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coniarerivolta

PNRR: una, nessuna o cinquecentoventotto condizioni

di coniare rivolta

pnrr3nmtAbbiamo provato a delineare quali sono alcune delle principali condizioni che l’Italia si è impegnata a soddisfare per avere accesso ai fondi del Recovery Fund. Ci eravamo però lasciati senza finire il discorso, che purtroppo ha ulteriori aspetti dirompenti e preoccupanti.

Per il profitto privato, il PNRR è anche un’occasione d’oro per consumare qualche vendetta, come quella sul referendum per l’acqua pubblica del 2011, quando 26 milioni di italiani sancirono la natura pubblica di questo bene di prima necessità e della sua gestione. Tra le condizioni da rispettare per il prossimo dicembre, infatti, si legge anche di una “Riforma del quadro giuridico per una migliore gestione e un uso sostenibile dell’acqua”, una misura “per garantire la piena capacità gestionale per i servizi idrici integrati”. Basta approfondire la documentazione del PNRR per scoprire che questo significa “rafforzare l’industrializzazione del settore favorendo la costituzione di operatori integrati, pubblici o privati e realizzando economie di scala per una gestione efficiente degli investimenti e delle operazioni”. Ecco che la prima tranche di Recovery Fund diventa un grimaldello per riformare la normativa sulla gestione dell’acqua favorendone la privatizzazione, affermando un modello di multiutility (da qui l’enfasi sulla natura integrata del servizio) che calpesta il diritto all’acqua per garantire l’accumulazione di profitti e rendite monopolistiche (da qui, invece, l’enfasi sulle economie di scala).

La foga liberalizzatrice e privatizzatrice del PNRR non si ferma, ovviamente, qui. Ci siamo, infatti, impegnati a riformare i dottorati “al fine di coinvolgere maggiormente le imprese e stimolare la ricerca applicata”, con lo scopo di “semplificare le procedure per il coinvolgimento di imprese e centri di ricerca e rafforzando le misure per la costruzione di percorsi di dottorato non finalizzati alla carriera accademica”.

Questo significa orientare la ricerca pubblica verso quei settori che sono in grado di produrre profitti, ovviamente privati, a discapito della ricerca nei settori di interesse collettivo. Ma il PNRR in tema di università contiene dell’altro: entro la fine dell’anno, deve entrare in vigore una “legislazione volta a modificare le norme vigenti in materia di alloggi per studenti”. Il Piano prevede poco meno di un miliardo di euro per la realizzazione di nuovi alloggi per gli studenti, il che sarebbe sicuramente utile. Però, prima che i soldi siano spesi, pretende – per l’appunto come condizione per l’erogazione di questa prima tranche – che siano modificate le norme sugli alloggi in modo da garantire che quelle risorse vadano a fine nelle mani giuste, cioè a ditte private che fanno profitti sull’erogazione di quello che dovrebbe essere il diritto allo studio assicurato dallo Stato. Basta leggere il testo del PNRR (p. 187) per capirlo: “La misura si basa su un’architettura innovativa ed originale, che ha l’obiettivo di incentivare la realizzazione, da parte dei soggetti privati, di nuove strutture di edilizia universitaria attraverso la copertura anticipata, da parte del MUR, degli oneri corrispondenti ai primi tre anni di gestione delle strutture stesse.” Ottimo: i soggetti privati prendono i finanziamenti, e lo Stato copre le spese di gestione della struttura per i primi tre anni, dunque costi pubblici e profitti privati. Tutto chiaro, fuorché il carattere “innovativo e originale” della misura. Questo è il ruolo centrale della riforma che siamo impegnati a realizzare entro dicembre, per modificare le norme in materia di alloggi studenteschi (L. 338/2000 e d.lgs. 68/2012) in modo tale da garantire “l’apertura della partecipazione al finanziamento anche a investitori privati, o partenariati pubblico-privati”. Ma non solo: perché la tavola per gli speculatori privati sia ben apparecchiata, la misura va ben oltre il mero accesso ai finanziamenti, e prevede “supporto della sostenibilità degli investimenti privati, con garanzia di un regime di tassazione simile a quello applicato per l’edilizia sociale, che però consenta l’utilizzo flessibile dei nuovi alloggi quando non necessari l’ospitalità studentesca” ed anche “adeguamento degli standard per gli alloggi, mitigando i requisiti di legge relativi allo spazio comune per studente disponibile negli edifici in cambio di camere (singole) meglio attrezzate”. Dunque, i fortunati gestori privati di queste strutture potranno usufruire delle agevolazioni riservate all’edilizia sociale, con addirittura la possibilità di destinare gli alloggi ad usi diversi dall’ospitalità degli studenti fuori sede e, infine, la ciliegina sulla torta di un “adeguamento degli standard” che consentirà di massimizzare il numero di alloggi a discapito dello spazio comune, proprio perché quegli alloggi devono potersi trasformare in vere e proprie camere d’albergo da affittare a chiunque. Se vogliamo questa prima tranche, dunque, possiamo definitivamente dire “ciao” a quella parte fondamentale del diritto allo studio che richiede la moltiplicazione degli alloggi per gli studenti fuori sede.

