Print Friendly, PDF & Email

paroleecose

Comunismo interiore

di Francesco Pecoraro

[Cento anni fa, nella notte fra il 6 e il 7 novembre 2017, cominciava la Rivoluzione d’Ottobre]

Bela Kun Memento parkPer molti anni (ancora adesso è così) la Rivoluzione d’Ottobre è stata per me solo un pacchetto dis-articolato di immagini, neanche tanto nutrito, ma molto impressionante, collegato a un pacchetto di parole, frasi, slogan, libri da leggere mai letti, spesso comprati annusati aperti e furiosamente sotto-lineati, magari fino a pagina 15, e poi richiusi per sempre, perché mi sembravano difficili oppure troppo sollecitanti o troppo veri.

Anche la Rivoluzione del ’17 era troppo, troppo di tutto, un troppo inconcepibile, un risultato unico & inaudito & mai più ripetibile: tutto era stato fatto con incredibile fluida semplicità: fare fuori gli avversari interni al partito, fare fuori gli avversari esterni, fucilare lo Zar, porre fine alla guerra e poi, nella mia confusione di allora (e di adesso) diventare gradualmente tutti uguali, nel senso di spartirsi le risorse equamente e secondo giustizia in un processo che avrebbe dovuto condurre una volta per tutte al completamento della Rivoluzione Francese, cioè al regno di Égalité, che però, una volta insediatasi, avrebbe automaticamente comportato la soppressione di Liberté.

Ma quale libertà, ci dicevamo, è più importante della libertà dal bisogno? E subito qualcuno introduceva il dualismo libertà-di/libertà-da. L’ideologia aveva una risposta per qualsiasi domanda, bastava studiare, discutere, confrontarsi tra compagni: parlare con gli altri, cioè con i non-comunisti, era inutile, si finiva subito nel vicolo cieco argomentativo dell’indifendibile gulag. Non ci importava molto del gulag: insomma, ci avevano sbattuto i dissidenti, gli anti-comunisti e se ci era capitato in mezzo pure qualche comunista pazienza, la rivoluzione non è un pranzo di gala.

Quando ero piccolo, d’estate in campagna da mia nonna, sentivo spesso dire ai contadini del paese, soprattutto a quelli da cui mi si raccomandava di stare alla larga per le bestemmie che producevano in continuazione (da lì proviene il flusso di porcoddio e porcamadonna che ancora mi esce di bocca), Addavenì Baffone. Non capivo a quel tempo cosa volessero dire, ma oggi so che si trattava ancora delle onde gravitazionali emesse dall’Evento Rivoluzione meno di 40 anni prima.

Addavenì Baffone, udii più di una volta sibilare dietro le mie spalle di ragazzo gli operai sui cantieri di mio padre, dove lui mi trascinava nella speranza che un giorno avrei preso il suo posto. Oggi so cosa volevano dire al figlio del padrone, mentre stavo attento a dove mettere i piedi, visti i chiodi che spuntavano dalla miriade di palanche sparse: volevano dire Oggi stronzetto vieni qui e non ti facciamo niente, ma domani, quando anche per noi sarà arrivato il momento, per i figli di papà come te saranno cazzi. Anche quella era la Rivoluzione che si faceva sentire e, sotto forma di speranza & solidarietà, imponeva una sua fortissima presenza nella storia della Penisola e del mondo intero. Oggi sono convinto che tutto ciò che accadde dopo il ’17 fu, in modo diretto o indiretto, determinato dall’Evento di quell’ottobre.

Baffone imparammo dopo a distinguerlo dalla Rivoluzione, quando cominciammo a dire che una cosa era Baffone e una cosa la rivoluzione proletaria. Ma la parola Baffone fu per molti bambini la presa di contatto con qualcosa di diverso dalla realtà e dalla surrealtà ordinariamente accettate e insegnate nelle scuole che frequentavamo e nelle catto-famiglie piccolo-borghesi dove vivevamo, qualcosa di pericoloso, di diabolico (non esagero): il Comunismo. Vale a dire l’Antitesi della realtà e della società e della religione correnti. E questa Antitesi era anch’essa filiazione diretta della Rivoluzione.

