“Don’t Look Up” dall’oceano
AMOC, 2050 e l’umanità in piedi sulla scogliera
di Mario Sommella
C’è una scena che ormai fa parte del nostro immaginario: in Don’t Look Up (2021), il film di Adam McKay, due scienziati scoprono una cometa che distruggerà la Terra. Provano a dirlo al mondo, ma la politica gioca a rimandare, i media trasformano la catastrofe in un talk show, i social riducono tutto a meme, un miliardario della tecnologia cerca di farci affari. Alla fine, la cometa arriva davvero.
Quel “non guardare in alto” del titolo è un ordine politico, mediatico e culturale: non guardare il problema, non disturbare il mercato, non interrompere lo show.
Se spostiamo lo sguardo dall’astronomia ai mari, oggi abbiamo qualcosa di analogo: il possibile collasso dell’AMOC, la grande corrente atlantica che tiene in piedi il nostro clima. Non c’è un asteroide nel cielo, ma c’è un oceano che manda segnali sempre più chiari. E, come nel film, la reazione dominante è: minimizzare, rinviare, trasformare l’allarme in rumore di fondo.
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La corrente invisibile che rende abitabile l’Europa
L’Atlantic Meridional Overturning Circulation (AMOC) è un gigantesco “nastro trasportatore” di calore: porta acqua calda e salata dai tropici verso Nord, dove si raffredda, diventa più densa, sprofonda fino a 3.000 metri e torna verso Sud come corrente profonda. È uno dei pilastri del clima terrestre.
Grazie all’AMOC, l’Europa occidentale è molto più mite di quanto la sola latitudine farebbe pensare. Senza questo flusso, città come Londra o Parigi avrebbero inverni molto più duri. Questa corrente trasporta una quantità di calore enormemente superiore a tutta l’energia che l’umanità produce in un anno: è un’infrastruttura termica gratuita, costruita dall’oceano in milioni di anni.
Il motore dell’AMOC è la combinazione di temperatura e salinità: l’acqua fredda e salata è più densa e tende a sprofondare. Ma il riscaldamento globale sta accelerando la fusione dei ghiacci della Groenlandia e dell’Artico, riversando enormi quantità di acqua dolce nel Nord Atlantico. Più acqua dolce significa meno salinità, quindi meno densità. Il risultato: il motore si inceppa.
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Dal “quasi impossibile” al “altamente probabile”
Per anni il collasso dell’AMOC è stato trattato come uno scenario estremo: l’IPCC lo definiva un evento a “bassa probabilità ma alto impatto” entro il 2100, pur riconoscendo l’incertezza e la gravità di un’eventuale crisi.
Poi è arrivato lo studio di Peter e Susanne Ditlevsen, pubblicato nel 2023 su Nature Communications. Analizzando le variazioni della temperatura superficiale del mare e i segnali tipici di un sistema che si avvicina a un punto critico, gli autori hanno stimato che il collasso dell’AMOC potrebbe verificarsi tra il 2025 e il 2095, con maggiore probabilità attorno alla metà del secolo.
Da allora, altri lavori hanno rafforzato l’allarme:
• uno studio pubblicato nel 2025 ha concluso che il collasso non può più essere considerato “poco probabile” e che, anche in scenari di riduzione parziale delle emissioni, il rischio resta significativo nei prossimi 50–100 anni, con il punto di non ritorno che potrebbe essere superato già nelle prossime decadi;
• un’altra ricerca, usando un nuovo indicatore basato su calore e salinità (surface buoyancy flux), suggerisce che l’AMOC sta già indebolendosi e potrebbe iniziare a collassare tra il 2055 e il 2063 se le emissioni continuassero a crescere.
Nel 2025 l’Islanda ha classificato ufficialmente il possibile collasso dell’AMOC come rischio per la sicurezza nazionale ed esistenziale, inserendolo tra le priorità del Consiglio di sicurezza e avviando piani di adattamento per energia, infrastrutture e cibo. È un segnale politico chiaro: ciò che per anni è stato confinato nei capitoli speciali dei rapporti scientifici sta entrando nel linguaggio della sicurezza e della sopravvivenza.
