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goofynomics

Segare il ramo, banchieri filantropi, e altre storie

di Alberto Bagnai

FlokCuvWIAAYTeT(...iniziato Verona, proseguito a Vicenza, terminato a Treviso. Pax tibi Marce evangelista meus...)

Nell'articolo con cui il 22 agosto 2011 lanciai il Dibattito sul "manifesto", attaccando da sinistra una Rossana Rossanda tutto sommato incolpevole (per non aver compreso il fatto), la chiave di volta del ragionamento era racchiusa in una frase che ex ante venne compresa da pochi, e che ex post forse sarà compresa da pochi altri (ma vale la pena di tentare):

"La Germania segherà il ramo su cui è seduta": che cosa voleva dire questa frase?

Proviamo a rispiegarne il senso economico e le implicazioni politiche. Sarà comunque un esercizio utile, indipendentemente dalla riuscita.

 

Prima premessa di metodo: la parola "domanda" esiste

Per mettere questa frase e le sue conseguenze nella prospettiva corretta bisogna però spogliarsi da ogni residua briciola di gianninismo, lo spaghetti-liberismo italiano tutto lato dell'offerta e distintivo (definisco questa corrente di "pensiero" riferendomi al personaggio di Giannino perché quest'ultimo è particolarmente influente - che non vuol dire autorevole!, iconico, e rappresentativo della consistenza scientifica di certe tesi).

Ricorderete che secondo Irving Fisher per ottenere un economista basta insegnare a un pappagallo a dire "domanda e offerta". In Italia occorre la metà dello sforzo: basta insegnare a un pappagallo (o a un giornalista) a dire "offerta", ed ecco pronto l'esperto di economia (quello autorevole)!

Nel mondo economico così come vi viene rappresentato dai media e dalla stragrande maggioranza dei miei colleghi (mi riferisco agli economisti e ai politici, non ai musicisti) il primum movens dell'attività economica è la produzione, l'offerta. In altri termini, nel vostro mondo insomma (perché, che lo vogliate o no, il vostro mondo è una loro rappresentazione, e voi continuate ad accettare e alimentare questo meccanismo perverso...) si produce per produrre, e per produrre di più si aumenta la produttività, presentata come fenomeno completamente determinato da logiche di efficienza allocativa e organizzativa, cioè di offerta, e simmetricamente del tutto scisso dalle logiche della domanda, cioè dalla spesa, dalla capacità di acquisto dei potenziali acquirenti di tanta produzione.

Insomma: per i tanti "gianninisti" che egemonizzano il dibattito minor (quello con la maiuscola, che però è l'unico che tutti conoscono) l'imprenditore produce per produrre, non per vendere.

Questa visione distorta, ideologica, urta contro tutto quello che sappiamo dell'uomo e della sua storia.

Perfino i più teoricamente disinteressati fra i "produttori", gli artisti, che possiamo immaginare spinti da un'urgenza incoercibile e irrinunciabile di affermare a qualsiasi prezzo la propria visione del mondo, hanno manifestato storicamente una fastidiosa propensione a pretendere di essere pagati bene per la propria opera (possiamo citare le infinite controversie fra Bach e gli scabini di Lipsia, ma di artisti che tirano sul prezzo è piena la storia sociale dell'arte, e del resto se gli artisti l'avessero data gratis, l'opera d'arte, l'arte non avrebbe avuto quella strana tendenza a concentrarsi nelle località motore dello sviluppo economico: volta per volta, in no particular order e con parecchie lacune, Atene, Roma, Firenze, le Fiandre, Parigi, ecc.). Anche Michelangelo, anche Metastasio, anche Monteverdi, producevano per vendere. Ma al di là di simili percorsi individuali, che cito semplicemente perché suppongo che possano avere un valore paradigmatico per alcuni di voi (apro e chiudo una parentesi per farvi riflettere che non a caso l'idea dell'artista genio incompreso e straccione che vive e muore "creando" in una soffitta si afferma col romanticismo, cioè col capitalismo, e un motivo ci sarà: nel Medio Evo l'artista era "sindacalizzato"...), il fatto è che l'intera storia umana è una storia di ricerca di mercati di sbocco, prima che di mercati di approvvigionamento.

Non so che idea ne abbiano oggi gli storici, ma, come sapete, la relazione fra conquista di mercati di sbocco (e quindi incremento della domanda di beni) e rivoluzione industriale (e quindi innovazione di processo, aumento della produttività) era ben chiara, con un certo anticipo, al padre dell'economia, Adam Smith, quell'economista che tutti citano ma nessuno ha letto. Vi riporto qui il solito passo, quello che abbiamo citato più volte, tratto dal terzo capitolo del primo libro, che si intitola "La divisione del lavoro è limitata dall'estensione del mercato":

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Il fabbro di campagna, nota Smith, si occupa di qualsiasi lavoro in ferro, così come il carpentiere di qualsiasi lavoro in legno, semplicemente perché se si specializzasse, via divisione del lavoro, in un particolare anello della catena produttiva (ad esempio, nel produrre chiodi) non riuscirebbe a smaltire nemmeno in un anno la produzione di un giorno. In assenza di questo stimolo viene meno l'incentivo a innovare, a incrementare la produttività (se i chiodi non hai a chi venderli, poi ti tocca mangiarli, con potenziali problemi digestivi). La differenza la fa l'accesso al mercato, cioè alla domanda, alla spesa di altri per l'acquisto dei beni da te prodotti, un accesso che all'epoca richiedeva, come condizione necessaria, l'accesso al mare:

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Siccome è il trasporto marittimo ad aprire a nuovi mercati, è lungo le coste che l'industria migliora e si specializza, e spesso occorre del tempo prima che queste innovazioni si diffondano all'interno del Paese.