Più tardi, la generazione cui appartengo prese nozione—sempre attraverso il filtro della propaganda occidentale oppure di quella del Partito—di chi fosse stato Stalin, di cosa significasse finire in Siberia, di cosa fosse stata l’invasione dell’Ungheria nel ’56, di cosa fosse la società sovietica e tutto il resto. Approvavamo dis-approvavamo a seconda della circostanza, ma la Rivoluzione d’Ottobre (pochi tra noi pre-ventenni ne sapevano davvero qualcosa) rimase sempre indiscutibile: era la sacra Discontinuità della Storia, la Frattura da cui erano traboccate all’esterno altre verità rispetto a quelle ufficiali, un’altra visione del mondo e soprattutto un progetto politico per il futuro dell’umanità. Questo ci pareva fosse stata e questo in fondo era stata.

Ma su tutto ciò che la Rivoluzione ci sembrava avesse prodotto, cioè su parole suoni immagini versi arte architettura—dei concreti risultati politici sapevo poco e, da piccolo-borghese d’occidente intriso di demo-americanismo, quel poco non mi piaceva più che tanto: pensavo Ok, la Rivoluzione facciamola, ma dopo che l’abbiamo fatta io me ne vado in un paese democratico: e anche questa era (ed è) doppiezza comunista—su tutto e tutti, dicevo, c’era un solo fonema: Lenin.

Dicevamo Lenin e non, secondo la dizione corretta, Lienin, perché questa era considerata affettazione intellettualistica, cercavamo di leggere Lenin, parlavamo di Lenin come se l’avessimo letto e non, solamente e continuamente, orecchiato. Lo stesso credo fosse per Troskij, o Trosky o Trochij o come cazzo si scrive. Tra noi, cioè tra i compagni di ciò che accadde/non-accadde nel ’68, c’erano quelli che discevano Rivoluzione Permanente, altrimenti il comunismo burocratico-repressivo è inaccettabile. Non sapevo, né ho mai saputo, cosa volessero dire, ma dopo uno sbandamento iniziale in cui vagheggiavo masse in rivolta perenne, prima contro il Capitale poi contro i Burocrati, sempre mi è sembrato un bla bla come ce n’erano tanti, un’altra utopia marginale rispetto al cuneo d’acciaio della Rivoluzione.

Una volta chiesi a un compagno più grande di me di un paio d’anni, uno che faceva parte di un mitico (per noi pischelli de Roma Nord) gruppo semi-segreto de marxisti che regolarmente si riuniva per discussioni teoriche—«Mentre voi state a perde tempo co’ Marcuse»—, quale libro di Lenin dovessi leggere e lui mi rispose infastidito «Che cazzo ne so, ha scritto 40 volumi!» Ne rimasi molto mortificato: non tanto del tono della risposta (era solo normale scortesia compagna), quanto di una domanda, la mia, formulata in modo così ingenuo e ignorante, che rendeva palese una verità imbarazzante: non avevo letto Lenin.

Allora a caso cominciai con Stato e rivoluzione. Le pagine che ne lessi mi conferirono una specie di agitazione mentale. Così, non solo avevo letto Lenin—in realtà nemmeno quel libro (forse il suo più bello) riuscii a finire—, ma lo avevo anche capito. In effetti era così, l’avevo capito. Avevo capito dello Stato che è sempre sostanzialmente espressione dei padroni e nei momenti decisivi te lo ritrovi che finge di mediare, ma è sempre dalla parte dei padroni.

Nei cineclub davano una continuazione (notti intere, mattinate sane, lunghi pomeriggi di proiezione) di cinema della Rivoluzione, Eisenstein e Pudovkin, soprattutto: La Corazzata, Sciopero, Arsenale, («…er cavallo che casca giù dal ponte, cioè ‘na cosa…»), Alexander Nevski e molta altra roba che oggi mi si rimescola nella memoria come un unico sterminato concitato, molto contrastato, movimento di masse oppresse in marcia, campi & controcampi, e appunto cavalli bianchi morti in caduta libera. Ma c’erano anche la poesia e l’arte e l’architettura. Studiavamo in dettaglio la casa collettiva Narkomfin di Mosei Ginsburg, perché lì c’era il superamento della concezione chiusa e piccolo-borghese della casa, quindi soggiorni comuni, socializzazione, gente costretta a stare insieme perché a casa non aveva nemmeno un salottino e già pronunciare la parola salotto te qualificava in un certo modo. Su tutto dominavano i costruttivisti e su tutti i costruttivisti dominava ai miei occhi il Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin, anche se la Tribuna di Lenin di El Lissitzky…

