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petiteplaisance

Tecnica e cultura classica

di Salvatore Bravo

La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole

Algoritmo 1Il Prometeo scatenato

La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Il capitalismo assoluto ha reso tale scissione prassi quotidiana. La tecnica divenuta strumento dell’integralismo economico, per potersi affermare senza che vi siano “ostacoli epistemologici,” ha reso la coscienza umana ed il simbolico presenze superflue della storia. Il mito della tecnica con i suoi dogmi vive e si espande a livello globale mediante la mitizzazione della stessa. Ogniqualvolta sono presenti difficoltà di ordine politico relative alla comunità, l’orientamento generale è il volgersi a professionisti della tecnica, i quali rispondono con l’ausilio delle macchine. Le previsioni economiche sono demandate ad economisti, i quali leggono ed interpretano proiezioni stabilite da algoritmi. L’onnipotenza si radica nell’astratto, nella scissione. L’assenza della mediazione politica comporta il delinearsi di “comunità” che piegano le ginocchia ed il capo dinanzi al nuovo “ipse dixit”: ciò fa del capitalismo assoluto – con le sue straordinarie potenzialità tecniche – un nuovo medioevo. I nuovi clerici che parlano in nome della nuova divinità non sono che l’espressione del trionfo della tecnica. I detentori del potere sono egualmente dominati, quanto lo è la comunità passivizzata ed alienata. La tecnica – senza la mediazione simbolica – trasforma l’intera comunità rinserrandola nella «gabbia d’acciaio» in cui l’oscurità – presenza impalpabile, ma onnipresente della tecnica – diviene l’essere, il fondamento pernicioso a cui gli schiavi non vogliono rinunciare. Non tutti gli schiavi sono in una eguale condizione. I possessori dei mezzi di controllo vivono una comoda condizione alienata, il loro privilegio li allontana dagli effetti della divinità di cui sono i tragici servitori.

Gran parte dell’umanità invece, vive la tragedia della verità come un dato naturale ed intrasformabile. Le ragioni possono essere plurime. La vittima solitamente ha vergogna della condizione in cui versa, preferisce rimuovere il crimine che si perpetra a suo nocumento, piuttosto che guardare lo stato verso cui è stata spinta. Le vittime spesso non credono più in se stesse, la loro vita interiore è spezzata, resa muta dallo scorrere del tempo che, come Crono, divora attimo dopo attimo i suoi figli e le loro energie. L’onnipotenza della tecnica, vero Prometeo scatenato, umilia l’umanità, nessuna competizione è possibile tra l’essere umano e la macchina. Si assiste ad una nuova Rivoluzione copernicana alla centralità della macchina contro l’umanità. La macchina è posta al centro della storia, di essa si esaltano le formidabili capacità operative, la memoria, come l’instancabile operosità. Viene occultata la presenza umana. La “verità” della macchina vorrebbe imporsi in quanto tale, in dispregio del dato lapalissiano che senza il genio umano l’onnipotenza della macchina sarebbe inesistente. L’antidealismo del regno della macchina è così celato. L’operazione ideologica sulla soglia della fine della storia è l’esaltazione della macchina e la mortificazione dell’essere umano. La democrazia del capitalismo assoluto introduce in ogni ambito la macchina, anche dove non sarebbe necessario, si deve insegnare l’asservimento coatto alla macchina, in modo da limitare gli spazi di autonomia. La Storia senza l’essere umano è l’ambizione del capitalismo assoluto, dell’integralismo economico macchinale. In tale condizione che non può che essere affermata e confermata dal semplice sguardo che si posa, pensando, le semplici operazioni del nostro quotidiano. La formazione classica è resistenza al dispositivo, Gestell, all’impianto artificiale che sostituisce la vita.