Insomma: per Smith la domanda è il motore dell'economia e della produttività, cioè, in buona sostanza, la domanda provoca, "causa" l'offerta; per chi lo cita (senza averlo letto) è invece l'offerta a "causare" la domanda. L'argomento pare sia che un aumento della produttività consente di abbattere il prezzo dei prodotti e quindi di venderne di più... a lavoratori che, però, stanno guadagnando di meno (perché l'aumento della produttività consente di ridurne l'impiego)!

Nell'attesa che voi soppesiate le due tesi e poi decidiate "con la vostra testa" quale vi convince di più (ricordate quante soddisfazioni ci ha questo marker grillino all'inizio del Dibattito?), mi duole segnalarvi che la storia delle vostre eventuali conclusioni tende a fottersene e ha già deciso quale delle due tesi funziona meglio: alcuni secoli di imperialismo, in varianti più o meno colonialiste, lo chiariscono.

 

Seconda premessa di metodo: l'autarchia danneggia te (quindi gli altri), il mercantilismo danneggia gli altri (quindi te)

Ovviamente dall'idea che l'offerta sia il motore dell'economia, più precisamente: di un'economia "sana", scaturisce naturaliter l'idea che la domanda ce la debba mettere qualcun altro: appunto, il resto del mondo. L'offertismo quindi si sposa bene col mercantilismo, cioè con la filosofia politica che vede nel conseguimento di un surplus di bilancia dei pagamenti, di un eccesso delle esportazioni sulle importazioni, il fine ultimo e l'unico metro di giudizio dell'azione economica di un governo.

Ora, fa veramente sorridere la solerzia con cui gli ingengngnieri e consimili dilettanti dell'economia (ultimamente si portano molto anche i medici!) si stracciano le vesti accusando di velleità autarchiche chiunque auspichi una configurazione più equilibrata (o meno squilibrata) degli scambi internazionali.

L'idea che chi esporta "ha vinto" e chi importa "ha perso" deriva da una perversa Wille zur Macht e contribuisce ad alimentarla in modo politicamente destabilizzante. Dato che il mondo è un sistema chiuso, perfino Krugman si è accorto che è impossibile che tutti i Paesi della Terra siano simultaneamente esportatori: affinché potessero esserlo, dovrebbe essere possibile esportare su Marte! Capiamoci subito: nessuna persona sana di mente invocherebbe l'autarchia in un Paese come il nostro, che essendo privo di materie prime (meno di quanto si creda, ma più di quanto crei opportunità economiche ai prezzi correnti) è costretto a esportare per importare (sì: i Paesi privi di materie prime sono costretti a esportare prodotti finiti per procurarsi le risorse finanziarie con cui importare le materie prime: ci avevate mai pensato?)!

L'autarchia significherebbe (e ha storicamente significato) il collasso del nostro sistema produttivo. D'altra parte, dovrebbe essere chiaro che la rudimentale filosofia secondo cui esportare (cioè campare sulla domanda altrui) è bene e importare (cioè domandare beni altrui) è male pone come obiettivo ineludibile di politica estera quello di confinare alcuni altri Paesi nel ruolo di clientes, di straccioni, di pigs, di soggetti costretti a indebitarsi per acquistare quanto produci.

Chiedere una configurazione meno squilibrata degli scambi internazionali non significa, per essere chiari, che la bilancia dei pagamenti debba sempre essere a saldo nullo, né in variante autarchica (zero esportazioni meno zero importazioni uguale zero), né nelle infinite altre varianti (X esportazioni meno X importazioni uguale zero, con X>0)! Significa però, di converso, che se il tuo scopo dichiarato è essere sempre in una condizione di surplus, di eccesso di esportazioni, crescente, da qualche altra parte del mondo qualcun altro sarà costretto nel ruolo scomodo di essere sempre in condizione di deficit, di eccesso di importazioni, crescente. E siccome un eccesso di importazioni non è sostenibile per sempre, perché alla fine terminano i soldi per pagare i beni altrui, non è sostenibile per sempre neanche un eccesso strutturale di esportazioni, che quindi non è un obiettivo lungimirante: è un obiettivo tedesco.

Ora: si capisce bene che un simile obiettivo, astrattamente considerato, è folle. Sarebbe però altrettanto folle immaginare che esso sia concepito in una stanzetta chiusa da un Genio del male, che poi in qualche modo (ad esempio, corompendo - co' ddu ere, sinnò è erore - li politichi che magneno e arubbeno) lo imponga a un intero Paese e quindi al resto del mondo. Ragionare così significa ignorare scioccamente che le politiche mercantilistiche, prima di essere un modo (sbagliato) di impostare le relazioni internazionali, sono un modo (ingiusto) di risolvere il conflitto distributivo nazionale. Il motivo ai più anziani del blog dovrebbe essere chiaro: l'esigenza dello sbocco estero diventa vitale quando il mercato interno, nazionale, non è uno sbocco, e il mercato interno non è uno sbocco quando nel conflitto fra capitale e lavoro vince il capitale, sottopagando il lavoro che quindi non ha di che acquistare la produzione nazionale. Non è la follia di un Genio del male a condurci su una traiettoria insostenibile, ma la razionalità di tanti uomini pratici, che per espandere i propri profitti decurtano i propri fatturati (perché i tuoi operai non possono comprare i tuoi beni coi soldi che non distribuisci loro). La letteratura post-Keynesiana chiarisce benissimo questo punto, ponendo in alternativa il modello di crescita export-led (trainata dalle esportazioni) a quello di crescita wage-led (trainata dai salari), ma naturalmente io parlo per sentito dire, perché sono un politico che magna, beve, rubba e rutta (ed è anche stato corotto - co' ddu ere, ovviamente), per cui a questo articolo ha lavorato un mio pseudonimo.

