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carlobertani

Cambiare materiali, filosofie di progetto o modello?

di Carlo Bertani

savona a6 crollo viadotto 4Con l’Autunno, è arrivata la solita sequenza di disgrazie meteorologiche: in fin dei conti, è piovuto quattro giorni di seguito, e quattro giorni di pioggia sono bastati per mettere in crisi il sistema di trasporto italiano.

Una parte di responsabilità l’hanno, ovviamente, i mutamenti climatici in atto, basti pensare che, nel 2018, la temperatura massima del Mar Tirreno giunse a 26°, mentre nel 2019 è giunta a 29°, l’Adriatico a 30°.

Come se non bastasse, s’approfondisce lo strato di acqua che si riscalda – separata dal cosiddetto “termoclino”, che le divide dalle acque di fondo, che rimangono sempre alla massima densità di 4° – il problema è che mentre, prima, il termoclino s’assestava intorno ai dieci metri di profondità, oggi arriva a venti, il doppio.

La quantità di energia che le acque marine contengono, al termine della stagione estiva, è incommensurabile: sono quantità paragonabili a circa 50 volte il consumo elettrico annuo nazionale!

Si dà il caso che questa energia sia destinata a giungere in atmosfera con la fase di omotermia invernale, e allora osserviamo – come nel 2018 – i cicloni oppure, come nel 2019, le piogge “monsoniche”, che devastano il territorio.

In altre parole, l’energia può avventarsi col vento ed aumentarne la velocità, oppure sorreggere i fronti ciclonici e sommergerci con le acque.

In un modo o nell’altro, e qualunque sia la ragione, dobbiamo farci i conti.

L’altro problema, riguarda la specificità del territorio italiano.

Fatta salva la situazione della Pianura Padana – che deve, comunque, fare i conti con le bizzarrie dei vari fiumi che scendono dalle Alpi – il resto del territorio è tutto collinoso o montagnoso, salvo qualche modesta pianura costiera. Molto diversa dalla situazione francese – che ha solo montagne importanti al centro – da quella tedesca – tutta compresa fra la valle del Reno ed i lontani Carpazi – quella spagnola la quale, a parte la Catalogna, è quasi tutta un altopiano senza grandi rilievi o quella inglese, che – Scozia a parte (ma scarsamente abitata) – non possiede rilievi importanti.

Di più, l’Italia deve fare i conti con un’attività sismica costante e devastante, che ogni due per tre ci mostra segni di distruzione, per vite umane ed ambiente.

Come può essere armonizzato un simile territorio con il problema dei trasporti?

Tutte le linee di trasporto che corrono via terra sono suscettibili di danni, da parte delle piogge, dei cicloni o dei terremoti, sia per l’aspetto viario che per quello ferroviario.

Germania, Scandinavia, Gran Bretagna, Europa dell’Est, Francia e Spagna (salvo l’Andalusia meridionale) sono zone non sismiche, e non si ha notizia storica di un terremoto come quello di Amatrice in tutta l’Europa del centro-Nord, dell’Ovest e dell’Est. Al contrario, Italia, Grecia ed ex Jugoslavia sono bersagliate quasi ogni anno dai sismi, talvolta devastanti. Oggi è toccato all’Albania.

Fare presente in sede europea che la situazione italiana è veramente speciale, per rischi e continue spese di riparazione è giusto e necessario, ma non risolve il problema, che ha una soluzione limpida…come l’acqua. Di mare.

I nostri avi non avevano i mezzi per costruire una rete autostradale, ma finché durò l’Impero Romano le navi – che navigavano solo da Marzo ad Ottobre per editto imperiale – rifornivano e commerciavano con ogni parte dell’Impero: le lunghe strade consolari non venivano usate per trasporti onerosi su lunghe distanze, bensì per il traffico dei militari o per i corrieri veloci. Dopo, Genova, Pisa, Venezia ed Amalfi continuarono la tradizione di trasportare sull’acqua, una tradizione che durò fino all’avvento della ferrovia.