 

L’attualità del mito di Theuth

La cultura classica riapre il campo al logos, alla sua presenza simbolica. Il rapporto tra virtù (dal greco ἀρετή aretè) e tecnica (dal greco τέχνη téchne), ed i pericoli presenti nella loro scissione sono presenti nel mito di Theut. L’invenzione della scrittura quale nuova tecnica per conservare la memoria è potente, ma non virtuosa, poiché la scrittura riduce l’autonomia dell’essere umano, in quanto si delega al testo scritto la memoria. La presenza del testo scritto riduce lo spazio di attività dell’essere umano, il quale è fiducioso che il mezzo esterno possa conservare ciò che non può e non vuole con debita fatica ricordare nella mente. Il supporto della memoria è oggi un mezzo dalle potenzialità incontemplabili: i mezzi informatici. Essi hanno la funzione di ricordare per noi: arretra l’umano per lasciar spazio ad esseri chini, non metaforicamente, sui mezzi informatici, i quali rammentano, organizzano e dispongono della vita delle persone. L’atto del delegare è di ausilio alla fine della Storia. Esseri umani abituati alla delega, ad abdicare ogni energia non possono immaginare un’altra storia, di essere protagonisti della stessa, la possibilità che la Storia possa rompere gli ormeggi per un nuovo inizio. Il mito di Theut tratta di un altro problema in cui siamo implicati: la tecnica cambia il modo di imparare. Il supporto ridisegna le modalità con cui ci si relaziona al sapere. La scrittura come il supporto informatico consentono di accedere alle informazioni senza la mediazione, la discussione, la fatica di concettualizzare e ricostruire olisticamente i contesti dell’informazione. Il supporto diviene così veicolo della cultura o meglio dell’incultura dell’astratto. Solo la mediazione discorsiva, il mettere in gioco la parola tra dialoganti trasforma l’informazione in concetto, permette di elaborare la dialettica nello scontro come nella condivisione senza la quale ogni informazione rischia di passare come acqua su marmo, per essere esercizio mnestico momentaneo.

 

Le nuove scritture della memoria

Il cambiamento del supporto della conoscenza ha l’effetto di cambiare la posizione antropologica nella storia dell’umanità. Come nel mito di Platone l’assenza del vaglio delle possibilità e delle conseguenze nell’introduzione della tecniche comporta la decadenza dell’essere umano nella Storia. Tale riflessione non è svolta, anzi il sistema è organizzato per neutralizzare ogni discussione pubblica e valutazione sui proclamati benefici della tecnica. La motivazione è l’integralismo economico che trasforma ogni invenzione tecnica in occasione di investimento. L’ostilità verso la cultura classica cela il timore che questa possa riaprire spazi in cui l’essere umano si riappropri della propria presenza nella storia. Così Platone codifica tale problematica:

”[274 c] […] Socrate – Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, [d] del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intiero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava [e] negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero all’alfabeto: “Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”. E il re rispose: “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei [275 a] inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà [b] una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti».[1]

La scrittura in quanto oggettivazione della parola mette in pratica una forma di riduzionismo, poiché la fonetica con la sua espressione viva, con il corpo vissuto nel contesto di formazione della parola è oggettivata nella scrittura. Tale riduzionismo, l’oggettivazione della vita, si ripresenta nell’uso delle macchine che asservono l’essere umano per sfruttarlo.

 

Marx e il capitale fisso

Marx nel primo libro del Capitale ha descritto ed argomentato l’uso della tecnica per sfruttare, per astrarre dall’essere umano il plusvsalore. La tecnica è così il mezzo per ridurre l’altro a semplice strumento, a mezzo con la voce come ha affermato Aristotele nella Politica. La pericolosità si fa più stringente, plumbea presenza nichilistica, per la potenza esponenziale della tecnica. Già Marx descrive la condizione degli operai, delle operaie e dei bambini nelle fabbriche. Servitori delle macchine, muoiono di sfinimento per servire il Capitale che si concretizza nelle macchine produttri di PIL:

