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Possiamo salvare il pianeta prima di cena, ma non lo faremo

di Paolo Costa

na 5d5d3c780932bL’ultimo libro di Jonathan Safran Foer – Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi – poggia su un’intuizione tanto interessante, quanto filosoficamente problematica. In breve, la sua tesi è che noi umani sappiamo di essere sull’orlo di una catastrofe senza precedenti, ma non riusciamo a credere veramente a questa verità semplice.[1] E non ci riusciamo perché si tratta di una verità letteralmente incredibile in quanto crederci fino in fondo metterebbe a soqquadro il nostro modo ordinario di incorniciare l’esperienza. Per citare le sue stesse parole, non lo crediamo perché «credere dovrebbe immancabilmente far sorgere in noi l’urgente imperativo etico che ne consegue, smuovere la nostra coscienza collettiva e renderci pronti a compiere piccoli sacrifici nel presente per evitare sacrifici epocali in futuro».[2] Di fatto, però, siamo abulici e questo dimostra empiricamente che non ci crediamo con tutto noi stessi, che questo sapere, insomma, non lo «sentiamo» nostro.

L’analogia a cui ricorre Foer per chiarire che cosa sia una verità nota ma non credibile (perché inverosimile) è scontata per chi conosce anche solo superficialmente i suoi precedenti scritti. Le prime notizie che giunsero in Europa e poi in America sullo sterminio sistematico degli ebrei nei territori conquistati da Hitler – il genocidio che da qualche anno abbiamo imparato a chiamare rispettosamente «Shoah» – sembrarono a molti troppo assurde per essere vere e i pochi testimoni oculari vennero ritenuti non attendibili. Perché mai qualcuno sano di mente avrebbe dovuto spendere soldi ed energie per fabbricare migliaia di cadaveri di un popolo inerme dopo essersi imbarcato in una guerra rischiosissima contro mezza Europa? Quale odio irrazionale poteva giustificare una strategia così palesemente autolesionista?

A pensarci bene, è un po’ come quando al telegiornale veniamo a sapere di quei buoni padri di famiglia depressi che prima di suicidarsi sparano alla moglie e ai figli piccoli: chi è che si sofferma più di tanto a soppesare l’enormità del fatto e a farla quadrare con ciò che ci è già noto del mondo? Sappiamo ma non ci crediamo, perché credere significherebbe scavare troppo a fondo nei recessi più bui dell’animo umano, dell’evoluzione cosmica o del disegno divino (per quei pochi che ancora ci credono).

L’analogia non è campata in aria perché in entrambi i casi la questione di fondo è appunto il suicidio (inteso in senso lato), o meglio il rifiuto nichilistico di tutto ciò che ci circonda («ecocidio»). Sebbene Foer non lo dica esplicitamente, la sua convinzione tacita è che la parte più ricca dell’umanità non stia facendo abbastanza per evitare l’estinzione della specie umana (detto altrimenti: si stia suicidando) perché, pur sapendolo, non ci crede veramente.

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Ora, anche gli spiriti meno filosofici si renderanno conto che per condividere questo punto di vista sulla faccenda occorre sciogliere alcuni nodi teorici o semplicemente terminologici per nulla semplici. La distinzione tra conoscere e credere su cui poggia il ragionamento di Foer, per esempio, è stata formulata in maniere molto diverse dalle varie scuole di pensiero che si sono affannate per capire quale sia il nesso tra sapere e volere, conoscenza e motivazione. L’esempio canonico in casi del genere è il nostro io adolescenziale – di cui è rimasta sicuramente traccia in qualche piega della nostra memoria – che la domenica pomeriggio era perfettamente consapevole che se non si fosse deciso ad aprire il libro di chimica sarebbe andato incontro a un’insufficienza certa tra le nove e le dieci del giorno successivo – non aveva cioè problemi a dare la propria piena adesione alla credenza proposizionale ‘p’ – ma si limitava a osservarla da distanza siderale e col distacco di chi preferisce abbandonarsi con indolenza a un presente eterno privo di vettori motivazionali piuttosto che al presente rimpolpato con un passato ritenuto e un futuro anticipato che costituisce l’orizzonte temporale congeniale a chi agisce efficacemente nel mondo.