Per questa ragione l’Italia è ricca di una tradizione marinara quasi ineguagliabile in Europa, basti pensare alla lista dei porti minori e maggiori:

Imperia, Savona, La Spezia, Piombino, Porto Ercole, Civitavecchia, Salerno, Augusta, Reggio Calabria, Gela, Porto Empedocle, Trapani, Olbia, Porto Torres, Alghero, Oristano, Crotone, Taranto, Otranto, Molfetta, Termoli, Pescara, S. Benedetto del Tronto, Ancona, Porto Garibaldi, Chioggia, Caorle, Grado…ad essi vanno aggiunti, ovviamente, i grandi porti: Genova, Livorno, Napoli, Palermo, Cagliari, Brindisi, Bari, Venezia e Trieste.

Tutto questo, ci racconta una realtà inequivocabile: quasi ovunque, in Italia, si trasportava via mare.

Ebbi un’esperienza illuminante ad Umag (Croazia) alcuni anni or sono: il porto di Umag è abbastanza grande e non molto utilizzato però, fuori del porto, c’era un solitario e modesto molo con una gru. A cosa serve? Chiesi.

Ah, niente… – mi fu risposto – era ai tempi di Tito…sa, allora le merci arrivavano tutte via mare…

A ben pensarci, era il modo più semplice di rifornire e trasportare le merci sul lunghissimo litorale dalmata, che comprende circa 900 isole, 100 delle quali abitate. E chi lo aveva inventato quel sistema? I Veneziani!

E’ pur vero che le grandi città sono distanti dal mare, ma ciò non toglie che si possa rifornirle via ferrovia o via canale, se qualcuno si decidesse a costruirli: la tanto vituperata Europa ci ha offerto un miliardo di euro, sui due complessivi, per terminare il canale che collegherebbe Milano al Mar Adriatico, ma l’ultimo presidente di Regione che se n’è occupato – Roberto Maroni – non ha saputo far altro che creare un “tavolo di discussione”. Saranno ancora là che giocano a scopone.

Si è parlato molto, e a proposito, della svendita del sistema autostradale pubblico, che ha privato l’ANAS (e, dunque, la collettività) di un cespite di ricchezza sicuro e continuo, quasi regalato ai privati.

Ora, che il sistema autostradale è molto anziano – dopo circa sessant’anni dalla sua creazione – riprendersi le autostrade sarebbe il più bel regalo che si potrebbe fare ai Gavio ed ai Benetton, ossia togliere loro la concessione. Si potrà anche togliergliela ma – riflettiamo – oggi siamo di fronte ad un momento critico: la rete autostradale (oltre alle strade di grande scorrimento) sta giungendo al collasso. Dal 2014, Benetton già sapeva che il ponte Morandi era a rischio di crollo, ma non fece nulla per evitarlo. Rimetterlo nelle mani dello Stato – pur giusto per come l’hanno trattato – non sarebbe conveniente perché bisognerebbe immediatamente varare una serie d’interventi dai costi astronomici. E loro, zitti zitti, se la sono goduta fino ad oggi. Se, oggi, decidessimo di riprendere il sistema autostradale in mani pubbliche, dovremmo inserire in Costituzione una norma che impedisca, dopodomani, di darle in appalto nuovamente.

Perché tutto questo?

In parte per un naturale deterioramento dei manufatti, dall’altra per la scelta del cemento al posto dell’acciaio, ma anche per il volume dei traffici, che sono diventati astronomici: tutti noi, che abbiamo transitato sul ponte di Genova, avvertivamo scosse ogni circa 50 metri e, se avevamo davanti un camion, lo vedevamo sobbalzare sulle barre di ferro che rinforzavano la carreggiata.

Il sistema autostradale italiano è stato costruito per le automobili: all’epoca, circolavano anche i camion, ma non nella misura attuale e né nelle dimensioni.

Dobbiamo riflettere che sistema autostradale, quando fu progettato – fra gli anni ’50 e quelli ’60 – non conosceva ancora l’autosnodato! Il quale entrò in scena soltanto verso la fine degli anni ’60 ma non nei termini odierni: i grandi e pesanti trasporti sulle lunghe tratte, avvenivano per ferrovia!