“Abbiamo già accennato in precedenza al deterioramento fisico dei fanciulli e degli adolescenti, come pure delle operaie, che le macchine assoggettano allo sfruttamento del capitale, prima direttamente nelle fabbriche, che sulla base delle macchine spuntano rapidamente, e poi indirettamente in tutte le altre branche dell’industria. Qui ci fermeremo quindi su un punto solo: la enorme mortalità tra i figli degli operai nei loro primi anni di vita. In Inghilterra si hanno sedici distretti di stato civile pei quali, come media annua, su centomila bambini viventi al di sotto di un anno si verificano solo novemila ottantacinque decessi (in un distretto solo settemila e quarantasette), in ventiquattro distretti, più di diecimila, ma meno di undicimila; in trentanove distretti, più di undicimila, ma meno di dodicimila, in quarantotto distretti più di dodicimila e meno di tredicimila, in ventidue distretti più di ventimila, in venticinque più di ventunmila, in diciassette più di ventiduemila, in undici più di ventitremila, a Hoo, Wolverhampton, Ashton-under-Lyne e Preston più di ventiquattromila, a Nottingham, Stockport e Bradford più di venticinquemila, a Wisbeach ventiseimila, e a Manchester ventiseimila e centoventicinque . Come ha dimostrato un’inchiesta medica ufficiale nel 1861, gli alti indici di mortalità si devono, prescindendo dalle condizioni locali, prevalentemente all’occupazione extra domestica delle madri, donde deriva che i bambini sono trascurati, maltrattati, fra l’altro sono nutriti in modo inadatto, mancano di nutrizione, vengono riempiti di oppiacei, ecc.; al che si aggiunge l’innaturale estraneamento delle madri nei riguardi dei loro figli, con la conseguenza dell’affamamento e dell’avvelenamento intenzionale . “Invece” in quei distretti agricoli “dove l’occupazione delle donne è minima, l’indice della mortalità è minimo ”. Però la commissione d’inchiesta del 1861 dette l’inatteso risultato che in alcuni distretti puramente agricoli sulle coste del Mare del Nord, l’indice della mortalità per bambini al di sotto di un anno raggiungeva quasi i più famigerati distretti industriali».[2]

 

Economia tecnocratica come Assoluto

Marx descrive l’estraniamento da se stessi e dagli altri, fino all’estraniamento della madre dal figlio. La tecnica si è evoluta, non ha le asperità della prima e della seconda Rivoluzione industriale, ciò malgrado opera per separare, per ridurre i tempi del logos e per asservire. La pervasività attuale in ogni campo, mentre promette prodigi, minaccia di ridurre l’essere umano a pura presenza complementare nella Storia, ad individuum, ad atomo. La tecnica non è al servizio dell’essere umano, ma del Capitale che può ben fregiarsi del titolo di Assoluto – absolutus – sciolto da ogni legame. Tecnica e Capitale in condizione di pace apparente, sono divenute il deterrente che imbavaglia la Storia, mentre ogni disobbedienza è pagata a prezzo di bombardamenti, la cui distruttività non ha memoria nella storia. Il nichilismo è il regno dell’angoscia, la minaccia ed il controllo sono onnipresenti.

 

Il Frammento sulle macchine

Apriamo i Grundisse, nel Frammento sulle macchine: Marx elabora un abbozzo di uscita dalla gabbia d’acciaio e dal disincantamento. La macchina e la tecnica non più come strumenti per astrarre il lavoro vivo, ma come mezzo per l’umanità liberata. La tecnica resa concreta, liberata dall’alone metafisico, può divenire strumento per l’inizio della storia. La macchina per l’essere umano e non l’essere umano per la macchina. Il Prometeo scatenato del Capitale, può ritrovare la sua misura, il suo senso, se si realizza un percorso di consapevolezza e collaborazione collettiva che pongano le condizioni materiali e storiche per l’uso delle tecnologie in nome dell’essere umano. Le fabbriche come cellule di autogoverno, luogo di azione dal basso per il funzionamento della produzione per i bisogni della collettività e non per la sua alienazione legalizzata. La libertà nel Capitale è misura, soddisfazione di bisogni autentici e non indotti. La Storia irrompe nel meccanicismo riduzionistico dell’efficientismo della produzione per riportare l’umanità ad essere la protagonista della sua storia, l’artefice del suo destino.

 

Cultura classica come formazione alla libertà consapevole

Vi è nel pensiero di Marx una presenza carsica che riappare: la sua formazione classica, dalla quale il filosofo di Treviri ha imparato la dignità dell’uomo con l’umanesimo greco. Nella sua tesi di laurea, La Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, del 15 Aprile 1841, Marx compara il sistema filosofico-fisico di Epicuro e Democrito. Predilige il sistema di Epicuro poiché pone al centro la libertà dell’essere umano, la sua possibilità di scegliere e dunque di essere responsabile della sua prassi. Il sistema della tecnica dev’essergli apparso non come destino, meccanicismo democriteo, ma come l’effetto di una umanità senza coscienza, che non crede nella possibilità di poter cambiare la Storia. L’umanesimo dei Greci vive nella storia intellettuale di Marx, per cui dinanzi alla violenza della tecnica, non la interpreta come necessità, ma come possibilità storicamente condizionata che attende di essere liberata delle sue potenzialità. La tecnica è posta dall’uomo, spetta all’umanità stabilirne le teleologie nella Storia. L’idealismo marxiano si rende evidente. La speranza nel futuro, in un presente di senso, non può che passare per la rilettura di Marx e per il potenziamento della cultura classica, senza i quali non può che esservi il naufragio di ogni comunità. I complici dell’integralismo economico e tecnocratico sono in primis le sinistre ufficiali che hanno smesso di credere nell’essere umano per abbracciare la finanza e la fine della Storia.