Nel frattempo, però, la narrativa pubblica dominante continua a trattare l’AMOC come una curiosità per addetti ai lavori. È la versione climatica del “non guardare in alto”: non guardare al mare, continua a guardare il talk show.
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La Macchia Blu: il faro dell’Atlantico
A occhio nudo non vediamo la corrente cambiare. Ma i satelliti sì.
Se guardiamo le mappe del riscaldamento globale degli oceani, quasi tutto l’Atlantico diventa rosso e arancione: acque più calde rispetto alla media del Novecento. Tranne una zona: nel Nord Atlantico, a sud della Groenlandia, compare una grande “macchia blu”, l’unica area del mondo oceanico che non si scalda, in alcuni periodi si raffredda.
Quella macchia fredda è un faro: indica che qualcosa non funziona nella redistribuzione del calore. È uno dei segnali che gli scienziati collegano al rallentamento dell’AMOC.
Per superare la scarsità di dati diretti (abbiamo osservazioni strumentali dettagliate dell’AMOC solo dal 2004), la ricerca ha incrociato:
• ricostruzioni paleoclimatiche ricavate dai sedimenti marini, che raccontano le crisi passate della circolazione atlantica su scale di migliaia di anni;
• misure di temperatura superficiale dell’oceano raccolte da navi e boe nell’ultimo secolo;
• analisi statistiche dei “segnali di allarme precoce” tipici dei sistemi complessi vicini a un punto di rottura.
Il quadro che emerge è coerente: ciò che vediamo oggi – macchia fredda, rallentamento, perdita di stabilità – assomiglia a ciò che la Terra ha già vissuto prima di grandi riorganizzazioni della circolazione oceanica. Con una differenza gigantesca: questa volta sopra il pianeta vivono otto miliardi di persone, legate da reti alimentari, energetiche, finanziarie globali.
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Una glaciazione selettiva in un pianeta che si surriscalda
Un errore frequente è immaginare l’AMOC come un interruttore apocalittico che spegne il riscaldamento globale e ci riporta nell’era glaciale. Non è così. Il riscaldamento continua, ma il calore si ridistribuisce in modo diverso e potenzialmente disastroso.
Gli studi indicano che, in caso di forte indebolimento o collasso, l’Europa nord-occidentale potrebbe sperimentare inverni molto più freddi, con stagioni più lunghe e instabilità meteo: ondate di gelo, tempeste atlantiche più intense, impatti durissimi su agricoltura e sistemi energetici. Alcune stime parlano di perdite fino al 30% della produzione agricola in alcune regioni europee.
Al tempo stesso, i modelli mostrano:
• un aumento del livello del mare sopra la media globale lungo certe coste europee e nordamericane, proprio a causa della riorganizzazione delle correnti;
• cambiamenti profondi nella fascia tropicale: spostamento della zona delle piogge equatoriali, monsoni destabilizzati in Africa, India e Sud America, con conseguenze enormi per le regioni dipendenti da agricoltura pluviale.
È una sorta di “glaciazione selettiva” in un pianeta che continua nel complesso a scaldarsi: alcune regioni diventano più fredde e instabili, altre più torride e siccitose. Un incubo per la sicurezza alimentare e per le migrazioni, non un semplice problema di “fare più caldo o più freddo”.
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“Don’t Look Up”: il film che ci aveva già spiegato tutto
Torniamo al film. Don’t Look Up nasce esplicitamente come allegoria della crisi climatica: il creatore Adam McKay ha raccontato che l’idea gli è stata proposta dal giornalista David Sirota, che aveva paragonato il cambiamento climatico a una cometa che si dirige verso la Terra.