Terminate le premesse, enuncio brevemente il ragionamento, e poi passo a svilupparlo con tanto di disegnini...

 

Abstract

Il percorso dell'Eurozona si divide sostanzialmente in tre fasi, che corrispondono ad altrettanti tentativi dei capitalismi del Nord (aka "la Germania") di configurare i propri mercati di sbocco:

  1. nella prima fase, il mercato di sbocco dei capitalismi del Nord sono stati i Paesi membri del Sud (o meglio, della periferia) dell'Eurozona, le cui importazioni (di prodotti del Nord) erano facilitate dall'adozione di una moneta forte (che rendeva convenienti i beni del Nord) e cui l'integrazione finanziaria consentiva un facile finanziamento con debito estero (verso creditori del Nord) dell'acquisto dei beni del Nord.
  2. Nella seconda fase, susseguente alla crisi finanziaria globale, i Paesi membri del Nord hanno spezzato le gambe a quelli del Sud smettendo di finanziarli e imponendo loro politiche di austerità, cioè di taglio dei redditi, della capacità di spesa, per farli rientrare dai debiti che erano stati contratti per acquistare beni del Nord. Questo ovviamente ha reso il Sud inadatto come mercato di sbocco (con un lavoro precario o una pensione tagliata la macchina tedesca non la compri). La via di uscita è stata trovata svalutando l'euro per consentire al Nord di aggredire i mercati extraeuropei, in primis quello statunitense: insomma, il mercato di sbocco dei capitalismi del Nord sono diventati i Paesi esterni all'Eurozona.
  3. Nella terza fase, iniziata prima della pandemia, ma esplicitatasi dopo, un capitalismo più forte dei capitalismi "forti" de noantri, quello statunitense, si è seccato di essere considerato un mercato di sbocco (nei decenni precedenti si era già infastidito per lo stesso motivo con Giappone e Cina). Di conseguenza, ha sostanzialmente chiuso alla Germania sia i mercati di approvvigionamento che quelli di sbocco. Il problema di questa fase, che è quella che stiamo vivendo, è che in essa i capitalismi del Nord non hanno più un mercato di sbocco: non hanno quello che hanno distrutto (la domanda interna dell'Eurozona), non hanno quello che hanno infastidito (gli Stati Uniti), non hanno quelli che gli sono stati preclusi dai noti eventi (Russia, Cina, ecc.). Siamo ancora in attesa di vedere verso quale configurazione potrebbe tendere il sistema, cioè come risolverà la Germania il suo problema di domanda: due esiti possibili sono il rianimare la domanda interna (quella tedesca, o quella dell'Eurozona, il che presuppone, come abbiamo evidenziato, una diversa soluzione del conflitto distributivo), o collassare in una sorta di singolarità, come ogni buco nero - della domanda mondiale - che si rispetti.

Nella fase 1 l'Eurozona ha "lavato in famiglia" i panni sporchi dei propri squilibri; nella fase 2 ha esportato i propri squilibri verso l'economia globale; nella fase 3 deve risolvere i propri squilibri, che sono, lo ripeto, innanzitutto squilibri distributivi, di distribuzione del reddito fra capitale e lavoro, e non è detto che ci riesca.

E ora, entriamo in dettaglio, usando i disegnini che ho fatto vedere a iMercati l'ultima volta che ho avuto il piacere di incontrarli. Alla fine, iMercati siete voi, non le persone non sempre lucide cui affidate i vostri risparmi, quindi è giusto che anche voi sappiate a che punto siamo. La variabile che ci aiuterà di più a orientare il nostro ragionamento è il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, l'eccesso delle esportazioni sulle importazioni.

 

La fase uno: il "net zero" dell'Eurozona

E ripartiamo dal tema degli squilibri globali (di bilancia dei pagamenti), i global imbalances con cui ci siamo intrattenuti spesso, data la loro importanza. Vi ricordo qual era la situazione verso il 2008, anno in cui mi occupavo scientificamente del tema:

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A fronte di un grande deficit americano, avevamo una situazione di crescente surplus cinese, e di sostanziale equilibrio dei conti esteri dell'Eurozona. Quest'ultima quindi non contribuiva, almeno apparentemente, agli squilibri economici globali. All'epoca in effetti si enfatizzava molto la tensione fra Stati Uniti e Cina, si ragionava sul fatto che la relazione transatlantica fra Usa e Europa stava venendo soppiantata dalla relazione transpacifica fra Usa e Cina, e questo poneva sfide alla globalizzazione. Gli Stati Uniti, si argomentava, si sarebbero stancati di essere ancora a lungo i compratori di ultima istanza dei beni cinesi, sostenendo la crescita di un avversario potenzialmente pericoloso. Il dibattito, naturalmente, aveva mille altre sfaccettature, ma il punto è che mentre tutti si focalizzavano sul "mamma li cinesi!", a tutti sfuggiva la vera fonte di potenziali squilibri per l'economia globale, cioè il fatto che il net zero mondiale nel commercio dell'Eurozona fosse l'effetto netto di una situazione estremamente squilibrata fra il Nord e il Sud dell'Eurozona stessa:

