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Th.W.Adorno: Per la dottrina della storia

di Pietro Carlo Lauro

La torre rossaIl secondo capitolo della terza parte di Dialettica negativa ha per titolo Spirito universale e storia naturale. Con ciò sono già fissati gli autori di riferimento per la filosofia adorniana della storia: Hegel e Benjamin. Esiste un progresso, una tendenza storica, progressiva o regressiva che sia, ed esistono d’altra parte le vittime del progresso, che poi non sono altro che gli stessi agenti della grande trasformazione. Ecco perché Hegel e Benjamin. A partire dalla seconda guerra mondiale o, per essere più precisi, dopo le purghe staliniane contro gli oppositori, lo spirito del mondo ha svoltato. La rivoluzione non è più all’ordine del giorno e al suo posto è subentrata su scala mondiale la diffusione dell’economia capitalista, l’occidentalizzazione del mondo. Ancor prima del crollo del regime sovietico Heidegger diagnostica una obiettiva convergenza, al di là dei sistemi politici, tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America sotto il segno del dominio planetario della Tecnica. Horkheimer e Adorno, che nel frattempo hanno maturato una prospettiva da Oltreoceano, rispondono con il capovolgimento dell’illuminismo. Quindi critica della Tecnica in Heidegger e critica dell’illuminismo in Horkheimer e Adorno. Forse che convergono non solo i sistemi politici , ma anche le filosofie? Per niente. Che la critica dei francofortesi converga in ultima analisi con la critica di Heidegger è una mistificazione messa in giro da coloro che per decenni si sono rifiutati di prendere atto della grande trasformazione. Ma allora la differenza qual è? Mentre Heidegger chiude il discorso sulla tecnica, dicendo che l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico1, quindi riproponendo ancora una volta la separazione tra essenza e fatto, Odisseo, che nella Dialettica dell’illuminismo è il prototipo del soggetto dell’autoconservazione, è insieme soggetto e oggetto del rischiaramento, perché è parte stessa di ciò che è da rischiarare. Questa è una differenza ums Ganze, che cambia tutto. Nella misura in cui Odisseo demistifica le potenze della natura o, che è lo stesso, del mito, si modifica anche la comprensione che egli ha di se stesso, perché lui stesso fa parte della natura. A differenza della metafisica classica il pensiero dialettico non teme la contaminazione dell’esperienza, perché sa di essere per costituzione compromesso con essa. La questione è soltanto, se e come sia possibile rendere l’esperienza fruttuosa per l’autocomprensione che l’io ha di se stesso.

Ciò che qui si presenta è il capitolo terzo, parte seconda della mia tesi di dottorato in filosofia, che spero possa fornire, insieme agli altri due capitoli già pubblicati in questa rivista, un contributo valido alla interpretazione di Dialettica negativa. Come già altre volte è successo, ringrazio il prof. Piero Violante per la sua ospitalità, in tempi in cui la politica alza tante barriere.

* * * * 

1. Progresso della razionalità strumentale

Quando Adorno tiene il suo corso “Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit”, che comprende le parti relative al primo e al secondo dei Modelli che compaiono nella parte terza di Dialettica Negativa, è il semestre invernale 1964/65. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti, ma ciò che egli già allora individuava come crisi del senso storico e come apatia politica nel tempo intercorso non si è affatto risolto, anzi si è addirittura aggravato. Egli polemizza con il positivismo storico di un Leopold von Ranke secondo cui il compito della scienza storica è quello di accertare i fatti. La metodologia del positivismo storico penalizza, dice Adorno, la costruzione dall’alto e perciò la conoscenza della tendenza storica oggettiva, che non è qualcosa di secondario o di derivato rispetto all’esperienza dei singoli individui, ma è ciò che tocca gli uomini immediatamente, anche se la si percepisce meglio solo nei momenti di transizione2. Ciò che la storiografia positivista mette in discussione è la possibilità di individuare il concetto di una storia universale, di una tendenza storica oggettiva, anche di un’epoca. L’oggettività di un periodo storico si decompone nella quantità innumerevole di punti di vista dai quali la si guarda. Dall’altro lato è stato messo in questione dalla storiografia francese delle Annales anche lo stesso concetto di fatto storico. Ci si chiede in questo ambito, se ai cosiddetti grandi avvenimenti della storia quali le grandi battaglie competa effettivamente tutta l’importanza che viene loro attribuita. Le due critiche, quella alla possibilità di individuare una tendenza storica oggettiva e quella alla storia evenemenziale, appaiono convergenti, perché i grandi avvenimenti, nei quali si riassume un cammino che a un certo punto trova il suo sbocco necessario, hanno senso solo alla luce della possibilità di individuare la tendenza storica. Ma quando questa viene meno, cade anche la rilevanza di certi avvenimenti. Agli uni, la storiografia delle Annales, gli avvenimenti non servono, agli altri, il positivismo, non serve la tendenza storica. Adorno cerca una via di mezzo tra la filosofia della storia di tipo tradizionale, hegeliano per intenderci, e il positivismo storico. Se ci si concentra troppo su ciò che conta per il singolo individuo o su fatti isolati, si rischia di perdere il disegno complessivo della storia; ma viceversa, se si guarda troppo al disegno storico, si abbandona l’esistenza singola a se stessa. Così ad esempio l’idea hegeliana che la storia sia “progresso nella coscienza della libertà” nel corso del XX secolo è stata smentita dalla storia, perché, se gli uomini fossero stati liberi, Auschwitz non sarebbe potuto accadere. Se proprio si vuole parlare in termini universali di progresso, si può solo dire che esiste un progresso nella produzione di mezzi di distruzione, dalla fionda alla bomba atomica. Questo è un progresso lineare di crescita, ma è un progresso del male, che sottende la permanenza del mito o della barbarie. Né si può affermare che nella storia ci siano tanti singoli progressi, perché ogni singolo progresso di cui beneficiano alcuni gruppi sociali quasi sempre è stato svantaggioso per altri, così ad es. nel rapporto tra città e campagna. Secondo Adorno finché non esiste una società che nel suo complesso si determina consapevolmente, ogni progresso ha sempre un carattere particolare e non è universale3.