Attualmente, un autoarticolato pesa, a pieno carico, 44 tonnellate, ossia quanto 44 automobili, ma il problema non è che “un camion vale 44 macchine”, non è questo il problema. Il vero problema è che l’autoarticolato ha un peso per asse massimo di 9,5 tonnellate, ossia è come se passassero, in brevissimo tempo, cinque automobili da 9,5 tonnellate ciascuna, quando un’automobile pesa all’incirca una sola tonnellata e, dunque, mezza tonnellata per asse. Il “tu-tun” che avvertite sui viadotti, vale mezza tonnellata per le auto e 9,5 tonnellate per l’autosnodato.

Lo stress al quale sono sottoposte le strutture è evidente: un martellamento continuo, indifferente al tempo, alle stagioni ed al clima, che disarticola le strutture portanti. Difatti, per i carri ferroviari – che hanno un peso per asse che varia dalle 16 alle 22,5 tonnellate (non molto distante dalle 9,5 di una autoarticolato) – si prevede una strada ferrata appositamente costruita. Invece, 9,5 tonnellate “in continuo” sono considerate una “normalità”. La corruzione e i falsi report “consolatori” redatti dagli ingegneri collusi, hanno poi fatto il resto: difatti, Gavio finanzia la fondazione di Renzi mentre Benetton quella di Toti.

La scelta del cemento, infine, ha fatto il peggio: all’epoca di costruzione del sistema autostradale l’Italia non aveva una sufficiente produzione d’acciaio – difatti, si costruirono ben 4 grandi centri siderurgici e Gioia Tauro doveva diventare il quinto – e lo stesso ing. Morandi che costruì il ponte di Genova era perplesso sulla durata del manufatto, che non prevedeva oltre i cinquant’anni. Ma l’acciaio non c’era e, inoltre, era costoso: l’industria automobilistica si accaparrava la produzione nazionale e lo importava anche da altri Paesi.

Solo per citare un esempio, il ponte di Brooklyn – in acciaio e granito – è in piedi dal 1883 e sta benissimo.

Se vogliamo essere impietosi verso quelle classi politiche, dobbiamo ricordare che il primo, enorme, allucinante fallimento fu la Salerno-Reggio Calabria, del quale nessuno se ne assunse la paternità. Lasciando per un attimo stare gli evidenti episodi corruttivi che ci furono, dobbiamo riconoscere che l’uso del cemento armato fu messo a dura prova nello scenario più difficile che ci fosse nel Paese (Sila ed Aspromonte) – per l’ardire delle costruzioni e l’evidenza del territorio impervio, più la scarsa “tenuta” delle rocce e dei sedimenti in genere – portò ad un fallimento epocale, che ancora oggi non ha trovato soluzione. Lo Stato s’è arreso togliendo il pedaggio sulla tratta: non costa niente, arrangiatevi.

Oggi, è inutile che uomini politici come il Presidente della Liguria – Toti – faccia il verginello, affermando che senza autostrade il porto di Genova non può continuare a smaltire 4.000 TIR il giorno: inoltre, già che c’era, ha accettato anche i nuovi sbarchi di Vado Ligure, altri 800 TIR il giorno della Maersk da sistemare, senza più autostrade. Ma Toti conosceva la situazione, sapeva che il crollo del Ponte Morandi era stato solo il campanello d’allarme di una situazione che stava degenerando.

L’Ing. Paolo Forzano, di Savona, da mesi aveva denunciato lo stato di degrado dei piloni autostradali liguri, presentando esposti alla Procura savonese, dei quali non si conoscono gli esiti.

Non si tratta della scoperta dell’ignoto, bensì soltanto del naturale degrado del cemento armato, che ha una durata di 40-60 anni. Se ci aggiungiamo un po’ di corruzione negli appalti e nei materiali, ancora meno.

Perché è evidente che con i falsi rapporti non si può andare avanti, e nemmeno nascondere la testa nella sabbia è la miglior soluzione, parafrasando Lenin, non ci resta che porci l’annosa domanda: che fare?