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Molto a spanne (e con riserva di produrre dati dettagliati su richiesta): verso il 2007, il saldo zero dell'Eurozona era la somma algebrica di un più 250 di saldo tedesco, compensato da un meno 150 di deficit spagnolo, un meno 50 di deficit greco, e un altro meno 50 (25+25) di deficit italiano e portoghese. Il deficit complessivo dei PIGS assorbiva il surplus del campione tedesco. Non entro qui in tutta una serie di dettagli (ad esempio: come stava messa la Germania nel 1999?). Mi limito a constatare che per assorbire l'enorme surplus tedesco, i paesi del Sud dovevano accumulare debiti sempre meno sostenibili. La crisi del 2008-2010 avrebbe posto fine a questo gioco con cui le banche del Nord finanziavano i consumatori del Sud perché comprassero beni del Nord.

 

La fase due: austerità ed esportazione degli squilibri

Si arriva così alla fase dell'austerità, che aveva uno scopo evidente, ma anche una conseguenza imprevista, non voluta o non immediatamente compresa.

Lo scopo era piuttosto ovvio: quella che ci veniva raccontata come la necessità di rientrare dal nostro debito pubblico che metteva in pericolo l'euro (senza che fosse molto chiaro il nesso), era molto più prosaicamente la necessità del nostro settore privato di restituire ai Paesi del Nord le somme dovute loro. In altre parole, il problema non era "salvare" i Paesi del Sud dalla propria prodigalità, dalla propria incoscienza fiscale, ma salvare le banche (prevalentemente, ma non esclusivamente, del Nord) dalla propria imprudenza (incapacità o scarsa volontà di valutare il merito di credito dei propri clienti esteri).

Questa storia è già scritta e chi è qui da un po' la sa, ma a riprova di quanto dico (lo scopo era salvare le banche del Nord, non i Paesi del Sud) è sempre utile ricordare questo studio, che parte da una semplice domanda: dove sono finiti i soldi del salvataggio della Grecia? La risposta è altrettanto semplice e condensata in questo grafico:

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Il 95% delle somme è andato al settore bancario.

Ovviamente onorare i propri debiti è cosa buona e giusta. Chi sia il creditore, però, un po' di differenza la fa. I debiti verso uno spacciatore vanno necessariamente onorati? La prima fase dell'unione monetaria aveva visto i Paesi del Nord drogare le economie del Sud con la più insidiosa delle droghe, il credito facile. Diciamo che un vero burden sharing, una vera condivisione dell'onere di questa gigantesca sbornia, sarebbe stata eticamente più accettabile e politicamente più sostenibile. Ma se ci fosse stata io ora non sarei alla Camera, e quindi amen. Non mi è chiaro quanto quella lezione sia stata appresa, eppure non è una lezione difficile: i tassi bassi non sono necessariamente un bene, nella misura in cui incentivano il credito, cioè il debito. La visione distorta secondo cui "più sono bassi i tassi meglio è" è in qualche modo legata alla visione altrettanto distorta secondo cui l'unico debito è quello pubblico, per cui una discesa dei tassi libera risorse pubbliche da destinare a scuole, ospedali, pensioni ecc., anziché al servizio del debito, ed è quindi incondizionatamente positiva. Il quadro cambia quando si considerano anche i debiti privati, che poi sono quelli che regolarmente innescano le crisi finanziarie (è molto più facile che sia un debitore privato anziché un debitore sovrano a non onorare i propri debiti, le banche saltano per aria molto più spesso degli Stati). Il punto è che tassi fuori dall'equilibrio (troppo bassi) favoriscono l'accumulo di debito privato. Come di ogni cosa, anche del denaro si abusa se il suo costo scende. Questa era stata la storia dell'Eurozona pre-crisi, e con gli errori di quella storia nessuno vuole veramente fare i conti, e nessuno vuole portarne la responsabilità.

Inutile dire che ora siamo in una fase diversa, e che il rischio è di avere tassi fuori dall'equilibrio al rialzo, cioè commettere l'errore contrario (con cui fra dieci anni nessuno vorrà fare i conti e di cui fra dieci anni nessuno porterà la responsabilità).

Riprendendo il filo del discorso: se il problema da risolvere era l'accumulazione di debiti esteri del Sud contratti per finanziare un deficit di bilancia dei pagamenti verso il Nord, la soluzione doveva essere il conseguimento di surplus esteri, cioè un taglio di ulteriori importazioni e la promozione delle esportazioni, per raggranellare al Sud risorse con cui ripagare i debiti esteri verso il Nord. L'austerità questo faceva, in due modi. Il taglio dei redditi di per sé taglia le importazioni, e in quanto si realizza mediante compressione dei salari (via jobs act ecc.) promuove le esportazioni, migliorandone la competitività di prezzo (la compressione del costo del lavoro permette di contenere i prezzi dei prodotti).

Ha funzionato?