Poi Adorno viene ad analizzare un’idea circoscritta di progresso, che è quella di Max Weber secondo cui si può parlare di un progresso della razionalità per il genere umano. Ma anche qui bisogna distinguere. Com’è noto, la razionalità di Weber, se intesa come capacità di scelta di mezzi sempre più conformi allo scopo, è una razionalità “particolare”, perché presuppone che il fine sia costituito dall’interesse all’autoconservazione o al profitto del singolo e che la ragione debba soltanto apprestare i mezzi più idonei al raggiungimento del vantaggio individuale. Una discussione intorno ai fini, se cioè sia un bene o un male assumere l’autoconservazione individuale come il limite insormontabile dell’agire umano dotato di senso, le resta preclusa. Perciò anche la razionalità di Weber secondo Adorno resta “particolare” nella misura in cui assolve a una funzione puramente strumentale. Ma come la razionalità di Weber è particolare, così è vera la concezione hegeliana che nel particolare si concentra la forza dell’universale: un esempio di dialettica di universale e particolare. Questo tipo di razionalità, la strumentale, essendo orientata al dominio della natura, ha un rapporto classificante, manipolante, mutilante con il suo oggetto, che vorrebbe, ma non può sottomettere, perché ciò che viene sottomesso si rivolta e rinnova il conflitto. Perciò l’essenza di questo tipo di ragione è di essere conflittuale, perché vuole dominare, anziché riconoscere alla natura ciò che le è proprio. Dominando sulla natura senza conciliarsi con essa, essa capovolge semplicemente il rapporto naturale, che vedeva l’uomo come colui che soccombe e lo riproduce. C’è da dire, ma questa è solo una personale opinione, che, nella misura in cui si è sviluppata in questi anni una coscienza ecologica, qualcosa è cambiato su questo punto almeno a livello delle coscienze, meno sul piano degli interventi effettivi, che appaiono tardivi. Su una cosa però Weber ha avuto ragione, che è questa: la ragione strumentale in quanto sapere tecnico si è effettivamente diffusa sul pianeta al di là delle differenze individuali tra i vari popoli, che al suo cospetto assumono il tono del folkloristico. Quindi questa ragione, seppur monca, ha un aspetto di universalità, che come tale esisteva ancor prima che si formasse il concetto di forze produttive o di tecnica. Il dominio della ragione strumentale trova tuttavia un limite nella oggettività dei processi di lavoro. Al livello del linguaggio comune si dice: “il tempo che ci vuole” a indicare appunto che i tempi di lavoro non si possono modificare a piacere. A questo proposito nella Dialettica dell’illuminismo si legge4:

“In quanto il dominio, dacché l’umanità è diventata stabile, e poi nell’economia mercantile, si è oggettivato in leggi e organizzazioni, ha dovuto insieme limitarsi. Lo strumento diventa autonomo: l’istanza mediatrice dello spirito attenua, indipendentemente dalla volontà dei capi, l’immediatezza dell’ingiustizia economica. Gli strumenti del dominio, che devono afferrare tutti – linguaggio, armi e finalmente le macchine – devono lasciarsi afferrare da tutti. Così nel dominio il momento della razionalità si afferma come insieme diverso da essi. Il carattere oggettivo dello strumento, che lo rende universalmente disponibile, la sua “oggettività” per tutti, implica già la critica al dominio, al cui servizio il pensiero si è sviluppato”.

 

2. Spirito e autoconservazione

Successivamente si viene ad affrontare la questione, se la tendenza espansiva della razionalità strumentale sia inarrestabile oppure no. Non che non vi siano state anche nella storia recente esplosioni d’irrazionalità, ma esse sono state di regola strumentalizzate per rafforzare il dominio, come è successo durante il nazionalsocialismo. Allora la domanda si può riformulare così: chi è il portatore della tendenza storica che consiste in una espansione della razionalità strumentale? Lo spirito o qualcos’altro? Qui bisogna ricordare che lo spirito in Hegel non può essere identificato con il pensiero soggettivo. In forza dell’identità di soggetto e oggetto lo spirito hegeliano include l’intero ambito della vita storico-politica ed economica dell’uomo e vive propriamente nella realtà storica. Vero è, che lo spirito si è emancipato, si è reso indipendente dalle condizioni della sua produzione, al punto che ha delimitato l’ambito della sua attività come specificamente intellettuale, per distinguerlo da quello dell’attività manuale; vero pure è, che all’interno di questo ambito irresistibile è per lo spirito l’impulso a porre se stesso come un primo principio. Tuttavia al di là dei confini specialistici, nella vita, questo primato si rivela ben presto come una finzione. Infatti la ragione tecnica è maturata dai bisogni di autoconservazione, dai bisogni materiali degli uomini. Così come essa guida i processi produttivi, così ne è anche il risultato. Lo spirito affonda le sue radici nell’autoconservazione. Ma cosa è accaduto nella storia umana? È accaduto che nell’ansia di arrivare a dominare la natura lo spirito ha dimenticato di essere lui stesso parte della natura e che su questa dimenticanza da un lato ha sì fondato la pretesa di essere un primo, totalmente separato da ciò da cui dipende, ma dall’altro ha reciso parti di sé, perché, cercando di dominare ciò da cui in realtà dipende, in realtà va contro se stesso. Proprio perché è presente un momento di auto distruttività nella ragione tecnica che si espande a spese di se stessa, oggi la tendenza storica non è equiparabile al senso della storia o a una qualche positività. Questo è il motivo per cui la coscienza precritica tende a rifiutare la conoscenza storica profonda. Essa ha difficoltà ad ammettere la preponderanza di un oggettivo sugli uomini, i quali proprio nella loro contingenza e casualità, si reputano la cosa più importante, anziché riconoscere che nelle condizioni date sono diventati soltanto funzioni di un apparato economico e istituzionale, che li sovrasta. Allora l’esperienza primaria non è quella di sentirsi liberi o di andar dietro a questo o a quell’altro interesse; piuttosto è quella di essere aggiogati alla tendenza oggettiva, che non è lì per gli uomini, ma si serve degli uomini per il proprio scopo, che è in genere quello del vantaggio individuale. La stragrande maggioranza degli uomini è oggi legata a un “ruolo” nella società, che è ciò che in genere viene richiesto agli uomini in cambio dei mezzi di sostentamento, senza che il ruolo abbia a che fare con ciò per cui il singolo si sente portato o per cui spesso ha anche studiato. Però, quando si dice oggi che la società costringe gli uomini a fare questo o quello, ma non quello che essi avrebbero voluto o per cui si sono preparati, si ottiene una reazione di rigetto. L’affermazione, che la tendenza storica oggi esprima una razionalità autodistruttiva, viene rifiutata come una ipotesi metafisica, venuta in mente chissà come a individui introversi, mentre si preferisce piuttosto tener ferma la propria esperienza individuale, che non ne vuol sapere di cose più grandi di lei. Ecco questo per Adorno equivale a una vera e propria perversione della coscienza individuale, che reputa primario ciò che non lo è e secondario ciò che invece è primario.

 