Di che cosa avrebbe avuto bisogno il nostro io adolescenziale per darsi una mossa? Bella domanda. Probabilmente di una mamma, un papà o un fratello che, a seconda dei casi, lo minacciasse, ricattasse, corrompesse, così da rendere attuale, immediato, percepibile e non vago il movente interiore. Il futuro, proprio come le cause finali aristoteliche, sembra avere un potere ridotto, se non nullo, nel mondo sublunare e deve incarnarsi in una causa efficiente attuale per produrre un nuovo stato di cose nel mondo. La strigliata della mamma funziona, la semplice prospettiva dell’insufficienza no, a meno che non si sia già incapsulata in un habitus inerziale, non bisognoso cioè di sollecitazioni esterne per mettersi in moto.

Tutto chiaro dunque?

Non proprio. Non stavamo forse parlando di un suicidio – anzi, di un suicidio collettivo? Come funziona in casi così estremi il giochino tra conoscenza e volizione? Vediamo: io che mi sto suicidando forse suppongo di avere trovato il modo per risolvere un problema immediato – ad esempio sfuggire a una condizione di angoscia insopportabile – ma non comprendo pienamente le conseguenze letali del mio gesto – ad esempio la sua irreversibilità. È questo il punto? E cosa potrebbe farmi cambiare opinione, allora? Un po’ più di tempo per soppesare meglio la decisione? In fondo, non è proprio quello che fanno pompieri e poliziotti nei telefilm americani?

La situazione descritta da Foer, tuttavia, lascia supporre esattamente il contrario. Noi umani, se dobbiamo prestare fede alla sua drammatizzazione, sappiamo già che stiamo barattando l’esistenza della nostra specie per una gratificazione immediata dei nostri bisogni e desideri individuali e, per cambiare rotta, dovremmo solo convincerci che quello che stiamo facendo non è un peccato veniale, ma un crimine contro l’umanità. A quel punto – come sostiene la frase citata per esteso all’inizio – faremmo spontaneamente del nostro meglio per evitare la catastrofe, come fecero i cittadini statunitensi durante la Seconda guerra mondiale, senza nemmeno vivere le proprie rinunce come dei sacrifici e anzi reputandole il minimo indispensabile, stanti quelle circostanze storiche.

«Salvare il mondo prima di cena» dovrebbe significare, dunque, organizzare la propria vita facendosi guidare nelle scelte ordinarie anche dalla prospettiva ragionevole di una catastrofe planetaria non solo possibile, ma ormai imminente. Un’idea che ricorda da vicino la riformulazione dell’imperativo categorico kantiano proposta da Hans Jonas all’inizio de Il Principio responsabilità: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra»,[3] anche se lo scoglio qui – è giusto ribadirlo – è proprio convincersi che la sopravvivenza della nostra specie dipenda direttamente e in maniera significativa dalle nostre scelte e comportamenti individuali.

Ammesso (e non concesso) che «non si possa credere per un atto di volontà e non si possa costringere nessuno a credere, neppure con i ragionamenti più stringenti, vigorosi o virtuosi, neppure con prove inconfutabili», com’è allora che l’incredibile può diventare credibile senza la minaccia di una punizione o la promessa di una ricompensa, visto che Foer non propugna né un dispotismo ecologista (una sorta di Green New Fear) né un’utopica riconciliazione tra l’individualismo possessivo moderno e la natura a furia di innovazioni tecnologiche salvifiche?