Sì, e infatti tutti i Paesi del Sud si sono trovati in un modo o nell'altro in surplus estero:

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Il quadrato rosso evidenzia l'entrata nel meraviglioso mondo dell'austerità. La Germania ha mantenuto il proprio surplus esorbitante, gli altri sono passati da posizioni negative a posizioni positive.

Tutto bene quindi?

No, per due motivi. Primo, perché in assenza di un riaggiustamento del cambio nominale (impossibile in una unione monetaria) tutto l'aggiustamento si è scaricato sui redditi. I tre milioni di poveri made in Monty derivano da lì, e questo spiega perché l'aggiustamento sia avvenuto prevalentemente via compressione delle importazioni, a differenza di quanto era avvenuto nel 1992 (lo vedemmo in dettaglio qui). Secondo, perché mentre la Terra non può diventare un'esportatore netto nel Sistema solare per ovvi limiti fisici, il che impedisce agli Stati mondiali di essere contemporaneamente tutti in surplus, un simile limite fisico non esiste per l'Eurozona: i suoi Paesi membri possono essere tutti in surplus, purché esportino verso il resto del mondo. Si arriva così a quella che ho definito la "conseguenza imprevista": l'esportazione degli squilibri di bilancia dei pagamenti interni verso l'economia globale, la fine del net zero dell'Eurozona:

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Vedete le barre gialle? Sono il surplus dell'Eurozona verso il resto del mondo (Usa, Cina, ecc.), e sono anche (approssimativamente) la somma algebrica delle altre linee, che rappresentano i surplus/deficit di alcuni Paesi membri. Finché la Germania tirava verso l'alto (surplus) e gli altri verso il basso (deficit) il saldo della zona era nullo. Quando l'austerità ha portato tutti a tirare verso l'alto (surplus) il saldo della zona è esploso. A questo punto il surplus dell'Eurozona è diventato un problema geopolitico non trascurabile, direi il problema geopolitico (ovviamente ignorato, non compreso o malinteso dagli esperti di #aaaaaggeobolidiga). Il fatto è che i Paesi importatori sostengono, con la loro domanda, le economie altrui, mentre i Paesi esportatori campano sulla domanda altrui; chi esporta beni esporta anche deindustrializzazione (a casa di chi quei beni non deve o non riesce più a produrli) e deflazione. Lasciare gli Stati Uniti a trainare da soli il carro della domanda mondiale era una diretta conseguenza della decisione tedesca di schiacciare con l'austerità quello che finora era stato il suo mercato di sbocco: i Paesi membri del Sud.

Servivano altri mercati, e allo scopo di conquistarli, e anche di fornire un minimo di ossigeno ai Paesi membri del Sud, che altrimenti sarebbero implosi o se ne sarebbero andati, in questa fase inizia una lunga svalutazione competitiva dell'euro, di cui abbiamo parlato ad esempio qui e di cui riportiamo, a beneficio di tutti, il disegnino:

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Non solo la decisione di lasciare gli Stati Uniti soli a sostenere la crescita, ma anche i mezzi usati per realizzarla (la svalutazione competitiva dell'euro) erano odiosi agli Stati Uniti, e questo era un dato facilmente prevedibile. Una serie di noti precedenti confermava che gli Stati Uniti tendono a vedere il paese in surplus globale, l'esportatore netto di turno, come una minaccia per il loro sistema industriale, e a reagire di conseguenza. Per rinfrescarvi la memoria:

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negli anni '80 l'esportatore netto era il Giappone. Ricorderete (ne abbiamo parlato) tutti i romanzi e i film americani di fine '80, inizio '90 coi giappi nella parte del cattivo. I più esperti ricorderanno anche l'accordo del Plaza, che furono la reazione statunitense al pericolo giapponese: forzare una rivalutazione dello yen le cui conseguenze sull'economia giapponese si fecero sentire a lungo. Negli anni "zero" (intorno al 2008) lo scettro di vilain era passato in mano cinese: le richieste di rivalutare lo yuan, cioè di trattare la Cina come era stato trattato il Giappone venti anni prima, erano insistenti, con un'unica eccezione, la solita:

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La mia posizione (pubblicata online nel 2008) era molto semplice: la crescita dell'economia europea avrebbe contribuito in modo molto più efficace a un'ordinata crescita dell'economia mondiale piuttosto che la rivalutazione del cambio/deflazione dell'economia cinese. Alla Cina andò meglio che al Giappone: il suo squilibrio si ricompose a causa della grande crisi globale, che sgonfiò il commercio internazionale. La recessione americana abbatté l'import statunitense, e di riflesso l'export cinese. I problemi divennero altri. Fatto sta che le cose andarono in direzione esattamente opposta a quella che ritenevo desiderabile: invece di "inflazionare" l'economia europea, si fece la scelta di "deflazionarla" con l'austerità, comprimendone l'import e favorendone l'export (come ci siamo detti fin qui).

Che cosa poteva andare storto?