3. La tendenza e i fatti

Il rapporto esistente tra la tendenza storica e i fatti, all’interno della storiografia, continua a interessare Adorno, anche nelle lezioni terza e quarta5. Questa volta però, per evitare l’impressione di una “speculazione selvaggia” e per non riuscire particolarmente difficile come un capitolo della Grande Logica di Hegel, viene fornito un esempio concreto: “se la polizia bussa alla porta di casa alle cinque del mattino durante la dittatura nazionalsocialista…”. Che cos’è qui primario e cos’è secondario, che cosa è causa o essenza e cosa epifenomeno? All’inquilino è certamente più vicino il fatto bruto della perquisizione; che due funzionari della polizia si siano presentati; la paura di essere deportati ecc. Ma ciò che rende possibile un fatto del genere, se ci si attiene anche solo a quello che dicono i giornali, è che in precedenza è avvenuto un cambio di governo; che sono state soppresse le libertà individuali: che qualcuno ha dato l’ordine di perquisizione ecc. Tutto questo è apparentemente più lontano dalla diretta esperienza individuale, tuttavia costituisce il contesto, l’orizzonte di comprensibilità entro il quale l’accadere di certi eventi diventa possibile, anche se non si sa bene cosa accadrà e quando. In questo senso il contesto costituisce la causa reale, perché un evento si verifichi, mentre l’evento stesso è semplicemente la manifestazione dei mutamenti avvenuti; ciò attraverso cui il singolo, che può anche esserne all’oscuro, ne viene a conoscenza. L’evento è dunque qualcosa che è primo per noi nell’ordine della conoscenza, ma che non è primo in sé, essendo le cause reali qualcosa di distinto dal modo in cui queste si manifestano. A questo punto interviene la storiografia positivista a là Simmel e dice: attenzione, sull’ordine delle cause si possono fare solo congetture, è un terreno di speculazioni metafisiche, che hanno solo in comune di avere una base soggettiva e arbitraria! Ma, una volta isolati dalle cause che li hanno prodotti, i fatti servono soltanto a nascondere l’essenza ovvero a nascondere la consapevolezza della natura storica del fenomeno, di quei processi che hanno avuto come risultato il costituirsi di una oggettività. Se i fatti6 vengono destoricizzati, allora davvero non si capisce più nulla e si ricade in quella metafisica da cui i fatti vorrebbero curare. Tuttavia anche quando si afferma che quel che si presenta come un fatto bruto in realtà è un divenuto, storicamente determinato, e perciò realissimo, l’immediatezza viene sì spezzata, ma anche si conserva. Non si può parlare di mediazione senza un immediato su cui si esercita, altrimenti la dialettica diventa un mero gioco. Viceversa però l’immediato esige la visione di un nesso più ampio, che costituisce il suo orizzonte di intellegibilità. Entrambi, il particolare e l’universale, non vanno bloccati, ipostatizzati, ma considerati come momenti. Si può dunque considerare il sistema di una società in una determinata situazione, e soprattutto la dinamica interna a esso, come ciò che ha il predominio sui soggetti che lo riconoscono ed è la base di tutte le loro opinioni individuali. Ma in che modo l’universale, che gli uomini preferiscono rimuovere dalla loro coscienza, riesce non di meno ad avere la meglio su di loro? Ha la meglio su di loro, perché esso non è semplicemente qualcosa che trascende i singoli uomini e a cui gli uomini potrebbero pure cercare di sottrarsi, ma è qualcosa che si realizza per mezzo di loro, senza però che essi ne abbiano coscienza. Gli individui che perseguono nella storia i propri interessi sono involontariamente agenti di una oggettività che si rivolta contro di loro. Questa è una contraddizione non semplicemente logica, ma indice di una difficoltà che risiede nella cosa stessa. Che cosa sia lo abbiamo detto: è la razionalità strumentale in quanto espressione di una volontà irriflessa di dominio, che quanto più riduce l’altro a sé, tanto più riduce se stessa, perché è lei stessa quell’altro. In questo modo si arriva a una filosofia della storia che da un lato assolve al compito di comprendere i fatti in quanto manifestazioni di una tendenza storica, che immediatamente non si vede, anzi che in essi si nasconde, ma che dall’altro non li giustifica, perché la tendenza stessa, fatta dagli uomini e però rivoltatasi contro di loro, è nella sua essenza conflittuale. Essa non dirige gli uomini restando al di fuori del loro mondo, piuttosto si afferma seguendo la “logica delle cose”, secondo una necessità interna.

Nella quarta lezione si ricorre a un altro esempio, sempre di natura storica, allo scopo di chiarire una seconda volta il rapporto tra la tendenza storica, il trend, e i fatti. Lo scopo è sempre quello di contrastare la destoricizzazione dei fatti e l’esaltazione del pensiero soggettivo 7. Viene preso in esame il caso della grande Rivoluzione francese del 1789. Il suo significato risiede, secondo Adorno, nell’adattare le forme politiche alla emancipazione economica della borghesia. Ciò che è determinante rilevare ai fini di una adeguata comprensione del fenomeno rivoluzionario sono due cose: 1) le cause profonde o la grande tendenza storica da un lato e 2) le condizioni scatenanti o i fatti dall’altro. La grande tendenza storica è data dall’emancipazione economica della borghesia, che aveva avuto inizio nelle città-stato del Rinascimento e poi era proseguita con la rivoluzione di Cromwell nell’Inghilterra del ‘600. Nella Francia di fine Settecento la borghesia aveva già occupato tutte le principali posizioni economiche e sostituito l’economia di spesa del regime assolutista con una economia basata sul calcolo dell’utile quale esisteva già nella forma di un’industria manifatturiera. In questo senso la Rivoluzione non è un atto in cui irrompe improvvisamente la libertà, come piace rappresentarlo, ma è un atto, che al suo nascere ha già la copertura delle forze economiche. Essa viene a ratificare una situazione de facto già esistente, anche se ancora all’ombra delle forme politiche dell’assolutismo. Quando poi la monarchia, pur con l’aiuto dei maggiori economisti fisiocratici Quesnay e Turgot, non riesce a evitare la crisi finanziaria, che getta nella miseria le popolazioni urbane della capitale, questo può apparire ad alcuni come un fatto imprevisto, indipendente dalla emancipazione economica già raggiunta dalla borghesia, ma in realtà è precisamente il modo in cui si manifestano le grandi trasformazioni già avvenute a coloro che per insipienza o per interesse si erano rifiutati di prenderne atto. Il fatto della crisi finanziaria della monarchia francese e l’immiserimento delle plebi è la condizione o circostanza occasionale, che scatena lo scoppio della rivoluzione, ma questa circostanza occasionale è preparata dalle trasformazioni economiche intercorse di cui è un effetto. In un mondo già basato sull’economia di merce un’economia di spesa come quella dell’assolutismo è costretta a cedere il passo, non si regge più. Dunque la crisi finanziaria è stata l’occasione, affinché si realizzasse in forma violenta il passaggio ad una forma politica adeguata all’economia liberista. Tuttavia senza le trasformazioni impercettibili del tessuto economico che l’hanno preceduta non si sarebbe arrivati alla crisi stessa. È importante sottolineare che la causa profonda e la circostanza occasionale, pur essendo distinte tra loro, non sono due entità completamente autonome, che a un certo punto si incontrano per caso, ma sono cose che si tengono insieme e che stanno tra loro in un rapporto d’interazione o di causalità reciproca8. La tendenza storica ha bisogno di un’occasione per realizzarsi compiutamente, ma l’occasione ha bisogno del movimento storico per essere prodotta.

 