Prevedibilmente, visto che chi scrive è un narratore, è alle buone storie – a storie credibili, per l’appunto – che viene affidata la missione quasi impossibile di trasformare conoscenze inerti in nuovi stili di vita, a cui torneranno poi utili pensieri che, rinunciando alla perfezione levigata delle entità ideali, si dimostreranno capaci di fare effettivamente presa sulla realtà. Il transito dalla «conoscenza» alla «credenza» è equiparabile in sostanza al passaggio da una condizione di distacco disilluso e scoraggiato a una di fiducia nella possibilità di fare la differenza con le proprie scelte, pur essendo quest’ultime sempre subottimali, cioè mai perfettamente adeguate allo scopo (quello di salvare il pianeta). Stiamo parlando, dunque, di un processo di «empowerment», di conforto e incoraggiamento, il cui obiettivo è consentire una percezione meno rassegnata della situazione che si faccia, se non galvanizzare, quantomeno rincuorare da argomenti del genere: «Le quattro cose di maggiore impatto che un individuo può fare per contrastare il mutamento climatico sono: avere un’alimentazione a base vegetale, evitare di viaggiare in aereo, vivere senza macchina e fare meno figli… Tutti entro poche ore mangeremo e potremo contribuire immediatamente all’inversione del cambiamento climatico… Un’alimentazione per due terzi vegana fa risparmiare 1,3 tonnellate di CO2 all’anno (rispetto a un’impronta di CO2 del cittadino globale medio di circa 4,6 tonnellate all’anno) … Cambiare il nostro modo di mangiare non sarà sufficiente di per sé a salvare il pianeta, ma non possiamo salvare il pianeta senza cambiare il nostro modo di mangiare».[4]

Descritto così, l’obiettivo non sembra di per sé irraggiungibile. Diversamente però che nel saggio precedente di Foer, Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, l’operazione di coniugare una diagnosi impietosa dei mali del mondo con un atteggiamento affermativo verso la vita riesce in questo caso solo a metà.[5] Da che cosa dipende il senso di confusione e disperazione che il libro lascia dietro di sé e che finisce per interferire con l’effetto desiderato di indignazione e illuminazione? È solo una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento dell’autore o alla sua base c’è un motivo più profondo della pura e semplice stanchezza?

Difficile a dirsi, e nondimeno la fatica esistenziale dell’autore si fa sentire fin dalle prime pagine. Non a caso il capitolo più singolare del libro, il quarto, è dedicato a una riformulazione attualizzante, a quattromila anni di distanza, del dialogo egizio tra un aspirante suicida e la sua anima contenuto nel papiro di Berlino 3024 e tradotto per la prima volta in tedesco da Adolf Erman.[6] Il trait d’union tra i due testi è il pessimismo indotto dalla condizione apparentemente irredimibile del mondo: non essendoci nessuna possibilità di salvezza, in entrambi i casi la tentazione di cedere le armi è infatti a prima vista irresistibile. A quali mezzi di persuasione ricorre allora nella versione del dialogo imbastita da Foer l’anima per convincere il «Lebensmüde», il rassegnato, a non cedere alla disperazione?

Il primo sorprendente passo (a) è un invito, o meglio un monito, a rinunciare alla speranza per sostituirla con un sentimento più pugnace e proattivo: la resistenza. Il punto è che (b) bisogna prendere coscienza che il cambiamento è inevitabile e che l’unica alternativa concessa agli individui è o rassegnarsi alla catastrofe o contrastarne creativamente gli effetti moralmente più inaccettabili. Preso atto di ciò, diventa essenziale (c) confidare nella possibilità di avviare una «‘complessa dinamica ricorsiva’», posto che sia simultaneamente vero che «nessuno risolverà il problema del cambiamento climatico e tutti risolveranno il problema del cambiamento climatico» (l’idea qui, detto concisamente, è che cambiamenti individuali nelle abitudini alimentari possano produrre effetti sistemici significativi in tempi relativamente brevi). Il segreto, in ultima istanza, è (d) azzeccare la giusta distanza tra disfattismo e trionfalismo e, quindi, (e) dire un sì incondizionato alla vita nella consapevolezza urticante che «noi siamo il Diluvio e siamo l’Arca» e che, come ha scritto Camus «‘ciò che si chiama ragione per vivere è sempre allo stesso tempo un’eccellente ragione per morire’».[7] L’ottimismo della volizione, insomma, non è un coup de théâtre, ma è il risultato di un processo lento, personale e ricorsivo.