 

La fase 3: segare il ramo

Lo sappiamo e ce lo siamo detto: gli Stati Uniti storicamente non tollerano l'eccesso di esportazioni altrui, soprattutto se spinto da una politica valutaria sleale (svalutazione competitiva). Indipendentemente da quanto essi la considerino sostenibile o desiderabile, il fatto è che quando una configurazione del genere si verifica accade qualcosa che la corregge, spingendo l'esportatore netto verso una posizione di equilibrio. Anche questa volta è andata così:

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in due tempi. Prima, lo scandalo Dieselgate, nel 2015, ha arrestato l'esplosione dell'export di auto tedesche verso gli Usa. Purtroppissimo proprio in quell'anno, chissà perché, ci si è accorti che "il diesel inkuina", e le conseguenze sul saldo dell'Eurozona sono visibili nel grafico qui sopra: il surplus, che stava esplodendo, si è stabilizzato. La reazione tedesca sappiamo qual è stata: la deriva "green", cioè, in definitiva, mettersi in mano alla Cina (che, come sapete, controlla la filiera dell'elettrico e in particolare le relative materie prime).

Quanto era probabile che questo Drang nach Osten facesse piacere ai nostri alleati naturali?

Ce lo fanno comprendere le ultime vicende, incluso il suicidio dei due gasdotti nel Mare del Nord (non ho idea di che cosa sia successo e non voglio averla perché ai fini del mio discorso è irrilevante e perché ormai non credo neanche a quello che vedo, per cui raccontatela come vi pare, la cosa mi lascia indifferente...) e la chiusura dei mercati russo e cinese (fra sanzioni e polarizzazione del conflitto). Due ordini di eventi che hanno lasciato i capitalismi del Nord (aka la Germania) privi degli abituali mercati di sbocco e di approvvigionamento, mettendoli nella necessità di doversi fornire in modo significativo presso gli Usa per l'approvvigionamento di energia (via LNG), e di non saper che pesci pigliare per lo smercio dei loro prodotti.

Le conseguenze sono note: l'anno prossimo noi cresceremo, la Germania no:

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Questa è la situazione in cui ci troviamo.

Prima di passare ad analizzarne alcune esilaranti caratteristiche vorrei chiudere il percorso compiuto finora con una considerazione. Non era difficile, lo ripeto, immaginare che gli Stati Uniti avrebbero gradito, e alla fine ottenuto, un minimo di contegno, di retenue, di moderazione da parte del Paese esportatore di deficit. Era sempre successo così (Giappone, Cina,...), non ci voleva una grande fantasia per capire che con l'Eurozona sarebbe stata la stessa cosa. Come si fa a non capire che una certa impostazione della propria politica commerciale è insostenibile? Come hanno fatto "i tedeschi" a non capirlo?

Noi italiani veniamo accusati, anche da noi stessi, di essere imprevidenti, incapaci di pianificare, convinti come siamo che alla fine le cose si aggiusteranno, che lo Stellone ci salverà. Non entro nel merito di questa valutazione, ma gliene accosto un'altra: è stupefacente quanta reticenza ad apprendere le lezioni della Storia abbia un Paese come la Germania, dove la filosofia della storia è nata! Quello che abbiamo analizzato qui finora non è mica l'unico episodio. Ce n'è un altro, gustoso e connesso al nostro ragionamento odierno: nel momento stesso in cui la situazione dimostra quanto sia stato sbagliato per la Germania mettersi in mano a un unico fornitore, per di più politicamente sensibile come la Russia, che cosa fa la Germania? Ovviamente si mette in mano (per la fornitura di idrogeno azzurro, che, dicono, è il futuro) a un unico fornitore: la Norvegia (che se ne sta fuori dall'UE, serena come l'arcobaleno). Secondo Munchau, l'eterno secondo, non è una buona idea:

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e per una volta che è arrivato primo non sarà superfluo sottolineare che siamo d'accordo con lui!

La domanda che dovremmo porci è: supponendo anche di essere molto fortunati, quanto è saggio vincolarsi a compagni di strada così poco lungimiranti?

 

Banchieri filantropi

Ricapitolando:

  1. mercato di sbocco del Sud Europa: distrutto con l'austerità;
  2. mercati di sbocco extra-Eurozona: alienati con la svalutazione competitiva.

Che resta?

La Storia, beffarda, pone ai capitalismi del Nord sostanzialmente un'unica alternativa: quella di fare quello che non hanno mai voluto fare nonostante tutti glielo chiedessero: alimentare la domanda interna, con politiche di adeguamento dei salari e con programmi di investimento pubblico.

Eh già... Venute meno due fonti di domanda estera (i PIGS e il resto del mondo) la tenuta del loro sistema richiede che a casa loro si opti per una diversa soluzione del conflitto distributivo. L'inflazione da offerta (cioè da aumento dei prezzi delle materie prime) in effetti sta erodendo il potere d'acquisto dei salari in Germania, Olanda, Estonia, ecc. molto più rapidamente che da noi, e c'è il rischio concreto che tanta produttività alemanna (o frisona) sia invano, sia per il magazzino, se non si mettono i cittadini di quei Paesi in grado di assorbirla. Succedono così cose paradossali, come questa:

