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sinistra

La feconda lezione di Ludovico Geymonat

di Eros Barone

Rigore scientifico, coraggio civile e spirito critico di un pensatore non conformista

Geymonat e Dal PraSoltanto nell’amore e nella morte non si può fingere. Chi nell’amore cerca di fingere, può illudersi di amare, ma non ama. Chi sta morendo non finge più, perché “ciò che diranno gli altri” ormai non lo interessa… L’amore e la morte hanno dunque, davvero, qualcosa in comune, come ritennero molti poeti. Hanno in comune quello stato d’animo di “ebbrezza”, per cui l’individuo rinuncia totalmente a voler “apparire ciò che non è”; per cui comprende l’inutilità di persistere nella finzione, la vanità di ogni giudizio che non sia fondato sulla pura realtà.

Ludovico Geymonat, I sentimenti.1

Lo scopo di questo articolo è sia quello di mostrare in che senso Ludovico Geymonat occupi un posto importante nella cultura filosofica italiana del ’900, sia quello di delineare la figura di un intellettuale non conformista e di un pensatore influenzato dal marxismo.

Geymonat nasce a Torino nel 19082 ; presso l’università subalpina segue, oltre alle lezioni del grande logico e matematico Giuseppe Peano, i corsi di due filosofi positivisti, Erminio Juvalta e Annibale Pastore; nello stesso ateneo si laurea dapprima in filosofia (1930) e poi in matematica (1932), ponendo le premesse di quella fusione critica tra le due discipline che farà di lui un filosofo matematicamente dotato ed un matematico filosoficamente dotato.

Per il giovane studioso rigore e coraggio rappresentano i caratteri distintivi di una scelta di vita che lo porterà, all’inizio degli anni ’30, ad assumere, in filosofia, una posizione critica verso il neoidealismo italiano e, in politica, all’abbandono dell’università, causato dal rifiuto d’iscriversi al partito fascista.

Emerge fin da queste prime prove filosofiche e politiche un connotato della sua personalità d’intellettuale non conformista: lo stretto legame fra la teoria e la prassi. Un legame che nell’Italia di allora, per un giovane che proveniva da quella borghesia intellettuale per cui l’opposizione al fascismo era una scelta morale prima ancora che politica, era destinato a configurarsi come una testimonianza etica ed una protesta nobile ma impotente, giacché solo con la Resistenza potrà esplicarsi in un’azione politica e sociale.

D’altronde, il giovane studioso torinese era stato influenzato in tal senso, oltre che dal radicalismo di Gobetti, dal rigore di un insigne maestro di vita morale ed intellettuale, il filosofo Piero Martinetti, uno dei diciotto professori universitari, su un corpo accademico che allora ne contava in tutt’Italia 1225, che, per non sottostare al giuramento di fedeltà imposto dal fascismo nel 1931, lasciarono la cattedra.3 Martinetti imprimerà un segno profondo e duraturo nell’orientamento teoretico di Geymonat. Tale segno è ben documentato sia dalla quarta sezione degli Studi per un nuovo razionalismo, dedicata ai problemi etici, scritta nella seconda metà degli anni ’30 e ripubblicata nel 1989 con il titolo I sentimenti in una versione arricchita dall’autore con una serie di note relative ad esperienze e riflessioni maturate nel corso della Resistenza e delle vicende socio-politiche del secondo dopoguerra; sia dal saggio sulla Libertà (1988), pubblicato - con un’attenzione ai riferimenti simbolici che è caratteristica della produzione intellettuale di Geymonat - esattamente 60 anni dopo un saggio sullo stesso argomento e con lo stesso titolo, che era stato una delle opere principali di Martinetti.