In effetti, non ha molto senso immaginare il suicidio di massa verso cui la nostra specie si sta dirigendo spensieratamente come un gesto puntiforme. È più simile, in realtà, a uno stile di vita sconsiderato o a un atteggiamento banalmente sciocco. Nulla di eroico o titanico, ma un modo di essere superficialmente malvagio, del tutto simile a quegli atti di prepotenza o menefreghismo che ci guastano quotidianamente l’esistenza: la «banalità del male», come ci siamo abituati a chiamarla dopo che Hannah Arendt l’ha usata con intenti iconoclastici nel suo reportage sul processo Eichmann. Come si rivolgerebbe allora l’anima benintenzionata al tizio che dà involontariamente fuoco alla palazzina in cui abitano dieci famiglie solo perché non vuole rinunciare al piacere di fumarsi un’ultima sigaretta a letto prima di addormentarsi o a quello che getta spensierato il sacchetto dei rifiuti nel mucchio formatosi per inerzia cento metri prima dell’isola ecologica?

«Adesso», è l’amaro riepilogo di Foer, «l’intera specie minaccia di suicidarsi in massa. Non perché qualcuno ci costringa. Non perché non sappiamo come stiano le cose. E non perché non abbiamo alternative. Ci stiamo suicidando perché scegliere la morte è più comodo che scegliere la vita. Perché quelli che commettono il suicidio non sono i primi a morirne. Perché crediamo che un giorno da qualche parte qualche genio inventerà per forza una tecnologia miracolosa che cambierà il nostro mondo senza costringerci a cambiare le nostre vite. Perché il piacere a breve termine è più seducente della sopravvivenza a lungo termine. Perché nessuno vuole esercitare la propria capacità di mostrare comportamenti intenzionali finché non lo fa qualcun altro. Finché non lo fa il vicino. Finché non lo fanno i produttori di energia e le industrie automobilistiche. Finché non lo fa il governo federale. Finché non lo fanno Cina, Australia, India, Brasile, Gran Bretagna – finché non lo fa il mondo intero. Perché siamo indifferenti alla morte cui passiamo accanto ogni giorno. ‘Dobbiamo fare qualcosa’ ci diciamo a vicenda, come se affermarlo fosse sufficiente. ‘Dobbiamo fare qualcosa’ diciamo a noi stessi, e poi aspettiamo istruzioni che non arrivano. Sappiamo che stiamo scegliendo la nostra stessa fine; solo che non riusciamo a crederci».[8]

Verosimilmente sono proprio pensieri cupi del genere e il sospetto che la specie umana assomigli maledettamente a una colonia di conigli che, preda di una voracità compulsiva, finisce per mangiarsi da cima a fondo l’isola in cui si è insediata, che hanno tolto slancio e forza persuasiva al cuore comprensivo di cui Foer aveva dato prova in Se niente importa. Se è vero che «a rivelare chi siamo è quello a cui rinunciamo» e che, per poter sacrificare spontaneamente una parte di noi non bastano nuove informazioni, ma serve una radicale conversione dello sguardo e dell’organo della credenza – il cuore –, il rischio di non riuscire a dire un sì convinto alla vita cresce per forza di cose esponenzialmente.[9] È a quel punto che, volente o nolente, uno si trova a riflettere seriamente sul fatto che, «a livello globale, i morti suicidi sono più numerosi di quelli causati da guerre, omicidi e catastrofi naturali messi insieme. È più probabile che ci uccidiamo noi anziché essere uccisi, e da questo punto di vista dovremmo temere noi stessi più di quanto temiamo gli altri».[10] Se non fosse che anche questo, a sua volta, è un dato statistico più facile da registrare che da credere fino in fondo. La strada da percorrere per venire a capo dell’autolesionismo umano, insomma, è ancora lunga. Ma non esistono allora altre vie d’uscita, meno esplorate?

* * * *

In un saggio recente che ha fatto molto scalpore («What if We Stopped Pretending?») Jonathan Franzen si è chiesto senza lunghi giri di parole se abbia ancora senso confidare nel fatto che la civiltà occidentale moderna sia in grado, se solo lo volesse, di salvare se stessa e non sia venuto invece il momento di uscire dalla logica attivistica che la caratterizza e sperimentare altre strade in uno stato d’animo di sana disperazione.[11] Siccome è improbabile che Franzen intendesse farsi promotore di un’irresponsabile istigazione al suicidio di massa, ha senso interpretare il suo ragionamento paradossale alla luce di una linea di pensiero abbracciata da Simone Weil negli ultimi anni della sua vita.[12] Il punto, sembra suggerire lo scrittore americano, è che non essendoci più nulla da fare intenzionalmente per evitare l’apocalissi climatica, è venuto il momento di tacitare l’immaginazione e fare seriamente i conti con la realtà. Da una rinuncia tormentata alla speranza potranno allora forse scaturire modi più efficaci per compensare le conseguenze della catastrofe ambientale tramite scelte partigiane che accantonino il miraggio di supervisionare imparzialmente lo spazio delle azioni possibili e, confidando nella forza immateriale delle idee e delle pratiche giuste in sé, limitino dall’interno la portata distruttiva dell’idolatria moderna per la necessità di crescere sempre e comunque.