Un destino simile attende la sicurezza di strade, autostrade, ponti, viadotti e cavalcavia, infrastrutture per la cui manutenzione sono stati stanziati nel Piano più di un miliardo di euro, denaro che sarà erogato solo dopo un’opportuna modifica del quadro normativo, inclusa tra le condizioni della prima tranche di contributo. La riforma “prevede il trasferimento della titolarità di ponti, viadotti e cavalcavia sulle strade di secondo livello a quelle di primo livello (autostrade e strade statali), in particolare dai Comuni, dalle Province e dalle Regioni allo Stato”. Dal momento che, per effetto della riforma, “la manutenzione di ponti, viadotti e cavalcavia sarà di competenza dell’ANAS e/o delle società concessionarie autostradali”, questo significa di fatto regalare alle società concessionarie autostradali anche la gestione della miriade di strade di secondo livello (comunali, provinciali e regionali) proprio nel momento in cui vengono stanziati fondi per la manutenzione. Quindi prima si fanno crollare i ponti per carenze di manutenzione, e poi, quando lo Stato – e non i privati – finanziano la manutenzione, di colpo i privati vengono investiti anche della titolarità di ponti, viadotti e cavalcavia di competenza degli enti locali.

Gli impegni presi in sede europea interessano anche il mercato del lavoro, dove siamo impegnati a varare il decreto interministeriale che istituisce il programma nazionale “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (GOL) ed il decreto interministeriale che istituisce il Piano Nazionale Nuove Competenze. Sappiamo che i nostri governanti, nazionali ed europei, non dormono la notte a causa del reddito di cittadinanza. Quello strumento era stato pensato non certo per aiutare i lavoratori, concedendogli una piccola quantità di denaro in cambio dell’impegno ad accettare i peggiori lavori in circolazione, ma è stato attuato solo per la parte che garantisce un reddito a chi il lavoro non ce l’ha, senza implementare mai il secondo pilastro della misura, quello che subordina l’erogazione del reddito all’accettazione di lavoretti precari e mal pagati. Il GOL allude a questa garanzia di occupabilità: assicurare che i percettori di reddito di cittadinanza, ma anche di NASPI e di cassa integrazione straordinaria, siano costretti – pena la perdita immediata del contributo – ad accettare le proposte di lavoro più misere. Riportare il reddito di cittadinanza nell’alveo delle armi da usare contro lavoratori e disoccupati, questo è l’obiettivo dello sforzo riformatore delle politiche attive del lavoro che dobbiamo varare entro fine anno.

Un’altra condizione da rispettare per ottenere la prima tranche è la “semplificazione delle procedure e il rafforzamento dei poteri del Commissario nelle Zone Economiche Speciali”. Le ZES, Zone Economiche Speciali, sono tutte quelle aree del Mezzogiorno in cui è stato istituito un regime di semplificazioni e agevolazioni fiscali pensato per attrarre investimenti privati. Si tratta di una deregolamentazione selvaggia del Sud, imposta con una forma di stato di emergenza governata da un Commissario che agisce in deroga ad una serie di prescrizioni del codice degli appalti, delle procedure di fattibilità (con un’estensione sconsiderata del dispositivo del silenzio assenso) e addirittura della normativa antimafia, con il solo scopo di favorire il profitto privato al di là delle regole valide nel resto del Paese, e con la scusa che questo trattamento di favore si dovrebbe riverberare poi in un maggiore sviluppo del Mezzogiorno. Il messaggio dell’Europa, su questo versante, è chiaro: se vogliamo i soldi del PNRR, dobbiamo potenziare il meccanismo delle ZES, ovvero un modello di sviluppo basato sull’idea che la crescita si produce solo a discapito della sicurezza del lavoro, dell’ambiente, della lotta alla criminalità, delle regole urbanistiche e di tutto ciò che determina il benessere collettivo.