Richiamare la tesi che caratterizza lo studio filosofico sulla libertà, condotto da Geymonat, è particolarmente utile per individuare il nucleo generatore da cui traggono origine i differenti percorsi seguiti dai suoi allievi, raccòltisi fra gli anni ’60 e ’70 nella cosiddetta ‘scuola di Milano’. Il saggio di Geymonat poggia sulla tesi secondo cui la libertà consiste in una lotta infinita per la libertà e sembra quindi derivare la sua ispirazione più da Fichte e da Stuart Mill — esponenti filosofici, rispettivamente, dell’idealismo etico a base illuministica e del liberalismo ‘whig’ a base empiristica — che non da Marx. Ora, se da un lato questa impostazione può spiegare le oscillazioni, caratteristiche degli allievi di Geymonat, fra idealismo e materialismo in filosofia e fra liberalismo e comunismo in politica (con una duplice tendenza, che dipende dai temperamenti individuali, o a sopprimere il secondo termine a favore del primo o, più elegantemente, a fare del secondo un caso specifico del primo), da un altro lato la ripresa di tali motivi filosofico-politici si può spiegare sia come effetto dell’attuale congiuntura ideologico-culturale, sia come effetto teorico di una peculiare curvatura della dialettica, operata da Geymonat con il passaggio dallo schema triadico, articolato nei tre momenti tesi-antitesi-sintesi, allo schema diadico, articolato nei due momenti tesi-antitesi, proprio, fra l’altro, dell’impostazione di Mao Zedong, il quale, secondo quanto osservato dallo stesso Geymonat nell’ampia intervista su scienza e politica, pubblicata col titolo Paradossi e rivoluzioni, vede «il processo dialettico come un processo senza fine».4

L’emergere di una tendenza ‘infinitistica’ è, inoltre, testimoniato dal costante interesse nutrito dal pensatore torinese per tale problema teorico, da lui analizzato nell’opera del 1947 su Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, ed è latente nella stessa concezione di un ‘nuovo storicismo’, fondato su una nozione globale della storicità e della crescita delle conoscenze scientifiche. A questo proposito, tornando a delineare il suo itinerario intellettuale, occorre ricordare che Geymonat fin dai primi lavori degli anni ’30 individua il nucleo centrale del suo pensiero, in opposizione ai neoidealisti Croce e Gentile che negano il valore conoscitivo delle scienze matematiche e fisiche, nell’indagine sulla struttura specifica di tali scienze e sui nessi con la dimensione filosofica. Gli scritti di questo periodo, come Il problema della conoscenza nel positivismo del 1931 (che era la tesi di laurea nella quale Geymonat, esaminando la filosofia di Comte, fondatore di tale corrente, aveva già posto il problema della revisione del positivismo), mostrano la direzione in cui si muove il pensatore torinese. Determinanti, in quegli anni che sono per la cultura italiana dominati dalla ‘dittatura’ del neoidealismo e da un isolamento rispetto alle principali correnti di pensiero europee e nord-americane, risultano i contatti che egli stabilisce con i maggiori esponenti del Circolo di Vienna, tra i quali vanno ricordati, in particolare, Moritz Schlick (la cui uccisione da parte di uno studente nazista segnerà nel 1936 la fine del Circolo), Otto Neurath, Rudolf Carnap e Kurt Gödel. Le esperienze intellettuali mutuate dal neopositivismo e l’assunzione dei contributi di filosofia e storia della scienza forniti da studiosi come il già citato Giuseppe Peano, Federico Enriques, Mario Calderoni e Giovanni Vailati, con cui il giovane studioso reagisce alla duplice svalutazione, idealistica ed empiristica, della ricerca epistemologica e traccia, nell’àmbito della cultura italiana, una linea alternativa al filone Vico-Hegel-Croce, concorrono a definirne lo specifico orientamento in senso neorazionalista e neoilluminista. Tale orientamento, che Geymonat con grande modestia qualificava semplicemente come una ‘traduzione’ di quelle esperienze nell’àmbito della cultura italiana, troverà espressione nei Saggi di filosofia neorazionalistica del 1953, nella monografia del 1957 su Galileo Galilei - un autentico gioiello della letteratura storico-filosofica -, in Filosofia e filosofia della scienza del 1960 e in Scienza e realismo del 1977. In questi decenni la tesi che Geymonat argomenta mira a dimostrare che la cosiddetta ‘crisi dei fondamenti’, che ha investito la scienza contemporanea a cavallo fra ’800 e ’900, costituisce, con il riesame critico, da essa necessitato, dei concetti di numero, funzione, limite, integrale, tutto e parte, la premessa della liberazione della logica, della matematica e della fisica dalle ipoteche di una concezione metastorica di tali scienze, delle quali pone in luce il carattere ipotetico e processuale.