La visione del Sessantotto come replica in scala infinitesimale della Rivoluzione del ‘17 ci induceva a studiare l’originale, e persino, in campi e con mezzi e con cultura molto ristretti, abbastanza a fondo. La cosa ci aveva assorbito così intensamente che quasi non ci accorgemmo dell’invasione sovietica di Praga, o più probabilmente eravamo tutti tacitamente dalla parte dei carri armati russi, perché forse quella di Praga era davvero una contro-rivoluzione piccolo-borghese. Cioè forse il comunismo non poteva che essere stalinista, forse sarebbe sempre stato tale, perché, spiegavano i compagni spiegatori, l’attacco alla Rivoluzione del ’17 ancora continuava, sempre più spietato, in tutte le forme possibili «Ed è perciò», diceva un amico, «che non sapremo mai cos’è davvero il comunismo, perché mai ci consentiranno di realizzarlo» e quello che vediamo «non è altro che l’aborto, provocato dal capitale internazionale, di qualcosa di veramente nuovo e potenzialmente decisivo dei destini dell’umanità». Sono anch’io convinto che nel 1989 il comunismo non sia «imploso», ma, dopo 72 anni di guerra all’ultimo sangue contro il mondo intero, abbia preso atto della propria sconfitta e si sia arreso al capitalismo.

Fanculo, si diceva, se Lenin fosse campato altri vent’anni le cose non sarebbero andate così. Na, si obbiettava, nel leninismo c’è il germe dello stalinismo. Certo, si controbatteva, e secondo voi in quale altro modo si sarebbe potuta fare la Rivoluzione? Inoculando il socialismo nelle masse dal basso, come credevano i social-democratici e gli empirio-monisti piccolo-borghesi di Bogdanov? La discussione sul principio autoritario, anzi totalitario che sottende l’Ottobre del ’17 con tutte le sue conseguenze, non è mai finita, si è solo spenta da sé per mancanza di competitori dialettici, anzi, per mancanza di veri difensori del comunismo e dei suoi principi.

Dopo l’89 comincia la distruzione di migliaia di statue di Lenin, che dura ancora oggi: giovani, che non sanno chi sia stato e cosa veramente abbia fatto, si accaniscono con fiamma ossidrica a farlo a pezzi, lo buttano giù tirando tutti insieme con funi di acciaio, ne calpestano ridicolmente il volto gigantesco. Altri monumenti, come quelli eretti a Stalin, furono già a suo tempo rimossi a cura del post-stalinismo di stato, tranne qualche esempio periferico e sporadico.

I monumenti del passato, buoni o cattivi che siano, li vorrei lì, tutti insieme, nei loro luoghi di competenza, vorrei le città piene zeppe di statue, su piedistalli in piedi e a cavallo, solitari e di gruppo, vorrei che non si cancellasse mai il passato, ma che ce lo portassimo dietro tutto, compresi i fasci littori sui palazzi, i busti di Mussolini. Sono abbattimenti democratici contro il culto della personalità, si dice. Ok, allora buttiamo giù Napoleone e Nelson dalle rispettive colonne, facciamo saltare le teste del Monte Rushmore, oppure bruciamo i ritratti di Lorenzo il Magnifico, abbattiamo l’orrida effige in bronzo di James Brown ad Augusta, GA, Stati Uniti.

Dopo tutto questo tempo mi sono reso conto di amare Lenin, la sua spregiudicatezza, il cinismo tagliente, la lucidità politica, la sua volontà tesa unicamente allo scopo, in pratica la sua intelligenza inumana. Aliena era sicuramente quell’immensa fronte bombata, che mi piace immaginare frutto di una segreta fecondazione extra-terrestre di cui sua madre mai si sarebbe resa conto… Personalmente umilmente inutilmente privatamente, ho cercato di non ridiscendere mai il gradino, forse più di uno, che la Rivoluzione ha scolpito nella pietra della Storia. Così sono entrato a far parte della schiera sempre più esigua dei comunisti interiori, che a nostra insaputa ancora si aggirano tra noi, ogni tanto tradendosi con una mezza parola, qualcosa di ideologico che, per chi non sa riconoscerlo, suona misterioso strano antico.

Add comment

Submit