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Il governatore della Banca centrale olandese che chiede alle imprese (ma è suo compito farlo?) un aumento dei salari in misura compresa fra il 5% e il 7%! A che cosa dobbiamo questo improvviso accesso di filantropia? Anche i banchieri hanno un'anima? No, naturalmente. Ma Knoot, a differenza di quelli che ci ritroviamo noi, ha un cervello, e capisce quindi che decurtare i redditi delle famiglie avrebbe nell'Olanda del 2023 le stesse conseguenze che ebbe nei Paesi del Sud nel 2012 (e che io vi avevo anticipato nel 2011 qui): seri problemi per il settore bancario (a causa delle difficoltà delle famiglie di rimborsare i prestiti). Quindi Knot non si preoccupa per gli altri: si preoccupa per se stesso (e fa bene)! Non importa infatti se chi ti taglia il reddito sia l'austerità o l'inflazione. Se il tuo potere d'acquisto diminuisce, avrai difficoltà a onorare i tuoi debiti, e saggiamente Knot vuole evitare di fare nel 2023 la fine che i suoi sodali ci hanno fatto fare nel 2012. Come immaginate, non è un caso che sia un olandese a parlare. Intanto, in Europa i tedeschi usano la saggia tattica di mandare avanti gli olandesi "per vedere sotto sotto l'effetto che fa" ogni volta che c'è da cambiare direzione. E poi, fra i Paesi un minimo significativi, l'Olanda è quello con l'inflazione più alta:

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quindi ci sta che i suoi governanti siano un po' preoccupati.

E qui si pone un problema interessante, che vi illustro (a risolverlo sarà la storia): se i capitalismi del Nord adegueranno i loro salari, il loro rientro dall'inflazione (più alta della nostra) sarà più lento, quindi perderanno competitività; ma se non li adegueranno, andranno in crisi da carenza di domanda, perché la repressione salariale o la svalutazione competitiva dell'euro non bastano più ad aprir loro dei mercati distrutti dall'austerità o preclusi da altre motivazioni.

Il dato non è banale: spingere sui salari, per motivi che dovrebbero essere chiari dopo questo lungo percorso, significa accentuare il deficit estero (con più soldi in tasca i lavoratori acquistano più beni nazionali ed esteri), e quindi accentuare il surplus altrui, in particolare dei Paesi con cui le relazioni commerciali sono più intense (noi). Se si scegliesse questa strada quindi ne saremmo avvantaggiati, sia perché un contesto più inflazionistico aiuta i grandi debitori, sia perché mantenere comunque un tasso di inflazione più basso di quello dei "virtuosi" ci permetterebbe di migliorare ulteriormente la nostra posizione finanziaria sull'estero, rendendoci meno vulnerabili ad attacchi speculativi.

 

Conclusioni

Come andrà a finire?

Oggi evidentemente è impossibile dirlo. La Storia, che non deve necessariamente ripetersi, ci fornisce tanti esempi in cui i capitalismi del Nord hanno preferito fare quello che era peggio per loro, purché danneggiasse anche gli altri (ripeto: siamo sicuri di poter convivere con simili pulsioni autodistruttive?). Questo scenario è quello che molti paventano e verso il quale pare ci si stia avviando: innalzamento dei tassi, per restringere la domanda, al rischio di far collassare per prime le economie del Nord. La Germania è già in testa nelle classifiche del costo del credito:

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Lo scenario più roseo è quello di reflazione controllata dell'economia, ma c'è da chiedersi quanto anche questo scenario sia sostenibile (da parte del Nord). Fin dall'inizio di questo lungo percorso abbiamo infatti chiarito che una moneta unica con inflazioni differenziate è fonte di problemi. I Paesi con l'inflazione più alta perdono competitività, si indebitano con l'estero e vanno in crisi. Quello che si perde di vista è che rispetto al primo decennio dell'euro (1999-2009) oggi la situazione si è completamente rovesciata:

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I Paesi a inflazione relativamente più alta ora sono quelli del Nord (qui abbiamo preso la media di Germania, Olanda e Austria) anziché quelli mediterranei (rappresentati da Spagna, Francia e Italia), e la crisi ha amplificato questa dinamica. L'Eurozona non riesce a convergere. Ora che i Paesi del Sud sono rientrati dai propri debiti, questi squilibri di competitività dovrebbero comporsi ma non possono farlo per i motivi che ci siamo detti fin qui (la necessità di reflazionare la propria domanda interna). Il nervosismo che questa situazione indubbiamente causa da quelle parti porta con sé il rischio di reazioni esagerate dalla parte opposta. Un mondo in cui chi si è addormentato "frugale" si svegli "PIGS" in termini macroeconomici non è poi così inconcepibile, ma in termini politici?

Dalla risposta a questa domanda dipenderà la soluzione del problema che ci sta a cuore...