Concludiamo questa rapida disamina delle più significative tra le 51 condizioni associate alla prima tranche di finanziamento del PNRR con un capitolo dedicato ai soldi destinati alle imprese. Perché i progetti infrastrutturali partano, cioè affinché le successive tranche del PNRR siano sbloccate, l’Europa ci chiede in prima battuta di assicurare una pioggia di denaro ad alcuni specifici settori industriali. Con la proroga del Superbonus, si regala il famoso 10% dell’investimento a banche e multinazionali del settore delle costruzioni, che garantiscono le ristrutturazioni ecosostenibili anticipando il 100% delle risorse necessarie (è il lavoro delle banche, ci mancherebbe), ma accaparrandosi il 10% aggiuntivo gentilmente messo a disposizione dallo Stato. Siamo poi impegnati a varare l’invito per individuare i beneficiari di 1,5 miliardi di aiuti di Stato autorizzati dalla Commissione Europea nel settore della microelettronica tramite il Fondo IPCEI, a rifinanziare il Fondo 295/81 gestito dalla SIMEST per favorire l’internazionalizzazione delle imprese con 1,2 miliardi di euro, a sostenere l’imprenditorialità femminile con 20 milioni di euro a fondo perduto e a sovvenzionare, con una serie di fondi, le imprese del turismo con oltre 1,8 miliardi di euro. Ecco che la prima tranche condiziona la destinazione di una quota cospicua delle risorse da sbloccare a trasferimenti al mondo delle imprese, rafforzandone i margini di profitto.

Il viaggio nelle 528 condizioni del PNRR è appena iniziato, siamo solo alla prima delle dieci tranche previste, eppure dovrebbe essere chiaro quale sia la posta in gioco. Dietro alla promessa di infrastrutture per il Paese e un ritorno alla crescita si cela un tessuto di riforme e investimenti che convergono sullo scopo di rafforzare la profittabilità delle imprese private a discapito del benessere collettivo e dei diritti sociali, minacciati da un programma di privatizzazioni e deregolamentazioni che si impone sull’agenda politica delle singole forze parlamentari, proprio in virtù del meccanismo di condizionalità che caratterizza il PNRR. Le riforme che ci siamo impegnati a varare entro il prossimo dicembre, di cui abbiamo qui brevemente discusso, non sono contenute nel programma politico di alcun partito, non sono sottoposte ad alcun dibattito, sono la costituzione materiale di una nuova forma di austerità che sta determinando gli assetti fondamentali della nostra organizzazione economica e sociale mese dopo mese, condizione dopo condizione, tranche dopo tranche di questo grandioso piano di aiuti europei.

La vita politica istituzionale italiana, mai come oggi, riflette come uno specchio d’acqua equilibri di potere stabiliti altrove e, per essere precisi, a Bruxelles. Il 6 luglio 2021 è stato approvato dal Consiglio dell’Unione europea il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) italiano, che fissa una serie di obiettivi da raggiungere da qui al 2026 come condizione per l’erogazione delle successive tranche di finanziamento; tali obiettivi vanno a comporre una vera e propria agenda politica fitta e dettagliata per i prossimi cinque anni che vincola qualsiasi governo e qualsiasi maggioranza parlamentare all’indirizzo politico scandito dalle riforme e dagli investimenti che ci chiede l’Europa. Il riflesso di questa cristallizzazione dell’agenda politica italiana intorno alle priorità del PNRR è stato il teatrino dell’elezione del Presidente della Repubblica: l’assetto politico istituzionale del Paese ricalca la stabilità dell’indirizzo politico, e dunque restano al loro posto il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio e tutti i Ministri a garanzia della continuità nell’esecuzione di tutte le misure previste dal PNRR.