4. La coscienza infelice del singolo

Quello che è stato detto sul rapporto tra la tendenza e i fatti indubbiamente costringe a superare la dicotomia tra la filosofia e la storia, perché la costruzione filosofica della storia non può non servirsi del materiale che la scienza storica le fornisce. Ma se questo discorso è stato rivolto a restituire alla tendenza, alla costruzione storica quei diritti che il positivismo storico gli ha negato, bisogna tuttavia evitare di prendere partito per la tendenza storica sempre e comunque. Infatti la tendenza storica esprime certamente l’ens realissimum, ma non è affatto detto che questo coincida con il summum bonum. È noto che in senso stretto non è possibile individuare una tendenza storica, se non dopo che essa ha esaurito tutta la sua forza. Così Adorno ha parlato della tendenza storica che ha portato alla vittoria della borghesia sui resti del mondo feudale, o di quella che ha portato per un periodo limitato il nazismo al potere. E per il presente, per il secolo appena trascorso che cosa si può dire? La rivoluzione comunista di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg è stata repressa nel sangue alla caduta dell’impero guglielmino. Quindi una tendenza proletaria c’è stata, ma è stata sconfitta. Da allora in Europa il concetto di ragione è rimasto senza un soggetto storico bene individuato, che sia in grado di proporre un progetto sociale che si rivolge a tutti. In queste condizioni la ragione, resasi autonoma dagli interessi e dai bisogni degli uomini, si capovolge in irrazionalità. E così seguire la tendenza storica non ha più il significato di rendere concreti, di storicizzare i fatti isolati, ma acquista un ben altro significato, che è quello di schierarsi con i battaglioni più forti, anche se delegittimati e privi di senso. Per quanto Hegel insegni la dialettica della tendenza e dei fatti, egli la interrompe e si schiera con l’universale, dietro il quale egli poteva vedere ancora la realizzazione delle libertà borghesi, che però nel corso del novecento ha svelato il volto truce dei sistemi totalitari. Invece di cogliere nella coscienza dolorante del singolo e nella sua sofferenza socialmente prodotta un segno della mancata conciliazione tra uomo e natura o tra individuo e Stato, Hegel dall’alto in basso guarda all’individuo come a un incapace, che non sa porsi su un piano più elevato nel quale le sue sofferenze appaiono giustificate, perché hanno contribuito alla realizzazione dell’intero. Ma oggi si può chiedere: è giusto il sacrificio che l’universale, il corso del mondo, richiede all’individuo, se questi in cambio non riceve dall’universale nulla per sé o, peggio, se l’universale scarica su di lui la negatività della storia? Questi sono gli aspetti di negatività dell’universale tanto nei suoi aspetti materiali, quanto secondo la sua struttura logica. Bisogna tuttavia dire una parola in difesa di Hegel, almeno nel senso che bisogna riconoscere che egli ha colto un momento di verità. Se c’è un punto, dove l’idealista Hegel mostra di essere il vero realista, allora è qui. Infatti il predominio dell’universale sul particolare corrisponde esattamente al contenuto d’esperienza. Ciò che nella storia si afferma non sono le qualità individuali, non sono le voci migliori di coloro che dissentono, che puntualmente registrano la violazione dei diritti, l’abuso del potere ecc. Ciò che nella storia si afferma è ciò che ha alle sue spalle gli interessi più forti. Questo viene sempre prima. Ha la precedenza ed è noto a tutti come la legge del corso del mondo. I più deboli, i dissidenti, gli altri debbono aspettare. L’opinione dominante non è qualcosa che nasce dal basso, come sommatoria delle singole opinioni della gente o dei gruppi. L’opinione dominante è quella che ha in sé la forza per imporsi, perché ha alle spalle il denaro, il potere ecc. Das sich durchsetzende Allgemeine: l’universale è quello che si impone e che poi gli altri devono soltanto ripetere, amplificare, perché questo impone la legge sociale dell’adattamento all’universale più forte. Al quale gli individui non hanno la forza di opporsi.

 

5. Una catastrofe all’inizio della storia

Sulla base di quanto è stato riportato sin qui conosciamo il corso del mondo come l’universale, che si impone sulle teste degli uomini e che non di meno non potrebbe esistere senza di essi, senza la loro attività cosciente. Sappiamo che questo universale si riproduce non malgrado, ma in virtù del conflitto che attraversa gli uomini riuniti in società. Il conflitto si può ricondurre al rapporto di classe in base al quale gli uomini sono distinti in proprietari dei mezzi di produzione e in produttori, ai quali viene trattenuta una parte del loro lavoro, che è la fonte del profitto. Quindi ci troviamo di fronte alla circostanza un po’ paradossale, che la società si mantiene in vita attraverso lo sfruttamento che una parte dell’umanità esercita sulla parte restante. Cioè l’oppressione che una parte dell’umanità esercita sulla parte restante tornerebbe a vantaggio di tutti, a vantaggio dell’intero. Questo tornare a vantaggio dell’intero diventa per Hegel, ma anche per Marx ed Engels, una sorta di teodicea o giustificazione del male sopportato dalla particolarità, ovvero dagli uomini. I singoli individui soffrono le pene dell’inferno, ma poiché essi possono conservarsi solo nella misura in cui si conserva la specie, e dunque solo nella società quale riunione degli atti che si compiono in base alla legge del valore, il loro sacrificio crea le premesse, affinché essi in quanto membri della specie, non in quanto singoli, si possano conservare in vita. Ora la domanda è: si può pensare una condizione dell’intero in cui questo si mantiene in vita senza il dominio, ovvero senza lo sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo? E in riferimento al passato: sarebbe potuta esistere una società senza dominio, in cui il dominio rappresenta per così dire qualcosa di esteriore alla sfera economica, o il dominio è funzione di una necessità economica e come tale invalicabile, almeno finché si produce? Una questione, che in passato è stata molto dibattuta. Ciò che spingeva Engels a porsi delle domande sull’origine della società nell’Antidühring o ne L’origine della famiglia non era la curiosità di accertare dei fatti che si perdono nel vago della preistoria, ma rispondeva a un interesse politico:

“Il primato dell’economia fonderebbe con rigore storico il lieto fine come ad essa immanente; il processo economico produrrebbe i rapporti politici di dominio e li rovescerebbe sino all’ineluttabile liberazione dalla coercizione dell’economia. L’intransigenza della dottrina, in particolare di Engels, era però a sua volta tutta politica. Egli e Marx volevano la rivoluzione come rivoluzione dei rapporti sociali nell’intera società, nel sostrato della sua autoconservazione, non come cambiamento delle regole di gioco del dominio, della sua forma politica. La frecciata era rivolta contro gli anarchici”9.

Esistevano due linee, quella degli anarchici e quella dei socialisti. Per gli anarchici, diffusi soprattutto in Spagna e in Italia, la rivoluzione era una questione di presa del potere. I socialisti invece sulla base della teoria economica di Marx puntavano sulla crisi economica, che sarebbe avvenuta secondo le previsioni teoriche in seguito alla caduta tendenziale del saggio di profitto e a una crisi di sovrapproduzione, che, bisogna dire, si è avverata. La crisi del 1929 è infatti fondamentalmente una crisi di sovrapproduzione 10 . Gli anarchici erano politicamente per l’insurrezione, i socialisti invece attendisti. Essi attendevano che la legge di movimento della società capitalista avrebbe da sé sola, senza colpo ferire, portato al superamento della società capitalista. È la linea che si è affermata con la II internazionale e che è rimasta in vigore sino agli inizi degli anni ’30, quando Stalin la condanna come meccanicista e inaugura la fase dell’edificazione del socialismo in un solo paese con i suoi progetti di industrializzazione forzata11. La posizione di Adorno intorno alla costruzione della filosofia della storia è debitrice tanto della linea socialista che di quella anarchica, ma non coincide con nessuna delle due. La sua filosofia della storia è infatti contemplativa, come quella dei socialisti, che non pensavano a un intervento diretto, ma è vicina a quella degli anarchici, laddove Adorno esclude che il dominio sia una necessità imposta dal sistema economico, cosa che lo differenzia, come da lui stesso sottolineato, su questo punto da Marx. Se infatti il dominio, ragiona Adorno, fosse una necessità imposta dall’economia non sarebbe nemmeno pensabile un mondo privo di dominio e l’illibertà regnerebbe sino alla fine del mondo. Ma se non è così, allora si può continuare a sperare:

“Solo se fosse potuto andare diversamente; solo se la totalità, apparenza socialmente necessaria come ipostasi dell’universale estratto dai singoli uomini, viene spezzata, quando pretende l’assolutezza, la coscienza sociale critica mantiene la libertà di pensare, che un giorno possa andare diversamente”12.

