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Elezioni Usa: popolazione frustrata nella superpotenza in declino

di Davide Grasso

La mappa del risultato elettorale statunitense è impietosa per i democratici, soprattutto se si guarda alle elezioni per la camera (House) e per i governatori dei singoli stati (http://elections.nytimes.com/2010/results/house). La maggior parte dei candidati repubblicani vince in tutto il Midwest (Kansas, Nebraska, Nord e Sud Dakota, Illinois, Missouri), in molti distretti di stati dell'ovest come Colorado, Wyoming, Utah, Nevada, della west coast come la California e l'Oregon, nel sud (Texas, New Mexico, Arizona, Oklahoma, Georgia, Florida, Tennessee, Kentucky, Nord e Sud Carolina) e anche in molti distretti degli stati del nord-est, che di solito premiano i democratici (circa la metà dei rappresentanti dello stato di New York, la Pennsylvania, parte del New Hampshire e del New Jersey). Nelle elezioni per i governatori dei singoli stati i democratici si assicurano soltanto uno stato dell'ovest, il Colorado, confermano New York e il Vermont, e conquistano la California. Perdono però in vari stati dove erano al governo nello stesso Midwest (Kansas, Iowa, Wisconsin, Michigan, Ohio), nell'ovest (Wyoming) nell'est (Pennsylvania, Maine) e nel sud (New Mexico, Oklahoma, Tennessee, Florida). I repubblicani confermano i propri governatori anche in Arizona, Utah, Nevada, Idaho, Alaska, Texas, Nebraska, Sud Dakota, Alabama, Georgia e in vari altri stati.

Nella conferenza stampa di mercoledì, Barack Obama ha definito il risultato "umiliante".

Ha ammesso che qualcosa non deve aver funzionato nel suo governo e ha teso la mano ai repubblicani, con i quali, ha detto, occorrerà collaborare nei prossimi due anni, anzitutto sui temi dell'istruzione e dell'energia. Le prime dichiarazioni dal campo repubblicano, galvanizzato dal voto, hanno invitato il presidente ad ascoltare la voce del popolo e a cambiare le sue politiche, anzitutto ripristinando la politica dei tagli delle imposte avviata da G.W. Bush. Hanno inoltre promesso ai propri elettori di lavorare per l'abrogazione della riforma sanitaria approvata appena alcuni mesi fa. I mezzi di comunicazione si sono concentrati molto sulla vittoria di due rappresentanti che fanno riferimento al movimento del Tea Party, Rand Paul nel Kentucky e Paolo Rubio in Florida. Due seggi al senato non sono molto, ma va detto che il Tea Party - movimento esteso su tutto il territorio nazionale, dalle idee estremamente conservatrici, accusato di razzismo e non privo di alcuni tratti fascistoidi - è nato soltanto nel 2009, ed è fortemente avversato dall'establishment repubblicano (contro cui rivolge gran parte delle sue accuse, pur essendovi interno), anche se è vezzeggiato dalla sua nascita dalla maggior parte dei media statunitensi.


La grande delusione

Le elezioni di midterm difficilmente premiano il partito del presidente: in esse trova espressione lo scontento della popolazione per i progressi sperati che di norma, come in ogni post-democrazia che si rispetti, non si vedono. I democratici non soltanto avevano vinto alle presidenziali del 2008, ma anche nel midterm del 2006, negli anni dell'era Bush. Allora gran parte dell'elettorato, anche repubblicano, aveva optato per i democratici e per il "Change". Il risultato, soprattutto nel 2008 quando Obama vinse su McCain con 7 punti di vantaggio, fu tuttavia ambiguo. Visto dal resto del mondo, apparve come un'insperata inversione di rotta dalle politiche di guerra e repressione instaurate da Bush e dalla sua banda dal 2001, e il possibile prevalere nelle nuove generazioni di un'idea "liberal" della politica (ovvero, nel peculiare linguaggio politico statunitense, non troppo bigotta e meno intollerante). L'ambiguità del risultato risiedeva nel fatto che quel voto era intessuto di una trama socio-culturale e politica estremamente complessa, e almeno due tendenze (in realtà molte di più) l'avevano reso possibile. Da un lato, l'appello al Change e alla Hope, come si è detto, cambiamento e speranza: ciò che toccò la sensibilità dei giovani, degli studenti, degli afroamericani, dei migranti. Dall'altro la definitiva mossa vincente: l'appello (implicitamente rivolto all'elettorato "normale": bianco, maturo, sposato, "che lavora duro", di sani principi ecc.; in una parola, potenzialmente più conservatore) a concepire le elezioni 2008 come un referendum sulla politica repubblicana degli anni 2000. Qui stava il perno della netta vittoria del 2008, qui un aspetto innegabile della sconfitta del 2010. (Un'analisi separata meriterà la delusione dell'altra parte di elettorato, quella "non normale" e più appassionata a un'idea di cambiamento).