Per questa ragione, la strategia politica di questo Governo, e di qualsiasi Governo scelga la piena compatibilità con l’Unione europea, è scritta nero su bianco nel PNRR. Studiare gli obiettivi imposti dalle rigide scadenze del Piano significa dunque visualizzare chiaramente le priorità politiche individuate a Bruxelles per il nostro Paese. Il ritmo di queste priorità è la cadenza semestrale delle tranche di finanziamento, e dunque abbiamo davanti a noi la scadenza del prossimo giugno, che individua circa 50 traguardi ed obiettivi da raggiungere per ottenere poco più di 20 miliardi di euro, tra prestiti e contributi a fondo perduto.

Il primo punto che salta agli occhi, in questa fitta agenda politica, è l’entrata in vigore della riforma del codice degli appalti, fissato nella documentazione ufficiale all’obiettivo M1C1-70. Tale riforma è descritta espressamente come “una nuova disciplina più snella rispetto a quella vigente, che riduca al massimo le regole che vanno oltre quelle richieste dalla normativa europea”. Più snella significa innanzitutto meno restrizioni ai subappalti. Dal momento che i requisiti normativi per l’accesso da parte delle imprese agli appalti pubblici impongono tutta una serie di garanzie – che vanno dalla sicurezza sul lavoro fino all’assenza di qualsiasi traccia di potenziale infiltrazione criminale nella storia dell’operatore economico – il subappalto è lo strumento principale usato per aggirare le regole: vince l’appalto una società di facciata, pura e limpida, che poi subappalta ad imprese che operano ai limiti delle regole o fuori da esse, allungando così la catena di gestione dell’affidamento e rendendo sensibilmente meno efficaci i controlli.

Ecco cosa ci chiede l’Europa, dunque: meno controlli sul rispetto delle norme da parte delle imprese – che devono essere libere, sì, ma di accedere all’ambito bottino della spesa pubblica senza passare per il rigoroso rispetto delle norme che tutelano i lavoratori, la legalità o l’ambiente. Già, l’ambiente di cui tanto parla il nostro PNRR è oggetto specifico della dieta imposta al codice degli appalti dall’obiettivo M1C1-70, che prevede anche uno snellimento delle Verifiche di Impatto Ambientale (VIA) necessarie a sbloccare gli investimenti pubblici. Tali verifiche servono a controllare e misurare l’effetto dei progetti pubblici sull’ambiente, in modo da considerare tale variabile nella complessiva analisi costi-benefici preliminare a qualsiasi scelta di politica economica: ad esempio, se la realizzazione di un’infrastruttura autostradale rischia di compromettere un bacino acquifero, lo Stato chiederà all’impresa aggiudicataria di considerare nel capitolato anche le spese per scongiurare tale rischio. Dunque, il contenimento delle VIA ha un significato limpido: la tutela dell’ambiente deve essere derubricata a fattore marginale nella valutazione degli investimenti pubblici, perché quel capitolato – che contiene i costi dell’impresa privata per la realizzazione del progetto – deve essere più snello possibile. Meno costi significa più profitti. Peccato che i costi servono a tutelare l’ambiente – di tutti – mentre i profitti finiscono nelle tasche di pochi.

La medesima logica ispira l’obiettivo M2C1-13, che prevede l’entrata in vigore del decreto ministeriale sul programma nazionale per la gestione dei rifiuti. Il ruolo di questo intervento normativo richiesto dall’Europa è fondamentale: lo stesso PNRR prevede di investire oltre 2 miliardi di euro per l’economia circolare, ma prima che questi soldi siano stanziati deve intervenire la riforma che marginalizzi il ruolo delle municipalizzate (pubbliche) nella gestione dei rifiuti e apra la strada per il protagonismo dei soggetti privati. Così, la bozza di Programma Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (PNGR) redatta il 17 marzo scorso dal Ministero per la Transizione Ecologica (MiTE), che disciplinerà il settore della gestione dei rifiuti per i prossimi sei anni (2022-2028), mette in prima pagina i nobilissimi obiettivi di “colmare il gap impiantistico, aumentare il tasso di raccolta differenziata e di riciclaggio” ma poi rende esplicito il suo reale traguardo che, come ci dice lo stesso MiTE, “mira a orientare le politiche pubbliche ed incentivare le iniziative private per lo sviluppo di un’economia sostenibile e circolare”. Se dunque si devono proprio spendere risorse per migliorare la gestione dei rifiuti, sembra dirci la Commissione europea attraverso il PNRR, è preferibile che quei soldi vadano a profitto delle imprese private, piuttosto che essere investiti nella gestione pubblica del servizio. Peccato che l’opzione di mercato, oltre a comportare un drenaggio di risorse verso i profitti privati, che non ci sarebbe nel caso di gestione pubblica, comporti una serie di rischi enormi nel particolare settore della catena dei rifiuti.