Note
[1] Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 790–791.
[2] K. Marx, Il Capitale, primo libro, capitolo XIII, III paragrafo.

Comments

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Eros Barone
Monday, 27 August 2018 15:42
Dalla constatazione che sono in corso radicali cambiamenti nei modi di produzione della cultura non deriva necessariamente che tali cambiamenti comportino il passaggio da una cultura del libro ad una cultura del testo multimediale. Rispetto agli atteggiamenti estremi di chi paventa grosse perdite o di chi proclama grossi guadagni (atteggiamenti che, per un verso, si possono caratterizzare attraverso la contrapposizione bipolare fra l’‘ideal-tipo’ del ‘tecnofobo' e l’‘ideal-tipo’ del ‘tecnofilo’, ma che, per un altro verso, sono riconducibili ad un comune
determinismo tecnologico), la posizione più corretta sembra essere quella intermedia, che si traduce nello sforzo di saldare la nuova cultura alla cultura alfabetica, valorizzando, da un lato, la capacità argomentativa e la deduttività razionale di quest’ultima e pervenendo, dall’altro, ad un’integrazione di codici di tipo diverso (verbali, iconici e acustici). In questo senso la scuola è un esempio importante, poiché di fronte alla sfida delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione essa (per usare un’icastica espressione di Musil) non può “tenere il broncio al proprio tempo”, sempre più profondamente segnato da tali 'tecno-logie', ma deve adottare una visione bifocale che, senza nascondere talune implicazioni negative ìnsite in esse, le consideri tuttavia come opportunità di cui valersi, operando per indirizzarle verso sbocchi positivi: la scuola, insomma, deve accettare la sfida, pregna di conseguenze potenzialmente eversive, che i nuovi scenari comportano rispetto al suo attuale modo di essere e di fare, e deve saper porre in atto le necessarie contromisure. Se si guarda ai nuovi scenari dal punto di vista del rapporto fra cultura, scuola e informazione (tre termini che sono ormai inscindibili), occorre semmai prendere atto che il pericolo nasce dal connubio fra la televisione e il computer attraverso il telecomando, poiché quest’ultimo, proprio in quanto permette di interrompere continuamente un programma e di cambiare canale, elide i collegamenti fra il punto di partenza e il punto di arrivo di un percorso conoscitivo, producendo effetti antilogici e puramente emozionali, che sono, con ogni evidenza, deleteri per il pensiero argomentativo e razionale.
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Mario Galati
Friday, 24 August 2018 12:20
Verissimo che l'affidamento del pensiero ad un supporto esterno, l'oggettivazione, è un ostacolo alla formazione umana (Internet e i supporti di memoria e di calcolo informatici, stanno accentuando questo fenomeno). Di ciò nell'ambiente scolastico pochi hanno consapevolezza. Ma non bisogna trascurarne anche gli aspetti positivi: la più ampia e sicura trasmissione culturale; l'organizzazione del pensiero che la scrittura consente, più meditata e meno improvvisata rispetto all'oralitá; lo stesso studio riflessivo e meditato che la lettura consente rispetto alla comunicazione orale o dialogata (in fondo il dialogo si instaura con l'autore, come diceva Machiavelli). La scrittura ha sicuramente favorito il progresso della cultura e della formazione umana.
Quanto alla letto-scrittura, per es., considerata da un punto di vista non proprio umanistico, è risaputo che attiva aree specifiche del cervello e che contribuisce al suo sviluppo in modo diverso dalla comunicazione orale.
Certamente non possiamo rimpiangere l'analfabetismo alla base delle culture orali.
Il mio è solo un appunto, che non riguarda l'impianto complessivo dell'articolo, naturalmente.
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