È ipotizzabile che all’inizio della storia ci sia stato un qualche evento catastrofico, di natura contingente, che abbia orientato il corso della storia nella direzione del dominio, anziché in quella alternativa. Ma, appunto, la natura contingente di questo evento, paragonabile ai miti religiosi della caduta da uno stato originario, fa sì che allo sfruttamento economico non sia iscritta una necessità storica ineluttabile. Si può pensare che un giorno un evento imprevisto dia una direzione diversa allo sviluppo. Si può pensare…!, dice Adorno, ma la debolezza della critica sta nel fatto che in realtà le cose sono andate diversamente e che nella realtà, come noi la conosciamo effettivamente, non possono andare diversamente. Solo che il maggiore realismo della filosofia della storia hegeliana rispetto alle utopie stratte o sentimentali, diviene affermativo o apologetico nel momento in cui esclude, ritenendo che la conciliazione sia già avvenuta, che un altro mondo è possibile. Non è possibile scambiare la conciliazione con la conservazione della specie o ancora peggio con la violenza su ciò che il concetto sussume. La conciliazione potrebbe essere solo la fine di quel conflitto ovvero la concessione della vicinanza a ciò che è diverso, senza per questo assimilarlo.

 

6. Storia e psicologia

Rivolgiamo adesso lo sguardo sui rapporti tra l’individuo e la storia dal versante psicologico. Innanzitutto bisogna considerare l’individuo come un prodotto storico, che in genere viene fatto risalire all’epoca del Rinascimento italiano13. Se è vero che esso è una categoria di riflessione, allora questo vuol dire che per esistere ha bisogno di stagliarsi sullo sfondo della totalità sociale, a cui pure appartiene. L’individuo emerge, si distingue per virtù, capacità, ingegno dall’insieme dei suoi simili e un uomo siffatto ha in genere anche un bell’aspetto. Nell’antica Grecia ciò si esprimeva nell’ideale della kalokagathia, dell’uomo virtuoso e di bell’aspetto, che Goethe ha ripreso. Tuttavia, come si dà una tendenza alla distinzione, che poi è anche un riflesso del fatto che gli uomini sono anche fisicamente distinti tra loro, così è presente il bisogno di socializzazione ossia di rendersi uguali agli altri, più in generale di adattarsi alle condizioni sociali di vita. Si cerca di soddisfare questo bisogno non soltanto attraverso atti consapevoli di disciplina, ma soprattutto in forma inconsapevole. Agisce in noi una forza non cosciente a conformarci al comportamento del gruppo sociale di riferimento. Sono cose che ha indagato la psicologia sociale e che qui non interessa approfondire più di tanto. Il punto che preme invece sottolineare è che gli uomini nelle condizioni sociali della loro esistenza assimilano psicologicamente l’irrazionalità del corso del mondo contro i loro interessi, contro la loro propria ragione. Non si tratta solo del fatto che essi, come diceva Marx, sono maschere caratteriali, cioè che, mentre credono di essere se stessi, agiscono in realtà in funzione dei loro interessi economici; piuttosto del fatto che la società impone agli uomini una rinuncia pulsionale, come vide Freud14 . La società offre agli uomini la prospettiva di un appagamento maggiore nel futuro in cambio di una rinuncia ad un appagamento possibile oggi. Si crea così una sorta di plusvalore libidico dalla differenza tra la promessa di un più grande appagamento in futuro, da ottenere tramite la creazione di una società più ordinata, e ciò che gli uomini effettivamente ottengono in ricompensa dei loro sacrifici. Freud ha osservato che ciò che gli uomini sacrificano in termini di energia pulsionale è sempre più di quel che ottengono in ricompensa delle privazioni cui si sono volontariamente sottoposti. Poiché dunque lo scambio tra l’energia richiesta, ovvero sacrificata, e quella ottenuta in ricompensa non è alla pari, avviene che l’identificazione dell’individuo con la realtà esistente è necessariamente di tipo nevrotico, cioè possibile solo a prezzo di rimozione, di regressione ecc. Così, se è vero che la psicologia è il luogo dell’irrazionale, questo è da vedere come il riflesso di un corso del mondo che impone agli uomini, anche da un punto di vista pulsionale, uno scambio ineguale. La frustrazione o il disagio procurato dalla civiltà induce gli uomini a identificarsi con l’aggressore, un meccanismo di difesa studiato da Anna Freud. Identificandosi con il cattivo universale, gli uomini perdono quella spontaneità di cui ci sarebbe bisogno, per agire sul corso del mondo. Non è vera l’opinione, che gli uomini abbiano la politica che si meritano e che pertanto non abbiano nemmeno il diritto di denunciare il corso del mondo, nel quale sono diventati quel che sono; piuttosto è vero che l’esistenza degli uomini dipende da condizioni storiche, nelle quali sono stati ridotti alla passività e che possono essere modificate, non però senza il loro intervento, che tuttavia è impedito proprio da ciò che dovrebbe essere cambiato. Nelle condizioni date, dice Adorno, gli uomini desiderano esattamente ciò che viene loro offerto e ad essi viene offerto esattamente ciò che desiderano, perché questo è il modo in cui la vita si perpetua sotto le condizioni del dominio. Niente può dall’interno spezzare questo circolo, ma dall’esterno sì, se è vero che il dominio non poggia su una necessità economica.

 