Proviamo a capire come sia possibile, attraverso un semplice piano pluriennale di gestione strategica dei rifiuti, sdoganare l’ingresso dei privati in un settore che rischia di avvelenare ambiente e popolazione. Il PNGR funziona così: stabilisce una serie di obiettivi che devono essere conseguiti dalle amministrazioni territoriali che hanno la responsabilità della gestione strategica dei rifiuti, ovvero Regioni e Province autonome; tali obiettivi mirano a colmare le carenze strutturali di impianti e si declinano in target regionali che vanno dall’aumento del tasso di raccolta differenziata alla riduzione del tasso di smaltimento in discarica. Dal momento che i target sono fissati su base regionale, la possibilità per le amministrazioni territoriali di rispettarli con le risorse disponibili le spinge necessariamente a focalizzare le azioni di intervento sulla realizzazione di grandi impianti: esattamente ciò che frutta profitti ai privati, esattamente ciò che prelude alla peggiore gestione dei rifiuti dal punto di vista dell’ambiente e dei cittadini che si trovano a vivere in prossimità di questi ecomostri. I grandi impianti sono quelli che hanno un maggior impatto negativo sui territori circostanti: con la scusa di garantire adeguate capacità di trattamento dei rifiuti, si tagliano fuori proprio i piccoli impianti di prossimità, gli unici capaci di coniugare l’impiego delle tecnologie di smaltimento più avanzate con il minore impatto su ambiente e popolazione circostante.

L’agenda politica imposta dal PNRR fa così strage della sicurezza del lavoro, dell’ambiente, della salute, ma si preoccupa anche dell’istruzione e della ricerca, purtroppo. L’obiettivo M4C1-4 richiede l’adozione del Piano Scuola 4.0, ovviamente “al fine di favorire la transizione digitale del sistema scolastico italiano”, manco a dirlo. Peccato che questa ennesima riforma della scuola, che troverà il suo compimento entro dicembre con un secondo obiettivo PNRR dedicato (M4C1-5), riduca ulteriormente il perimetro del sistema d’istruzione pubblica, come nei desiderata della dottrina neoliberista. Difatti, la riforma mira – asetticamente, come tutte le misure apparentemente tecniche e non politiche – ad “adeguare il sistema di istruzione agli sviluppi demografici”. La tecnica, però, serve solo a mascherare gli indirizzi politici più meschini: dal momento che è in atto un significativo declino demografico, dichiarare di adeguare il sistema scolastico agli sviluppi demografici significa dire (senza avere il coraggio di farlo) che si devono ridurre aule, docenti, scuole. È un attacco al sistema pubblico di istruzione, che appare tanto più odioso dopo una pandemia che ha reso drammaticamente evidenti i limiti delle classi pollaio e di tutte le carenze strutturali del nostro sistema scolastico. Eppure, ce lo chiede l’Europa.

Così come ci chiede, con l’obiettivo M4C2-17, di mettere la ricerca scientifica al servizio del profitto privato. Viene infatti finanziato il ‘Fondo per la realizzazione di un sistema integrato di infrastrutture di ricerca e innovazione’ per “facilitare l’osmosi tra la conoscenza scientifica generata in infrastrutture di ricerca di alta qualità e il settore economico (…) che colleghino il settore industriale e quello accademico”. Detto in parole povere: il privato decide in cose si fa ricerca e se ne gusta i risultati, gratis. La logica di mercato entra a gamba tesa nel mondo della ricerca. Lo scopo è quello di finanziare la creazione di centri di ricerca nazionali, secondo una logica competitiva, che abbiano tra gli elementi essenziali il coinvolgimento di soggetti privati nell’attuazione dei progetti di ricerca. Insomma, si toglie ai privati persino l’onere del rischio! Non solo la ricerca si piega all’interesse del mercato, ma il Governo si pone l’obiettivo di regalare ai profitti i frutti della ricerca pubblica.