Abbiamo di fronte tre strade:

1) Ricostruire gran parte dei tracciati autostradali: le autostrade liguri – tutte – per uno sviluppo di centinaia di Km e per un costo di molte decine, forse centinaia di miliardi. Si tratta, “semplicemente”, di sostituire i viadotti in cemento con corrispondenti viadotti in acciaio: non ho idea, oltre ai costi, ai tempi necessari per una simile impresa. Anche l’autostrada adriatica mostra i primi segni di degrado: è soltanto un po’ “indietro” il livello di usura. E poi c’è la Salerno-Reggio Calabria l’eterna incompiuta. E manca sempre l’autostrada ionica, che dovrebbe congiungere Reggio Calabria con Taranto. Come potremo mai far fronte ad una simile impresa? Con i lacci ed i laccioli che l’UE pone per gli interventi dello Stato nell’economia?

2) Tornare al cabotaggio costiero, ossia le grandi portacontainer oceaniche dovranno smistare i loro carichi su navi più piccole, le quali potrebbero essere dirette sulla portualità minore e maggiore, in Italia ed all’estero: non sarebbe poi così difficile inviare le navi a Barcellona, Valencia, ecc…oppure a Napoli, Bari, Livorno…più tutta la portualità minore. Per attuare un simile progetto abbiamo a disposizione Fincantieri, una delle massime espressioni mondiali della cantieristica: un solo neo…è una società pubblica che genera ricchezza e dividendi azionari…insomma, l’evidenza che il pubblico, a volte, funziona meglio del privato. E questo no, non piace proprio.

Per lo smistamento dei container, oggi c’è il sistema informatico Maersk collegato alle gru, in grado di “pescare” i singoli container con precisione nel carico della nave maggiore e condurli ad un’altra utenza. Basterebbe sostituire i camion con le navi minori. Attrezzare i porti minori con qualche nuova gru non sarebbe nemmeno paragonabile, come costo, al rinnovamento del sistema autostradale.

Il sistema autostradale – rivisto e corretto laddove ci sono i problemi maggiori – potrebbe continuare a funzionare per il traffico leggero, ovvero automobili e per il traffico merci minore: la differenza, rispetto a prima, è che non dovrebbe più essere sottoposto allo stress di migliaia di camion pesanti il giorno.

Per catalizzare il traffico verso il mare, sarebbe opportuno aumentare i pedaggi autostradali per i TIR e riversare, l’importo, come sgravio sui porti e sulle navi minori: questo perché, lo Stato, deve accollarsi una spesa occulta, quella della manutenzione del sistema autostradale, che i grossi pesi concorrono ad aumentare. Lo dico, ovviamente, per ricordare che se non lo fa lo Stato non lo fa nessuno: i privati si mettono i soldi in tasca e, all’occorrenza, scappano.

3) La ferrovia, in Italia, è negletta e dimenticata. Nei parchi merci arruginiscono capannoni e gru mentre la direzione delle FFSS è soltanto diretta a fare concorrenza ad Alitalia sulle tratte veloci: Frecciarossa! Frecciabianca! Frecciargento! A cosa serve?

A trascurare proprio dove servirebbero le Ferrovie, ossia nelle tratte merci minori e nei servizi all’utenza, con il bel risultato di sottrarre commesse ad Alitalia, che è in crisi. Mi domando se ci siamo ancora col cervello.

Una volta giunte in porto – sia dalle grandi portacontainer, e sia dalle navi minori – la ferrovia, ed anche gli autosnodati, dovrebbero occuparsi della consegna sulle tratte brevi.

Questo era l’obiettivo europeo da raggiungere nel decennio 2000-2010! “Solo le tratte inferiori ai 50 km dovrebbero essere di competenza del traffico su gomma”. Non lo dico io, lo dissero loro in un documento ufficiale!

Poi, iniziò la grande dismissione delle tratte minori, la soppressione delle linee e, contemporaneamente…il grande assalto (vedi TAV) alle tratte veloci internazionali. Follia pura, capitanata e gestita da Mauro Moretti, il quale dichiarò che “Il settore delle merci nelle Ferrovie dello Stato era identico a quello del 1905 come se i camion non fossero mai esistiti…”, poi condannato a 7 anni di prigione per la strage di Viareggio ed oggi sindaco in attesa che la Cassazione si pronunci.