7. Una “metafisica induttiva”

Nelle lezioni nona e decima vengono presi in esame il concetto di storia universale in generale e quello di una negativa in particolare15. Adorno afferma inizialmente di volere tradurre in termini storiografici ciò che fin qui ha esposto in forma speculativa. I suoi avversari sono ovviamente sempre gli stessi ovvero coloro che negano che si possa accertare una continuità nella storia e che magari per alcuni eccessi di genericità commessi nel passato vogliono chiudere con la storiografia. Questo Adorno davvero non lo pensa, per quanto la sua filosofia negativa della storia come ripetizione del sempre-uguale e, nella misura in cui si può parlare di movimento, come decadenza dell’individuo possa pure avere dei punti in comune con la visione sconsolata della storia, quale si può trovare in Schopenhauer, Nietzsche e Spengler. E infatti egli porge ai suoi studenti un’idea di storiografia che è basata sulla tensione costante da instaurare tra il concetto della storia e i dettagli. Il concetto o telos della storia è ciò che conferisce unità al materiale storico e che dà spessore o profondità a una ricerca, che altrimenti sarebbe condannata al mero accumulo di conoscenze. Così per Hegel il concetto della storia è dato, secondo la famosa definizione, dal “progresso nella coscienza di libertà” (Fortschritt im Bewußtsein der Freiheit). Quindi dalle satrapie orientali alla moderna monarchia costituzionali ci sarebbe un filo rosso che è costituito dalla idea di libertà, vista nel suo progressivo realizzarsi nella storia. La sua progressiva realizzazione, come si sa, è scandita in tre tappe: in Oriente, dove la civiltà è nata, era libero uno solo, l’imperatore-dio; nella Grecia antica, che era una società schiavistica, erano liberi solo alcuni, mentre nelle moderne monarchie costituzionali infine tutti gli uomini sono liberi. Questo almeno secondo lo schema hegeliano delle Lezioni sulla filosofia della storia, che come tutti gli schemi mostra la sua genericità, quando si scende nei dettagli. Davvero in Oriente era libero uno solo o non era libera piuttosto una intera casta? Oppure: davvero i liberi in Grecia si occupavano soltanto di politica? Non avevano una vita privata? E cosa vuol dire che nello stato moderno sono tutti formalmente liberi? Anche le donne, gli ebrei e gli omosessuali lo erano?16. Tuttavia lo schema generale non perde la sua validità esplicativa, sol perché si rivela impreciso nei dettagli. Sarà semmai il compito di una ulteriore ricerca stabilire il limite di validità o di applicazione di idee, che nella loro prima formulazione appaiono ancora generiche. Proprio per sfuggire a questa difficoltà, Adorno accoglie la proposta di Benjamin espressa nella Introduzione al Dramma Barocco di una “metafisica induttiva”. Nella versione adorniana questa consiste nel programma di partire sempre da un fenomeno particolare, che richieda però un’interpretazione metafisica, in modo da evitare che l’interpretazione metafisica si sovrapponga ai fenomeni dall’alto. Ma cosa pensa Adorno dello schema hegeliano? Se dal piano metodologico si entra nel merito, si può ancora condividere la tesi hegeliana della storia come progresso nella coscienza di libertà? Su questo punto Adorno è prudente, perché è consapevole che oltre al disegno hegeliano della storia se ne trovano altri nella modernità. In primis quello marxista, che vede nella storia il conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione, poi quello benjaminiano di tipo teologico e marxista insieme che vede nella storia una catastrofe permanente, e infine quello suo proprio secondo cui nel corso dei secoli avremmo assistito ad un processo di ascesa e di decadenza dell’individuo borghese. L’individuo, una categoria che come sappiamo compare nel Rinascimento italiano, si libera dalla tutela teologica agli albori della modernità; trova nelle opere di Shakespeare e nei Saggi di Montaigne la sua compiuta formulazione letteraria, ma è costretto nel tempo a subire un processo di adattamento alle norme sociali, come risulta in particolare nei drammi di Ibsen e, sul lato sociologico, dai lavori di Durkheim, che lo abbassa sempre più al rango di funzionario di istituzioni sempre più grandi, sempre più potenti. Nella sua parabola discendente l’individuo è sempre meno faber, artefice del suo destino, e sempre più funzione o appendice di un sistema politico-istituzionale creato un tempo da lui, ma infine resosi autonomo, al punto che gli individui, non potendovi decifrare una logica che essi possano fare o vivere come propria, hanno con esse un rapporto meramente strumentale: le sfruttano, mentre ne sono schiacciati. Questo è schematicamente il disegno di Adorno della parabola discendente dell’individuo nell’epoca moderna. C’è qualcuno che si salva?

“È compito di coloro che hanno avuto nella loro costituzione spirituale l’immeritata fortuna di non adattarsi completamente alle norme vigenti – una fortuna, che nel rapporto con il mondo abbastanza spesso pagano cara – esprimere con slancio morale, per così dire in funzione di supplenza, ciò che quei più per i quali lo dicono non riescono a vedere o si vietano di vedere per conformità alla realtà”17.

Si salvano coloro che per doti individuali o per fortunate circostanze familiari e sociali si sottraggono all’adattamento alle regole vigenti, quindi fondamentalmente solo due categorie di persone: gli artisti e i folli18:

“L’opera di Nietzsche trabocca d’invettive contro la metafisica. Ma nessuna formula la descrive più fedelmente di quella dello Zaratustra: è solo un folle, solo un poeta. L’artista pensante comprendeva l’arte impensata. Il pensiero, che non capitola davanti al miseramente ontico, viene annientato dai criteri di esso, la verità diventa non verità, la filosofia follia. Eppure essa non può congedarsi, se non si vuole che trionfi la stupidità nell’antiragione realizzata. Aux sots je préfere les foux”.

In loro resta accesa anche in tempi bui la fiaccola dello spirito ed essi la portano, che ne siano consapevoli o no, anche in nome di tutti quelli in cui essa non brucia più.

 

8. La storia come “catastrofe permanente”

Questo disegno storico adorniano s’incrocia con quello ancora più negativo del Benjamin delle Tesi di filosofia della storia19. La concezione della storia come catastrofe permanente20, possiamo dire con certezza, è originariamente benjaminiana. È lui infatti che riprende da un quadro di Paul Klee la famosa immagine dell’Angelus Novus che vorrebbe redimere l’umanità dalle sofferenza passate – i cumuli di macerie che crescono sotto i suoi occhi – ma non può, perché il vento (socialdemocratico) del progresso, che gonfia le sue ali, lo spinge in direzione contraria. Dunque, se ci soffermiamo su questa immagine, la storia è un cumulo di macerie. Gli individui sono da sempre le vittime predestinate della storia. Questo perché le ragioni della storia non coincidono mai con le ragioni dei singoli individui e il peso di questa differenza lo sopportano i singoli. Dalle madri di Sebrenica che, ancorché avanti negli anni e prossime alla morte, si recano in pullman alla corte dell’Aia per avere giustizia di un dolore socialmente prodotto, ma che grava solo su di loro, sino alle donne argentine di plaza de Mayo che vorrebbero almeno avere restituito il corpo del loro congiunto, le macerie della storia sono sotto gli occhi di tutti e non le vedono solo quelli, pochi, che le macerie hanno prodotto. Sono i vincitori della storia, coloro che vedono nel passato non le immani sofferenze delle vittime, ma le tappe della loro resistibile ascesa, il continuum di un percorso vincente. Le madri di Sebrenica stanno invece per coloro che hanno la vita segnata dalla discontinuità tra un prima e un dopo il massacro, che ha strappato loro i figli. Se nella storia il dolore sopravanza, e di molto, la felicità, allora è adeguato pensare a essa non come una identità, ma come la non identità della identità e della non identità o come il discontinuo del continuo e del discontinuo. Cosa significano queste formule, che richiamano non per caso quelle della Eingangsbetrachtung della Logica hegeliana? Il primato assegnato al non identico o al discontinuo nasce dalla presa d’atto che ciò che è continuo nella storia sono le rotture della

continuità, quindi il discontinuo. Però, e qui Adorno marca una discontinuità rispetto a Benjamin, il pensiero della storia universale o della continuità non può essere semplicemente cancellato:

“Infatti proprio ciò che viene represso e sottomesso; proprio questi atti di repressione e di sottomissione, nei quali l’identità si spezza, proprio essi istituiscono quella identità della storia di cui parliamo e che si potrebbe chiamare identità negativa. Eliminare completamente la storia universale dalla riflessione storica – in questo, stando almeno a quanto detto esplicitamente da Benjamin, non sono d’accordo con lui, sebbene si appoggi oggettivamente a lui – sarebbe altrettanto cieco nei confronti della tendenza, della “tempesta” storica, di cui d’altra parte parla egli stesso, come al contrario sussumere sovranamente i fatti sotto la tendenza storica (cosa che vi ho mostrato in Hegel), senza sottolineare in questo il momento non identico, confermando per giunta la tendenza, perché passa sopra gli individui”21.