L’ultima delle 50 condizioni imposte dal PNRR all’azione di governo entro la scadenza tassativa (pena la perdita del finanziamento europeo) del giugno prossimo su cui vogliamo concentrare l’attenzione in questa sintesi politica è l’obiettivo M1C1-104, che ha un profilo paradigmatico dell’intero PNRR. Con questo obiettivo, il Governo si è impegnato ad “adottare obiettivi di risparmio per le spending review relative agli anni 2023-2025”. Ne sentivamo davvero la mancanza, in questi anni di pandemia: è tornata l’austerità. Già, perché dietro a quell’anglicismo c’è la sistematica riduzione della spesa sociale, della sanità pubblica, dell’istruzione, dei servizi per i cittadini e l’altrettanto ineluttabile aumento delle tasse che servono a garantire il pareggio del bilancio pubblico, il feticcio di un’impostazione dell’economia e della società che serve a smontare lo stato sociale e favorire la sfrenata ricerca del profitto sopra ogni altro interesse. In virtù di questa rigorosa introduzione della spending review in termini di “obiettivi di risparmio” prevista entro giugno, ogni euro di PNRR concesso all’Italia porta con sé il taglio di decine di euro di spesa pubblica, un gioco al massacro per lo stato sociale, la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, le pensioni.

Ci hanno raccontato che i soldi del PNRR avrebbero consentito la ripresa dalla crisi pandemica. È la favola dell’Unione europea che cambia, chiude la stagione dell’austerità e diventa il motore del progresso sociale ed economico. La realtà, invece, è fatta di un PNRR che impone ben 528 condizioni politiche: i soldi arrivano se e solo se l’Italia introduce una serie di riforme che allargano gli spazi del mercato e smantellano gli ultimi residui di stato sociale. In questa prima metà del 2022, per avere l’elemosina del PNRR, l’Italia dovrà riformare il codice degli appalti favorendo i subappalti e dunque la deregolamentazione, imporre una gestione dei rifiuti disastrosa per l’ambiente e i cittadini ma favorevole al grande business dell’immondizia, accelerare la già evidente trasformazione della scuola pubblica in una sorta di azienda al servizio del profitto privato, a detrimento del diritto allo studio, e piegare la ricerca scientifica agli interessi dei privati, proprio mentre la pandemia ci mostra l’importanza di finanziare una ricerca pubblica orientata al bene collettivo. Tutto mentre si impone una rigida spending review che riporta la finanza pubblica nel vicolo cieco dell’austerità.


Leggi anche la parte precedente:

Comments

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Alfred*
Thursday, 07 April 2022 09:01
Prosegue il programma neoliberista che cosi tante gioie ci regala dagli anni ottanta.
Questo banchiere potrebbe benissimo godersi la lauta pensione e invece spende il suo tempo cercando di distruggere il presente e il futuro di tutti noi. Proprio vero che le perversioni non si riuscira' mai a catalogarle e contarle.
in ultimo
Possibile che siamo cosi cretini da berci il senso di colpa sui condizionatori alternativa alla liberta'(dell' ucraina di entrare nella nato)? Non ho condizionatori e vivo in una zona fredda, amo il caldo, ma super mario non vuole dirmi che crepero' di freddo, vuole sottolineare che questi poveretti col condizionatore possono rinunciare al piccolo status simbol per la libberta' della gang nazi di ...elenski e farli sentire in colpa, loro che pensavano di crogiolarsi nel freddino estivo.
Non sara' mai troppo tardi per mandarlo a fare il manovale o qualsiasi lavoro a 1000 euro al mese per poi farci spiegare come lui e famiglia fanno a sopravvivere. Per non parlare di vivere con pensione al minimo.
Gli possano andare di traverso tutti i condizionatori del globo a lui e a tutti quelli come lui. possibilmente prima che mettano in pratica lo strozzinaggio del pnrr.
Scusate, ma non tollero piu' questi atteggiamenti paternalistici, il farti sentire in colpa come cacca davanti a ideali fasulli e le prese per il culo di quelli che come Cingolani contano gli anni in mesi in modo da non farti capire quanti anni e inverni passerai al freddo per cercare di risolvere l'alternativa al metano russo.
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