Nell’attesa, il settore merci delle FFSS è stato demolito, a tutto vantaggio dei camion, che oggi esistono, vero Moretti? Ma guarda un po’.

Un grande problema, in Italia, sono le strade minori, soprattutto le strade provinciali che sono circa il 75% delle tratte: abolite le Province, hanno abolito anche le strade. Ci doveva essere anche una puntuale e precisa ridistribuzione dei compiti e dei finanziamenti…ma…osservando le strade, nello stato in cui sono, vi fate un’idea di com’è andata la faccenda?

Inoltre, i tracciati sono vecchi di secoli, ossia le attuali strade sono in gran parte le “pronipoti” dei tracciati – decisi nei secoli della trazione animale – per collegare i centri abitati. Ciò, comportò all’epoca delle decisioni:

1) Non si potevano affrontare pendenze gravose, perché buoi e cavalli non ce l’avrebbero fatta.

2) Le strade non dovevano “invadere” troppo le proprietà private, e allora passavano sui confini della proprietà, per scontentare il meno possibile gli abitanti.

Questo, duplice problema condusse a strade tortuose e sempre con un bordo verso valle: proprio le sezioni che oggi cedono e franano e che ci obbligano ad una costosissima manutenzione. E ci si può fare ben poco: non certo caricarle del peso degli autosnodati, che aumentano ancora il problema!

Se avete viaggiato in Francia, in Gran Bretagna o in Germania, vi sarete accorti che le strade affrontano le colline (certo, non le montagne!) con angoli molto alti, ossia, le prendono “di petto”, con pendenze piuttosto accentuate, che i mezzi meccanici, oggi, possono affrontare. Ciò evita l’eterno pericolo di frane (a monte) e di cedimenti (a valle). Le montagne, poi, vengono attraversate, se possibile e conveniente, mediante gallerie, mentre fiumi e bracci di mare sono attraversati da ponti molto arditi in acciaio.

In Italia, probabilmente, si scelse la via meno onerosa – ossia utilizzare l’esistente – ma, per molti anni, vi furono Comuni, Province e le Case Cantoniere a pensarci: con l’abbandono di questi “costi” per la collettività, il risultato è che ha piovuto per quattro giorni, e la Liguria – ad esempio – ha quasi perso completamente il suo patrimonio viario, non essendo più in grado di garantire un collegamento sicuro col Piemonte e la Lombardia. L’unica autostrada ancora pienamente in efficienza è la vecchia A7, che risale al 1935! E lo è non solo perché (forse) all’epoca si costruisse meglio, ma perché si preferiva “seguire” il territorio (con molte curve) piuttosto che lanciarsi nel costruire viadotti.

L’annosa domanda – che fare? – posta sopra, qualche risposta l’ha avuta:

1) Dobbiamo eliminare, il più possibile, il traffico di mezzi pesanti da strade ed autostrade, per trasferirlo sul mare o sulla ferrovia per le medie tratte: il camion deve intervenire solo per le tratte fino a 50 km (lo sancì l’UE, nel suo documento citato, nel 2000, non me lo sono inventato io);

2) Dobbiamo mettere in cantiere una classe di navi di medie dimensioni, in grado di caricare/scaricare container nel sistema della portualità minore. Inoltre, dobbiamo attrezzare con i mezzi adatti una trentina di porti minori in tutta la Penisola;

3) La ferrovia deve smettere d’esser pensata come un mezzo in concorrenza con l’aereo. Può anche farlo, ma non a spese del suo compito precipuo: far viaggiare persone e merci sulle medie distanze.

Una soluzione al problema?

Non me lo sogno neppure. Passata l’emergenza, defluita l’acqua alta da Venezia, rabberciate le autostrade e le strade alla belle e meglio, i politici ricominceranno a guardare alle loro belle “fondazioni”, dalle quali mungono soldi in cambio dei “favori” che elargiscono a lor signori. Così si completerà il Mose e i viadotti torneranno a marcire, fino al prossimo “disastro”.

Non fatevi illusioni.