Se si cancella completamente l’idea della storia universale, il pericolo è di cadere nel vittimismo. Poiché non c’è una storia universale; poiché il singolo ne è solo vittima, allora il singolo si chiude in se stesso. Può darsi che egli sul momento si senta alleggerito, ma oggettivamente ha perso qualcosa, quel legame con l’universale della ragione che lo caratterizza in quanto soggetto etico. Ma anche per un’altra ragione non si può fare del tutto a meno della storia universale, che è questa: sebbene la storia massacri gli uomini, essi senza di essa non potrebbero vivere. La storia è ciò che prende e dà la vita, nella misura in cui l’esistenza umana civile è una esistenza sociale. Perciò lo sforzo di costruire qualcosa che travalichi i limiti dell’esistenza individuale è tanto irrinunciabile, quanto è sicuro che qualcosa verrà a spezzare quel che si è pazientemente costruito. Questo ricorda un po’ il detto di Anassimandro, che infatti viene ripreso da Adorno in questa lezione:

Si potrebbe dire che la storia…nel suo corso complessivo è organizzata come un gigantesco scambio di cause ed effetti,…come se anche la macrostruttura, la costituzione macrocosmica della storia sia a sua volta un unico rapporto di scambio, in cui ogni volta, quando qualcuno si prende qualcosa, segue l’espiazione – e che pertanto non ha oltrepassato il mito. Un’idea per altro che non è affatto estranea agli inizi della filosofia:”22.

In questa vita non si può intraprendere niente, senza fare un torto a qualcuno e pagare un prezzo. Ma anche chi davanti a questo decidesse di non fare niente, si renderebbe colpevole, se non altro, di non avere cercato di fare qualcosa contro questo stato di cose. Per uscire da questo contesto, che è il contesto del mito, ancor sempre presente nella storia umana, che perciò non può dirsi veramente storia, non basta appellarsi alla norma illuminista dell’occhio per occhio, che si cura di proporzionare la penna al danno ed è comunque già un progresso rispetto alla vendetta smisurata. È necessario pensare a una esistenza in cui vivere non sia più una colpa, in cui si possa vivere senza sottrarre niente a nessuno, ohne Opfer und Rache. Ma questa è una maniera utopica di raffigurare il telos della storia, che individua nel presente un difetto e immagina il futuro come la soppressione di esso.

 

9. Spirito universale e spiriti nazionali

Prima di arrivare al concetto di storia naturale, che è centrale per la filosofia della storia di Adorno, soffermiamoci un po’ sul principio di nazionalità o, come Hegel lo chiama, sullo spirito del popolo (Volksgeist). La nazione è una forma di organizzazione sociale, nata storicamente nell’ambito di una pre-esistente unità geografica, linguistica o quant’altro. È quindi fondamentalmente un’entità storica, la cui nascita si può fare risalire agli inizi dell’età moderna e precisamente alla lotta dello stato assoluto contro il particolarismo feudale. La costruzione di un potere centralistico, che sia in grado di dare unità a ciò che è disperso, serve a porre le basi giuridiche ed economiche per un’economia di scambio e, sul piano culturale, per sviluppare gli idiomi nazionali attraverso la creazione di grandi opere letterarie come le tragedie di Shakespeare, la traduzione della Bibbia di Lutero, la Divina commedia di Dante ecc. Tutto ciò è però possibile, solo se si spezzano tanto i legami naturali propri delle comunità non statuali, quanto i vincoli di sangue o di fedeltà tipici del sistema feudale Spezzando, non senza incontrare resistenza, i legami naturali, la nazione libera energie, che essa ha bisogno di legare in forma nuova, se non vuole scoppiare23:

“Ma la nazione – come termine e oggetto – è di data recente. Una precaria e centralistica forma d’organizzazione doveva domare le diffuse associazioni naturali dopo il crollo del feudalesimo a difesa degli interessi borghesi. Essa fu costretta a feticizzarsi, perché altrimenti non avrebbe potuto integrare gli uomini che di quella forma d’organizzazione hanno economicamente tanto bisogno, quanto essa infligge loro incessantemente violenza. Dove l’unificazione della nazione, premessa dell’emancipazione della società borghese, fallì completamente, come in Germania, il suo concetto viene sopravvalutato e diventa distruttivo. Per far presa sulle gentes, esso mobilita inoltre ricordi repressive alla stirpe arcaica”.

Da qui viene il bisogno di presentare se stessa, un qualcosa di storicamente sorto e divenuto, come un dato naturale. Essa avvia perciò un processo di naturalizzazione per intercettare quelle forze che ha domato, ma che potrebbero rinascere e rivoltarsi contro di lei. È ovvio che la naturalizzazione del concetto storico di nazione è una finzione, ma è utile in quanto forma di compensazione per una coscienza ormai estraniata dai nessi naturali e persino da se stessa. Tuttavia non passa molto tempo e anche la nazione viene superata dagli sviluppi travolgenti del capitalismo. Già in Marx, e non solo attraverso l’odierna globalizzazione, c’è la consapevolezza che il capitale non rispetta i confini nazionali, che attraversa i mari, mette popoli diversi in contatto tra loro ecc. Basta viaggiare un poco per accorgersi che esiste una certa uniformità nel modo di organizzare la vita negli aeroporti, nel turismo, negli affari ecc. Di fronte a questa uniformità nell’organizzazione materiale della vita, riconducibile al fatto fondamentale della produzione del valore, le differenze nazionali, etniche come si dice oggi, appaiono solo più come una variopinta mascherata, utilizzabile per lo più come reclame turistica, ma per il resto priva di sostanzialità. Ciò che è più reale non sono le nazioni, ma la realtà internazionale dello scambio, in cui tutti siamo inseriti. È esattamente il contrario di quel che si pensava agli inizi dell’Ottocento, al fiorire del Romanticismo, quando si diceva che il cosmopolitismo è una cosa astratta, mentre reali sono le tradizioni storiche dei singoli popoli. I singoli popoli, le singole nazioni hanno perso sostanzialità, dal momento in cui si è passati da una economia mercantile ad una economia capitalista. Questo mette in ridicolo come una grande mascherata la concezione hegeliana di filosofia della storia secondo cui lo spirito universale viene incarnato in epoche diverse da popoli diversi, che si avvicendano alla guida del corso storico, avendo ciascuno i propri caratteri peculiari. In questo senso non c’è nessuno spirito universale. Piuttosto nell’immagine di nazioni che si alternano alla guida della storia viene in luce l’elemento conflittuale e repressivo insito nell’idea stessa di nazione, che però contraddice quanto Hegel insegna in altre pagine, ovvero che la storia è il terreno della progressiva realizzazione della libertà. Allora ci si chiede: come si possono mettere insieme la concezione della storia come realizzazione della libertà e quella della storia come conflitto permanente di popoli in lotta per la guida del mondo, come Höllenmaschinerie? E infatti non si mettono insieme:

“Gli spiriti nazionali, le nazioni sono fondamentalmente insensibili alla ragione e pertanto non più conciliabili con la dottrina hegeliana del progresso nella coscienza della libertà, ormai anacronistici – tranne che non si arrivi effettivamente a tanto (e Hegel non è al riparo dal sospetto di esserci a volte arrivato) ovvero a scindere o ipostatizzare assolutamente lo spirito o la ragione universale rispetto all’effettiva ragione umana e alla ragione dell’individuo”24.