Nel film, la cometa è il tipping point: l’evento che, una volta innescato, non puoi più fermare. Il resto del racconto è una satira accurata di tutto ciò che oggi rende difficile reagire alla crisi climatica:
• un potere politico cinico, che misura ogni decisione in termini di consenso a breve termine;
• media che trasformano anche la fine del mondo in un segmento “leggero” da talk show, da bilanciare con gossip e intrattenimento;
• social network che assorbono l’allarme in un flusso di meme, insulti, campagne coordinate;
• un miliardario della tecnologia che promette una soluzione miracolosa – spezzare la cometa per estrarne minerali rari – trasformando l’emergenza globale in un’opportunità di business.
Non è un caso se diversi climatologi hanno scritto che Don’t Look Up è, per loro, una rappresentazione molto fedele della follia collettiva con cui affrontiamo il riscaldamento globale: più che una caricatura, uno specchio deformante ma riconoscibile.
Se sostituiamo la cometa con il collasso dell’AMOC (o con altri punti di non ritorno: scioglimento irreversibile dei ghiacciai, morte della foresta amazzonica, sbiancamento permanente delle barriere coralline), vediamo lo stesso copione:
• gli scienziati lanciano allarmi dettagliati;
• la politica li diluisce in promesse vaghe;
• le lobby fossili spingono per guadagnare tempo;
• l’opinione pubblica oscilla tra panico momentaneo e rimozione.
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Sapevano. E hanno scelto lo stesso di non guardare in alto
Questa non è una tragedia dovuta all’ignoranza. È una tragedia dovuta alla scelta.
Già nel 1979 il famoso Charney Report, commissionato dalla National Academy of Sciences statunitense, concludeva che un raddoppio della CO₂ avrebbe portato a un riscaldamento significativo del pianeta, con cambiamenti climatici potenzialmente gravi. Era un documento ufficiale, destinato ai decisori politici.
Negli anni successivi, le grandi compagnie petrolifere hanno finanziato ricerche interne ancora più precise. Un’analisi pubblicata su Science nel 2023 ha mostrato che le proiezioni climatiche elaborate dagli scienziati di ExxonMobil tra il 1977 e il 2003 erano sorprendentemente accurate: prevedevano con grande precisione l’andamento reale delle temperature globali in funzione delle emissioni.
Eppure, in pubblico, la stessa compagnia ha per anni minimizzato, messo in dubbio o attivamente contrastato la scienza del clima, finanziando think tank e campagne di disinformazione. Un’inchiesta di InsideClimate News, Exxon: The Road Not Taken, ha ricostruito questa storia in dettaglio: la strada non intrapresa è quella in cui si decideva di cambiare modello energetico proprio quando si aveva la conoscenza per farlo.
Documenti emersi di recente mostrano che il settore fossile sapeva dei rischi legati alle emissioni di CO₂ addirittura dagli anni Cinquanta, quando finanziava ricerche pionieristiche sulle concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera.
Oggi, una parte della stessa industria alimenta l’illusione che tecnologie come la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS) possano permetterci di continuare quasi come prima, nonostante evidenze crescenti indichino che, per come sono state implementate finora, queste soluzioni hanno benefici climatici limitati e servono soprattutto a prolungare la vita dei combustibili fossili.
Siamo oltre la semplice cecità: siamo di fronte a un modello economico che, per difendere i propri profitti, ha deliberatamente scelto di “non guardare in alto” anche quando aveva sotto mano i dati per capire cosa stava arrivando.
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Perché non ci muoviamo? La psicologia del suicidio al rallentatore
Se un film come Don’t Look Up ha avuto tanto impatto è perché racconta qualcosa che conosciamo nel profondo: la difficoltà umana a reagire a pericoli lenti ma cumulativi.
Il nostro cervello è tarato sui rischi immediati, visibili, personali: il predatore, la guerra, il terremoto. La crisi climatica – e, dentro di essa, un possibile collasso dell’AMOC – è invece un pericolo che si accumula nel tempo, che non ha un volto preciso, che spesso colpisce altrove prima di arrivare da noi. È perfetta per essere rimossa.