Comments

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Paolo Selmi
Sunday, 08 December 2019 18:48
Caro Carlo,
complimenti per il tuo lavoro, estremamente dettagliato e "tecnicamente ineccepibile", come già notato negli interventi precedenti.
Il problema è che il sistema della logistica e dei trasporti, delle "infrastrutture", è strettamente connesso, è lo specchio, mi verrebbe da dire, del sistema economico nel suo complesso, del nostro modo di produzione, del "capitalismo con caratteristiche italiane". Per cui per cambiare questo mondo occorre cambiare l'universo a cui esso è collegato. "O tutto si tiene, o niente si tiene".
Qualche esempio concreto: in una vita precedente la ditta per cui lavoravo aveva il suo trenino, che partiva da Genova e portava in una stazione del nordovest, di cui aveva acquisito parte del patrimonio immobiliare in dismissione, grazie a cui teneva la logistica per il nord-Italia a una nota casa automobilistica francese (il colpo d'occhio delle macchine parcheggiate, che arrivavano anch'esse in treno da oltralpe, era impressionante). I tempi dell'intermodale, e il risparmio che derivava dall'utilizzo di un treno al posto di trenta, quaranta motrici, costituivano un'abbinata vincente per questa ditta, che basava il proprio profitto su un uso massiccio di risorse da investire (il contratto con FS per il trenino, l'acquisto dell'area adiacente alla stazione, le motrici a disposizione, carri ponte, ecc.) per poi vincere gare di appalto e portare a casa lavori con prezzi su cui altri concorrenti ben poco avevano da dire.

La composizione organica delle merci in entrata e in uscita, tuttavia, è tale per cui questo tipo di tempistica e modalità di trasporto risulti inattuabile. La nave arriva, il container non è ancora scaricato che è già sdoganato (l'allibramento è fatto a nave in arrivo), se non esce visita fa appena in tempo a essere posizionato che deve esserci una motrice pronta a caricarlo e a consegnarlo il giorno dopo alle otto in una logistica del nord italia. Poi salta qualcosa al VTE, è da vent'anni che un giorno si e uno no salta qualcosa, e il mezzo carica il giorno dopo mattina presto ed esce alle otto, per arrivare in tarda mattinata in consegna. Uno special equipment (non un 20 o un 40 normale) dopo DUE giorni di franchigia con paga 110 euro di sosta al giorno (EVERGREEN), spesso alla fine del secondo giorno di franchigia la nave, che ha aspettato il suo turno in rada ed è entrata in ritardo, ha fatto a malapena in tempo a scaricare. E giù un altro cinema.
Se queste sono le tempistiche dell'import, non parliamo dell'export. La nave chiude il giorno x a mezzo giorno, la merce è pronta in fabbrica lo stesso giorno alle otto, mai due giorni prima. E' il capitalismo, bellezza, sempre tutto all'ultimo momento... e se non ti va bene, la fila è piena di trazionisti rumeni, baltici, polacchi, pronti a fare tanti bei frisbee dei loro dischi orari e per una paga oraria come da contratto nazionale rumeno, lettone, lituano, estone e polacco. E' l'unione europea...
E il via aerea? Ieri ritiro a Prato, oggi arrivo a magazzino, dogana e consegna a Malpensa nel pomeriggio, in export. In import, ieri arrivo volo, richiesta spunta urgente, dogana oggi, ritiro e consegna, neanche stessimo consegnando un polmone artificiale per un'operazione. No, tutto così perché chi deve approvvigionare, il capitalista cinese, indiano, coreano, mette il capitalista italiano in coda agli altri, poi non c'è spazio sul volo alla tariffa da fame recuperata per spedire CFR malpensa a un piffero e a un paffero... e chi deve correre perché altrimenti la linea si ferma? O si blocca la distribuzione?

Ecco perché lo schifo che denunci, giustamente e a ragione, è strettamente connesso a un modello economico che NON SI PUO' NON SOTTOPORRE, altrettanto rigorosamente e senza alcuno sconto, a critica.