La Great Recession e il malessere profondo

Occorre tenere presente che la popolazione statunitense - tanto la middle class quanto la working class (molto meno l'alta borghesia) - è stata scioccata e terrorizzata dalla grande crisi che ha colpito il sistema immobiliare, del credito, della finanza e dell'economia in genere dagli ultimi anni dell'era Bush. Già da qualche anno l'impettito americano medio aveva dovuto rassegnarsi a vedere i turisti europei trarre vantaggio dalla forza dell'inedita perdita di primato del dollaro, e dover magari rinunciare, per lo stesso motivo, a una vacanza a Venezia. Improvvisamente la situazione economica, già non brillante, è apparsa pericolosa e senza sbocchi, se non lanciata a tutta velocità verso il crollo totale: i media e gli esperti usarono e usano ancora, un giorno sì e l'altro pure, giustificati toni da apocalisse e da grande depressione. Nessuno può dire la verità, cioè che gli Stati Uniti devono il loro benessere ad un'economia drogata dalle speculazioni della finanza, dalle concessioni fittizie del credito bancario (mutui per le case alla benedetta "middle class" in particolare) e dall'uso per definizione contingente della loro potenza militare, con la forza internazionale del dollaro e le disponibilità energetiche che, in ultima analisi, ne derivano quasi in toto. Nessuno ha potuto e può negare, a nessun livello, però, che qualcosa non sta funzionando al cuore del sistema USA. Qualcuno, dice l'uomo della strada al suo vicino di sgabello nel saloon bar, deve aver truccato le carte e fatto il gioco sporco, producendo come effetto un calo dell'occupazione e del benessere per la "ordinary people". E i primi sospettati per chiunque sono stati i grandi banchieri, e gli squali di Wall Street nella maledetta Big Apple.

L'immobilismo dei repubblicani li ha resi allora estremamente sospetti, tanto più che la loro base da tempo disapprovava la loro vicinanza ai poteri forti e la conseguente lontananza dalla gente comune (è ciò che contesta anche il Tea Party, con cui si identifica ad oggi almeno il 65% dell'elettorato repubblicano). Lo slogan obamiano "Rebuilding Our Economy" identificò quella che per molti elettori era l'unica alternativa possibile, e molti diedero più importanza a questo elemento che al resto, per esempio all'altro slogan ("Healthcare For All"), che non convinceva e non convince buona parte dei suoi elettori del 2008, diffidenti per ideologia verso ogni piano pubblico di aiuto ai più bisognosi. Le speranze che il Change portasse via la crisi sono sparite molto presto. I cospicui investimenti pubblici nell'economia non hanno fermato la degenerazione del sistema (Obama si limita a dire che l'hanno frenata, evitando il peggio a breve termine). Il paese intero continua a patire stagnazione economica e disoccupazione, che colpiscono ovviamente chi ha di meno, mentre la forza politica del presidente in seno alle istituzioni politiche non è stata sufficiente a permettergli di (o lui non ha avuto la lungimiranza per) limitare gli abusi dei magnati del credito e della finanza. Poco importa quale sia il partito e chi sia il presidente; l'economia va male, la soluzione è inadeguata. Occorre cambiare.


Il Change obamiano non supera la prova


Cambiare però non servirà a nulla, poiché le cause della crisi sono nel sistema dell'accumulazione capitalistica come tale, e nell'organizzazione economica, creditizia e militare del sistema statunitense in particolare. Se il voto del 2008 fu in gran parte un voto d'opposizione a Bush sul piano economico, quello del 2010 è, senz'altro, un voto di protesta contro Obama sul medesimo piano. Gli statunitensi continueranno ad astenersi per rabbia o a votare candidati che non ispirano fiducia, a protestare nell'animo e a subire la propria frustrazione all'infinito, finché non interverrà qualcosa di nuovo e di totalmente altro a cambiare le cose, e non è detto che sarà divertente. (In ogni caso si tratterà di qualcosa che dal punto di vista politico, almeno all'interno degli Stati Uniti, al momento non esiste). Questo non significa che il fenomeno Obama sia riducibile a una scelta anti-repubblicana vecchia di due anni e già priva di mordente politico o semantico. "Change" e "Hope" hanno significato e significano ben altro, e molto di più, e ben al di là delle volontà, intenzioni o capacità politiche del presidente e del suo entourage, o di ciò che il sistema lobbistico e istituzionale USA permette a chi viene eletto cavalcando i sogni di chi soffre. E questo non perché si tratti di concetti tanto idealmente affascinanti quanto vuoti, ma perché si tratta di concetti che parlano il linguaggio di soggetti sociali vivi e reali.

Detto questo, va oggi registrato il dato di fatto che gli slogan e il romanticismo, anche quando d’appeal per una parte consistente e importante della popolazione, in buona parte individuata secondo una linea di classe, non fanno un baffo alla matematica economica del declino. Con buona pace di chi si ostina a difendere, per partito preso o per scarsità di fantasia, certi precoci innamoramenti naif – da questa o da quell’altra parte dell’oceano.

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