Con questa riformulazione ambientalista del motto di Walter Benjamin – «solo per il bene di chi è senza speranza ci è data la speranza»[13] – Franzen ci aiuta a mettere a fuoco il principale difetto del lungo ragionamento di Foer – la sua inconsapevole impoliticità – che è anche la principale causa del senso di impotenza che esso contribuisce involontariamente a diffondere. L’idea che combattere contro le disuguaglianze economiche e per rafforzare le istituzioni democratiche e lo stato di diritto sia il modo migliore per contrastare il cambiamento climatico può apparire stravagante solo a chi ha ridotto il proprio orizzonte di scelta a un ballottaggio tra suicidarsi e non suicidarsi. Al contrario, come cantava in uno stato d’animo serenamente disperato George Harrison qualche anno fa, «if you don’t know where you’re going / Any road will take you there». Il punto, insomma, non è solo salvarsi dalla catastrofe, ma salvarsi nella catastrofe.


Note
[1] J.S. Foer, Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi, trad. it. di I.A. Piccinini, Guanda, Milano 2019.
[2] Ivi, p. 28.
[3] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it., Einaudi, Torino 2002, p. 16.
[4] Cfr. J.S.Foer, Possiamo salvare il mondo prima di cena, cit., pp. 111-112, 114, 110.
[5] J.S. Foer, Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, trad. it., Guanda, Milano 2010.
[6] Cfr. Dialogo del disperato con la sua anima, trad. it. in E. Bresciani (a cura di), Letteratura e poesia dell’Antico Egitto, Einaudi, Torino 1969, pp. 199-205.
[7] Cfr. J.S.Foer, Possiamo salvare il mondo prima di cena, cit., pp. 223, 192, 215, 238.
[8] Ivi, p. 232.
[9] Ivi, p. 85.
[10] Ivi, p. 215.
[11] Cfr. J. Franzen, What if We Stopped Pretending?, in «The New Yorker», 8 Settembre 2019, disponibile a: https://www.newyorker.com/culture/cultural-comment/what-if-we-stopped-pretending.
[12] Cfr. S. Weil, Quaderni, vol. I, trad. it., Adelphi, Milano 1982, pp. 272-276, 333-334, 370 (l’idea è quella, di ascendenza induista-buddhista, dell’«azione non-agente»).
[13] W. Benjamin, Le affinità elettive di Goethe, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it., Einaudi, Torino 1962, p. 243.

Comments

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Pantaléone
Saturday, 04 January 2020 11:27
Big Brother vi dice che il colpevole è il carbonio, quindi è il Co2 (0,01 ppm).
Il clima è una cosa complessa, di cui il sole è l'attore principale, previsto al massimo a 10 giorni, per non parlare dell'attività vulcanica ed è il contrario, non è il carbonio che produce il riscaldamento ma il contrario, il vapore acqueo che produce il Co 2.
Ma non c'è dibattito, è così è punto.
L'inquinamento è molto più preoccupante ma meno ad valorisare..
Inversione.
Una truffa di piu.
Sento l'odore della santa inquisizione, pronto a mi passare alla questione..
Mamma mia non fa di me un fascista.

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Mario Galati
Saturday, 04 January 2020 06:54
Psicologismo da strapazzo, imperativi kantiani e sovranità del consumatore: ecco il manualetto del perfetto consumatore piccolo borghese ipocrita e "progressista" conservatore. La coscienza infelice dei ceti medi semicolti che sono nelle condizioni sufficienti per frequentare negozi biologici invece dei discount.
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