Perché un altro modo di trasportare è possibile SE E SOLTANTO SE A CAMBIARE E' ANCHE IL MODO DI PRODUZIONE. Se la parola "pianificazione" ha ancora un senso, è questa la soluzione per non ridursi all'ultimo momento. E pianificazione senza proprietà sociale dei mezzi di produzione non è pianificazione, è programmazione dell'improgrammabile, lasciato all'anarchia di un capitalismo sempre più sregolato dai tempi in cui, ai tempi del primo centrosinistra mezzo secolo fa, si iniziò a parlare, fermandosi poi perlopiù alle parole, di "programmazione economica".

La Bol'šaja sovetskaja enciklopedija, alla voce Transport,
https://www.booksite.ru/fulltext/1/001/008/106/987.htm
ci mostra una bella tabella dove impariamo che, nel 1975, questa era la composizione organica della rete dei trasporti merci nel Paese dei Soviet:
- via rotaia 62.2%
- via mare 14.1%
- via fiume 4.3%
- via gasdotto/oleodotto 12.8%
- via terra 6.5%
- via aerea 0.1%

per un traffico merci aumentato su questi ordini di grandezza (milioni di tonnellate):
1928 - 156,2
1940 - 605,1
1950 - 834,3
1960 - 1884,9
1970 - 2896,0
1975 - 3621,1
(sempre perché nelle ultime tre date la vulgata gorbacioviana, eltsiniana, gaidariana e compagnia bella parlava di "stagnazione"... se questa è stagnazione)

Quindi, se tanto mi dà tanto, un traffico merci in aumento con queste proporzioni, gestito via terra soltanto per il 6.5%, in Italia sarebbe una bestemmia teorica, prima ancora che pratica. "E' impossibile", "non faremmo in tempo a fare niente", "voi vivete sulle nuvole", oppure, "ci volete morti!", "volete uccidere l'economia italiana"... quante variazioni sul tema sentiremmo dalle orchestre sinfoniche di Konfindustria, banchi del governo, associazioni di categoria. "Eppur si muove"... Grazie ancora di questo prezioso lavoro e
un caro saluto.

Paolo
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Leonardo Libero
Saturday, 07 December 2019 19:16
E' (o, era) tanto radicato il trasporto via mare nella tradizione italiana che era ancora praticato, almeno su rotte costiere, durante la guerra 1940-45, pur con tutti i rischi che ciò comportava, Limitava tali rischi la assistenza dei Semafori Marittimi, che erano distribuiti lungo le coste a distanze tali da potersi passare via radio , da uno all'altro, l'avvistamento ed il "fuori vista" di ogni nave.in transito. Io stesso, nel 1942. ho visto operare così quello di Portofino Vetta . Purtroppo, dopo la guerra, col pretesto che l'Italia l'aveva ripudiata e considerando i Semafori impianti esclusivamente militari (mentre erano preziosi sopratutto per il traffico merci e da diporto) un Governo li ha aboliti. Decisione molto sospetta considerato che, ad esempio, i traffici petrolieri mai chiariti che hanno causato la tragedia del Moby Prince non sarebbero sfuggiti ad uno o più semafori e la tragedia probabilmente evitata.
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Mario M
Saturday, 07 December 2019 15:12
"Ora, che il sistema autostradale è molto anziano – dopo circa sessant’anni dalla sua creazione – riprendersi le autostrade sarebbe il più bel regalo che si potrebbe fare ai Gavio ed ai Benetton, ossia togliere loro la concessione."

Eh, no. È stato commesso un madornale errore nel consegnare le autostrade, che sono un monopolio naturale, ai privati, e ora vogliamo proseguire nell'errore!? La rinazionalizzazione con la gestione pubblica costerà, certo, ma presumo che costerà di meno che lasciare le autostrade ai privati. Teniamo presente che solo il pedaggio Torino Milano è oltre 15€, più del prezzo del biglietto ferroviario: siamo alla follia. Altre tratte come la Torino Aosta o Bardonecchia, in rapporto al chilometraggio , costa ancora di più.
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CLAUDIO DELLA VOLPE
Saturday, 07 December 2019 12:56
grazie! da anni non leggevo cose così sagge e tecnicamente ineccepibili; ottimo articolo
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