liberando se stessa libererà l’umanità, non sarà il passaggio ad un livello superiore di civiltà, come aveva sperato il marxismo. Avverrà come collasso di una civiltà. »
Altrimenti detto: il Movimento storico degli uomini con i mezzi di produzione, che Marx definì Modo di produzione capitalistico, nacque, ebbe un suo poderoso sviluppo e come ogni evento di moto si avvia a collassare o implodere, dalle cui ceneri sorgerà un'araba fenice dai contenuti al momento sconosciuti ai comuni mortali.
Michele Castaldo