L’illustrazione ampia e approfondita di questa tesi è al centro della Storia del pensiero filosofico e scientifico in sette volumi, la cui realizzazione, curata da Geymonat e da uno stuolo di collaboratori, si distende nell’arco della prima metà degli anni ’70. L’opera è da considerare senza alcun dubbio un monumento della più avanzata cultura italiana, prodotto di uno spirito innovativo che si manifesta sia nella visione integrata dello sviluppo della filosofia e delle scienze matematiche, naturali ed umane, sia nella costante attenzione ai problemi della trasmissione del sapere, attestata dalle sezioni relative alla storia delle teorie pedagogiche e delle istituzioni scolastiche, sia nello spazio dedicato ad argomenti non usuali per la tradizione filosofica italiana, come la storia della logica e i problemi della logica contemporanea: una cultura (e ciò merita di essere sottolineato nella fase attuale, segnata dall’incalzare di tendenze regressive) aperta alle istanze più radicali del movimento progressista, non meno che alle molteplici espressioni intellettuali della cultura mondiale.

Geymonat ha sempre posto in risalto il legame inscindibile tra progresso tecnico-scientifico, progresso culturale e progresso sociale: è questa la lezione che Geymonat ci trasmette attraverso l’opera da lui dispiegata nel campo della filosofia della scienza e nel campo della storia della filosofia. In quest’ultimo egli ha saputo operare da vero maestro, capace, grazie al manuale su cui hanno studiato generazioni e generazioni di studenti liceali, di proporre uno studio nuovo e criticamente avvertito della storia del pensiero filosofico e scientifico ad una scuola gravata dalla duplice ipoteca di un positivismo miope e di un idealismo stantìo.

Un altro aspetto, che è parte integrante della lezione di Geymonat, è la testimonianza d’impegno politico e sociale, nonché di coraggio civile, concretàtasi con la partecipazione alla Resistenza e alle lotte del movimento operaio. Riguardo alla Resistenza, non bisogna dimenticare che egli considerò sempre come decisivo l’incontro con l’operaio comunista Luigi Capriolo, ucciso dai nazifascisti nel 1944; riguardo alle lotte del movimento operaio, vanno ricordati, in particolare, la direzione dell’Unità di Torino nel 1945, la presenza critica nel PCI fino alla rottura sulla questione cinese e il conseguente sostegno alle formazioni della sinistra rivoluzionaria.

Geymonat ha condotto un’importante battaglia contro l’irrazionalismo (da quello che si manifesta come ‘reazione romantica contro la scienza’ a quello che può annidarsi all’interno della scienza stessa), le cui radici egli ha identificato sia nella negazione del valore conoscitivo della scienza sia nella negazione di quell’istanza materialistica che è ad essa immanente. L’incontro di Geymonat con il materialismo dialettico, cioè con una nuova concezione della natura e dell’uomo, era quindi consequenziale, anche se la presa di posizione contro l’irrazionalismo è da considerare solo come una condizione necessaria (ma non sufficiente) di tale incontro e anche se l’adesione di Geymonat al materialismo dialettico resterà condizionata dalla tendenza a conciliare il marxismo con il neopositivismo e dalla correlativa tendenza, se non a ‘riformare’ il marxismo, a ‘decostruirlo’ (tendenze comuni anche ad un altro filosofo orientato in senso neoempirista, quale Giulio Preti). In effetti, le stesse vicende della (disgregazione della) ‘scuola di Milano’, oltre a rappresentare un fenomeno significativo nella storia di un certo strato degl’intellettuali italiani fra anni ’70 e anni ’80, possono essere adeguatamente comprese solo se si tengono presenti gli sviluppi generati, nell’àmbito di essa ‘scuola’, dalle persistenti radici eticistiche e volontaristiche, coimplicate in quel nucleo generatore della concezione filosofica del maestro su cui abbiamo richiamato l’attenzione. Così, gli allievi di Geymonat si sono divisi in due correnti che, considerando le scelte politico-ideali e i programmi di ricerca che le hanno caratterizzate, si possono denominare, l’una, quella dei ‘parricidi’ e, l’altra, quella degli ‘esecutori testamentari’. Mentre la deriva dei ‘parricidi’, che hanno tagliato ogni rapporto con il marxismo a favore di concezioni integralmente mutuate dal neoempirismo e dal neoilluminismo, porta i rappresentanti di tale corrente - in virtù della sua felice congruenza con la ‘vague’ neoliberista - ad inserirsi in questo o in quel supermercato della cultura, gli altri, gli ‘esecutori testamentari’, con la loro ‘critica critica’ ci dimostrano come il marxismo possa essere ridotto a fattore complementare, di carattere etico-sociale, di una diversa visione del mondo, coincidendo così, in buona sostanza, con una sorta di radicalismo tardo-azionista. A questo proposito, avventure come quelle di Giulio Giorello, passato dal materialismo dialettico, sia pure reinterpretato in senso geymonatiano, all’anarchismo epistemologico e al neo-utilitarismo ultracapitalistico, devono far riflettere, trattandosi di ‘conversioni filosofiche’ simili a quelle dei ‘nouveaux philosophes’ passati da un maoismo populistico ad un atlantismo fanaticamente bellicistico. Il pensatore incapace di autoriflessione dialettica passa letteralmente da un estremo all’altro, mantenendo tuttavia invariati la rigidità e lo schematismo con cui ha vissuto le posizioni di provenienza. Siffatte ‘conversioni’ (basti pensare, per un caso paradigmatico, a Lucio Colletti) sono molto apprezzate dal sistema dei ‘mass media’, abituato ad adeguarsi alla ‘planned obsolescence’ dei prodotti automobilistici o d’abbigliamento. Resta il fatto che ‘cambiare pensiero’ come si cambia il partner o l’automobile produce alla lunga effetti devastanti sulla serietà generale della riflessione.