Politicamente, poi, il problema è amplificato da tre fattori:
• i costi delle trasformazioni ricadono nel breve periodo, mentre i benefici maggiori – evitare scenari catastrofici – arrivano tra decenni;
• i governi rispondono su orizzonti elettorali di pochi anni, non sulle scale temporali di un sistema climatico;
• le disuguaglianze globali fanno sì che chi ha contribuito di più al problema (paesi ricchi, élite economiche) sia anche quello meglio attrezzato per proteggerne i propri interessi nel breve periodo, scaricando i danni sui più vulnerabili.
Don’t Look Up mette in scena tutto questo: il presidente che pensa alle elezioni, il miliardario che pensa al proprio portafoglio, i conduttori che pensano allo share. La differenza è che nel film il conto arriva in sei mesi; nella realtà parliamo di decenni. Ma la dinamica è la stessa.
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Il 2050 non è una sceneggiatura: è una scelta politica
Quando leggiamo che il collasso dell’AMOC è possibile “intorno al 2050”, rischiamo di interpretarlo come una profezia scolpita nella pietra. Non lo è.
Si tratta di traiettorie condizionate dalle nostre azioni. Gli studi lo dicono con chiarezza:
• maggiore è il livello di riscaldamento globale, maggiore è la probabilità di innescare punti di non ritorno;
• riduzioni rapide e profonde delle emissioni – in particolare l’uscita dai combustibili fossili – abbassano il rischio, anche se non lo annullano del tutto, perché il sistema ha inerzie e incertezze.
Il 2050, insomma, non è un appuntamento inevitabile: è il risultato cumulativo di ogni centrale a carbone tenuta aperta, di ogni trivellazione nuova approvata, di ogni rinvio su efficienza, trasporti, agricoltura, consumo materiale.
La grande assente, in questa discussione, è la parola “giustizia”. La crisi dell’AMOC – come gli altri tipping point – colpirà in modo sproporzionato i paesi e le comunità che hanno meno responsabilità storica per le emissioni. Quando parliamo di rischi per i monsoni asiatici o per le piogge in Africa occidentale, stiamo parlando della vita quotidiana di centinaia di milioni di persone.
Continuare a “non guardare in alto”, in questo contesto, non è solo irresponsabile: è profondamente ingiusto.
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Tornare indietro dalla scogliera (e finalmente guardare in alto)
Verso la fine di Don’t Look Up, c’è una scena silenziosa: gli scienziati e le loro famiglie si siedono a tavola, si tengono per mano, condividono un ultimo pasto mentre la cometa sta per colpire. È una scena dolce e terribile: l’umanità che, dopo aver fatto di tutto per non ascoltare, si ritrova a salutarsi.
Dal punto di vista climatico, noi non siamo ancora lì. Non siamo ancora all’ultima cena prima dell’impatto. Siamo ancora nel tempo in cui si può decidere di ridurre drasticamente le emissioni, di fermare l’espansione fossile, di pianificare una transizione giusta per lavoratori e comunità, di spostare soldi dalle fonti di rischio alle soluzioni reali.
La metafora dell’uomo sulla scogliera che aspetta lo tsunami ci parla di impotenza. Ma la politica, l’economia, la cultura non sono forze di natura: sono scelte. Possiamo ancora decidere di scendere dalla scogliera, di non vivere come personaggi di un film già scritto.
“Don’t Look Up” ci ha mostrato quanto sia assurdo ridere, litigare sui social e fare campagne elettorali mentre una cometa si avvicina. La possibile crisi dell’AMOC (insieme alle altre soglie climatiche) ci dice che quella situazione, oggi, è più vicina di quanto pensassimo.
La domanda vera è se vogliamo continuare a recitare quella parte o se, finalmente, vogliamo alzare lo sguardo – verso il cielo, verso gli oceani, verso le generazioni che verranno – e cambiare sceneggiatura prima che la Terra diventi il set del nostro ultimo film.







































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In tutto questo un bel ruolo l’ha svolto l’antiscientismo di recente importazione