Comments

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Domenico
Friday, 13 January 2023 19:17
Non condivido affatto le posizioni politiche di Bagnai e del suo partito (sto su posizioni opposte e la Lega mi fa schifo), ma non capisco l'atteggiamento di rifiuto o di generico disprezzo di questo articolo, soprattutto in un sito come questo. Il testo è molto chiaro e anche semplice da capire e, per chi non ci arriva, aggiungerò che l'ovvia e inevitabile conclusione è la guerra. L'articolo non contiene alcuna soluzione al problema, sia perché non è questo lo scopo dell'articolo, sia perché non c'è soluzione diversa dalla guerra. Le sanzioni dei paesi occidentali verso Russia e Cina non hanno conseguenze molto diverse dai dazi che portarono alla seconda guerra mondiale. La risposta non è certo l'autarchia e, visti i costi di produzione, la competitività delle imprese europee è destinata a svanire. Per la verità stanno già svanendo le imprese stesse che traslocano in paesi dove i costi di produzione sono ragionevoli. E' la logica del capitale, non c'è molto da discutere, semmai da agire, ma questo è un altro discorso. Per quanto ci riguarda, con questa situazione economica e finanziaria e con governi sempre più asserviti al potere finanziario e all'imperialismo Usa, il nostro futuro ha il colore della miseria, del servaggio, della totale irrilevanza. Oltre che ignobilmente asserviti, questi ultimi governanti fanno senza vergogna alcuna, esercizio di opportunismo sfacciato come se fosse una virtù. Al danno si aggiunge anche la beffa. E se poi la reazione a questo articolo e alla sua analisi della situazione è che Bagnai non si legge nemmeno al cesso, allora è meglio tirare la catena. Il qualunquismo troglodita fa ancora più schifo della Lega (ed è tutto dire). La sinistra deve essere leggere, studiare, confrontarsi, discutere, proporre, battersi per le proprie idee, non fare il tifo, qui non siamo allo stadio.
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Max
Saturday, 14 January 2023 10:31
Non sono d'accordo, forse che Bagnai è contro la guerra?
E' il solito bravo soldatino leghista, so tutto io.
Lo ringraziamo per averci fatto fare il ripasso di Politica economica nella prima parte del Tramonto dell'euro, e lo ringraziamo per averci fatto ridere per la seconda parte.
Essere economisti non significa capirne di politica e Bagnai ne è un esempio chiarissimo.
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Alfred
Saturday, 14 January 2023 10:18
Concordo.
Detesto lo schieramento di Bagnai, ma l' articolo non e' banale e forse spiega (almeno ai miei occhi) come mai la Germania non ha reagito alla dipartita dei gasdotti.
Stanno cominciando a realizzare che la cura Ludovico e' rivolta soprattutto a loro?
Non reagiranno al padrone atlantico e prenderanno tutte le decisioni sbagliate pur di far torto agli altri?
C'e' da augurarsi di no, ma i precedenti non promettono bene
Amen
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AlsOb
Friday, 13 January 2023 12:14
L’analisi critica del professore e parlamentare Bagnai è molto istruttiva, coerente e logica e fin dall’inizio per la sua fedele ispirazione al Keynes originale (ma si potrebbe citare Marx pure), ha posto in evidenza i caratteri fortemente dogmatici, contraddittori e classisti della narrazione neoliberale, che è stata imposta da decenni dalla classe dominante e a alla quale hanno aderito figure inconsistenti da operetta e soprattutto, con zelo e intransigenza da neofita, tutta la sinistra o sedicente tale.
La costruzione dell’Europa Unita e dell’Euro è avvenuta secondo canoni fideistici di estremismo neoliberale e di guerra di classe e subimperalistica, pertanto appena sono inevitabilmente emerse le congenite contraddizioni, le conseguenti distruttive sollecitazioni e tensioni finanziarie e economiche sono state spiegate in termini pseudoreligiosi di false cause e affrontate con misure anticapitalistiche neoliberali di austerità e repressione dei redditi e della domanda.
Il problema della aggregazione di capitalismi caratterizzati da specifiche e irriducibili storie e basati su modelli di accumulazione e generazione del reddito sensibilmente diversi, con agli estremi chi si reggeva sulla domanda e consumo interni e chi puntava tutto sul mercantilismo esasperato, cioè sulla domanda esterna, non solo non è mai stato preso in considerazione, ma anzi, per essere il paese leader e più forte a praticare il mercantilismo esasperato, in coppia con le fantasie pseudometafisiche neoliberali sono state forzate unilaterali politiche di esplicita colonizzazione nei confronti dei più deboli (i concetti di cooperazione e razionale e conveniente applicazione di politiche di simmetria non fanno parte del repertorio dell’Unione).
Solo l’azione della banca centrale europea, calibrata su ragioni di necessità, di (implicito) riconoscimento del carattere idealistico di dogmi neoliberali e sulla elastica interpretazione dello statuto fondativo, ha mantenuto in piedi la contraddittoria costruzione dell’euro. Senza tuttavia evitare il sorgere di altri malintesi e problematiche.
Un dubbio o appunto alla rigorosa e documentata narrazione del Bagnai deriva dal non detto in merito alla guerra e sue conseguenze, dalla assunzione, secondo criteri di normalità e continuità storica, di irrilevanza politica e economica,
o di inquestionabile fatalismo nella completa sottomissione agli USA e adozione passiva da parte degli stati europei di un autointroiettato e irrevocabile status di permanente colonia.
Quando tutto ciò ha conseguenze secolari in termini economici e politici: pertanto l’immagine della Germania che si autosega il ramo su cui poggia diventa parzialmente fuorviante, giacché si tratterebbe di un rapporto padrone e schiavo con correlata punizione (le asimmetrie europee assumono un rilievo secondario e passeggero). Padrone che sembra pure controllare e gestire un ampio numero di politici locali a partire dagli ecofascisti.
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Max
Thursday, 12 January 2023 22:55
La solita tiritera, forse non aveva ancora visto il dato dell'infezione.
Ovviamente non una parola sulle accise, è infatti noto anche ai sassi il ruolo del costo dell'energia sui prezzi.
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Max
Friday, 13 January 2023 17:11
Ovviamente è l'inflazione, e non infezione, accidenti ai correttori automatici.
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carlo
Thursday, 12 January 2023 21:15
Scusate ma uno come Bagnai non lo leggo nemmeno al gabinetto ;-)
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Stefano
Friday, 28 July 2023 17:53
..altra gente lo stesso preconcetto lo nutre per Marx.
Vuoi commettere lo stesso errore?
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