Concludiamo questo articolo con due considerazioni. La prima riguarda, oltre al profilo intellettuale del pensatore eminente e del divulgatore rigoroso, cioè del filosofo che sa ‘pensare difficile’ e ‘mostrare semplice’, il profilo politico di un militante comunista che, in un paese dominato dalla ricerca del compromesso sui princìpi e dall’opportunismo, ha costantemente espresso un impegno lucido e generoso nella lotta per la trasformazione sociale. La seconda riguarda il profilo etico di Geymonat, che ci piace ricordare con un passo tratto da un testo già citato, di cui consigliamo vivamente la lettura per l’alto valore delle analisi e delle riflessioni che contiene. In questo libro l’autore esamina dieci sentimenti esemplari, che vanno dalla collaborazione all’odio, dall’amore alla superbia, dalla devozione alla lotta, dall’amicizia alla diffidenza, dalla benevolenza alla ribellione.

A proposito della lotta e della violenza (che egli distingue in violenza fisica e in «una violenza più velata e civile, ma non meno aspra né meno spietata» della prima), Geymonat osserva quanto segue: «Il vero nemico non è oggetto di odio né di disprezzo: è oggetto di lotta. Egli è un ostacolo al compimento di un nostro progetto e, come tale, va necessariamente abbattuto. La constatazione di questa necessità non impedisce che si riconosca a lui il diritto di combatterci, e si parli di lui con rispetto comprendendo il suo valore e la sua energia. Ciò che separa i due avversari non è un sentimento di odio, ma la constatazione che i fini, cui essi tendono, sono fatalmente incompatibili tra loro».5 L’autore, che aveva scritto queste righe nel corso della lotta partigiana, precisa in una nota che, alla luce delle esperienze del secondo dopoguerra, quanto da lui notato a proposito della “violenza più velata e più civile” dimostra «la sua scarsa fiducia nelle lotte condotte entro il quadro designato come ‘Stato di diritto’»6 .


Note
1 L. Geymonat, I sentimenti, Rusconi, Milano 1989, p. 97.
2 Geymonat si è spento nel 1991.
3 Secondo l’importante studio di Helmut Goetz su Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista , La Nuova Italia, Firenze, 2000, il numero esatto dei docenti che, su un corpo accademico che allora ne contava 1225, compirono quel gesto di opposizione alla dittatura fascista, fu di diciotto e non, come si è a lungo ritenuto, di dodici.
4 L. Geymonat, Paradossi e rivoluzioni: intervista su scienza e politica, Il Saggiatore, Milano 1979, p. 115.
5 I sentimenti cit., p. 63.
6 Ibidem, pp. 64-65.

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