Che Hegel possa trasfigurare la storia naturale come progresso nella coscienza della libertà, è possibile solo a condizione di separare attraverso un abisso incolmabile la ragione universale dalla razionalità dei singoli uomini, che non possono commisurare alla loro esperienza quel che loro viene insegnato dalla cattedra.

 

10. Storia naturale

Nell’accezione di Adorno il concetto della “storia naturale” o Naturgeschichte non è di tipo naturalistico, ma critico. Non intende quindi la storia della natura in opposizione a quella dell’uomo. Non si deve dunque associare a esso la disputa tra spiegazione e comprensione, che ha luogo sul terreno neokantiano di una rigida distinzione tra scienze della natura e scienze dell’uomo. Questa distinzione presuppone una dicotomia tra storia e natura esterna, che è da respingere. In realtà, dice Adorno, l’uomo vive nella società, non nella natura, e dunque la questione semmai sarà: “come si dispongono i momenti naturali e i momenti storici all’interno della storia?”25. D’altra parte nemmeno si può assolutizzare il primato della società: “La società stessa è infatti a sua volta mediata dagli enti di cui si compone e include perciò necessariamente un momento extrasociale” 26. Liberato il campo da fraintendimenti di tipo naturalistico, vediamo in che senso il concetto di storia naturale è di tipo critico. In primo luogo lo è, perché la storia ad oggi, salvo forse alcune rare eccezioni, non è uscita da una condizione di natura, in cui domina la spietata legge del più forte. Inoltre, che essa sia ancora naturale, lo si può desumere anche dal fatto, che in essa prevale la legge dei grandi numeri ovvero la legge statistica. Celebre è l’esempio di Durkheim sul numero dei suicidi in una determinata società, che rimane costante indipendentemente dalle motivazioni personali di togliersi la vita o meno. Questo significa che ancora il destino si abbatte sugli uomini indipendentemente dalla loro volontà tanto sul piano degli eventi personali, quanto su quello degli eventi pubblici. Essi non hanno né a livello di singoli, né a livello sociale il controllo completo degli eventi. In Marx il concetto di storia naturale è presente in un passo dove egli dice che considera “lo sviluppo della formazione economica della società come un processo storico-naturale…” 27 . Questo pone alcuni problemi d’interpretazione di Marx. Cosa vuol dire la frase sopra riportata? Significa forse, come volevano i socialdemocratici criticati da Benjamin nelle Tesi, che Marx si affida al movimento naturale della società borghese, che da sola produrrebbe la sua fine, sicché egli avrebbe in definitiva un concetto positivo e non critico della storia naturale? Tutt’altro. Come Adorno dice28, Marx nelle sue Tesi su Feuerbach ha abbandonato il concetto antropologico di natura di Feuerbach, richiamandosi piuttosto a quello dialettico di origine hegeliana. In base ad esso la natura è insieme causa ed effetto dell’agire umano. Ora qual è il punto di vista di Marx? Egli parla da un lato delle leggi economiche che regolano la società borghese come leggi di un’ineludibile legalità, proprio come quelle che regolano la natura. Dall’altro però parla di esse come di una mistificazione o apparenza socialmente necessaria, cui l’uomo con il suo intervento può dare un cambio di direzione. Anziché produrre per il profitto e per investirlo in un nuovo ciclo, si deve produrre per l’uomo. Questa inversione di marcia non è però qualcosa che venga da sé, ma richiede l’intervento cosciente degli uomini. Questo è quello che pensava un Marx dialetticamente rivisitato e depurato di tutte le scorie della socialdemocrazia. Nel momento in cui però non si può sperare più in un intervento cosciente dell’uomo nella storia, per modificarla; in cui anzi ogni intervento umano potrebbe sortire l’effetto contrario di far perdere all’uomo la libertà riconquistata dopo la seconda guerra mondiale, ciò che resta alla filosofia è quello che Adorno chiama das Glück der Deutung, la fortuna dell’interpretazione. Questa consta fondamentalmente di due momenti: a) della forza di non lasciarsi accecare dall’apparenza d’immediatezza, ma di oltrepassare l’apparenza accorgendosi del divenire nel divenuto; b) della forza dello spirito di restare padrone di sé al cospetto della malinconia (Trauer) che il passato suscita in chi lo sta a guardare. È interessante che nella lezione XIV si parli di “interpretazione” e la si ponga in collegamento con l’ermeneutica in quanto interpretazione di segni linguistici. Adorno parla però d’interpretazione solo in riferimento ai fatti storici, come è stato visto all’inizio, ma in particolare in relazione ai concetti di natura e di storia. L’interpretazione allora cercherà di trovare la storia all’interno della natura e viceversa la natura all’interno della storia. Ma cosa significa questo in concreto? In sintesi: che la storia sia interna alla natura significa che la reificazione non è eterna, ma destinata a corrompersi. Che la natura sia interna alla storia vuol dire invece che la storia si è reificata, che il divenire si è irrigidito. È un tema, questo, che è presente in Adorno almeno dalla conferenza Die Idee der Naturgeschichte del 1932 29 . Ovviamente non si può pensare questa costellazione senza la figura di Benjamin, che nel Dramma Barocco30, pubblicato nel ’28, ma scritto nel ’24, aveva schizzato la concezione della storia come perenne caducità naturale che si schiudeva ai poeti dell’epoca barocca. La storia, al pari della natura corruttibile delle cose, è un continuo sfacelo di sistemi politici, dalle cui ceneri ne nascono di nuovi, per poi scomparire a loro volta. In tutto questo colui che la fa da padrone, inghiottendo ogni cosa, è il tempo, che per i Greci sta più in alto anche di Zeus. Colui che assiste con sgomento alla caducità di tutte le cose è il malinconico, con il suo sguardo perennemente rivolto al passato. Il malinconico è colui che ha sempre davanti agli occhi la visione della transitorietà di tutte le cose. Proprio per questo nasce in lui la convinzione metafisica che, se vi è qualcosa di superiore ai mortali, questo ha da essere sottratto al tempo. Solo ciò che non è soggetto al tempo, sopravanza l’ambito del meramente esistente. Questo è il nesso tra malinconia e metafisica. Questo nesso pone le immagini della trascendenza in un legame diretto di dipendenza con l’immanenza. Bisogna sapere vedere nella rovina, nel teschio l’unica immagine possibile della trascendenza, in forma indiretta, spezzata. Adorno si rifiuta di porsi da un punto di vista superiore e da lì contemplare l’eterno. La finitudine dell’uomo gli impedisce di assumere un punto di vista sovraumano, ma non per questo ha da rinunciare a ciò che illumina.


Note
1 M. Heidegger, La questione della tecnica in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p.27.
2 Th.W.Adorno, Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit in Nachgelassene Schriften, Sezione IV, vol. 13 Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001, p.18.
3 Ibidem, p.20.
4 M. Horkheimer, Th.W.Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966 p. 45s.
5 Cfr. Th.W.Adorno, Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit op.cit. rispettivamente alla p.30 e alla p.45.
6 Da noi in Italia la questione, se nella ricerca storica si debba dare più peso ai fatti o non piuttosto all’interpretazione, ha avuto una eco anche nella pubblicistica. Così alcuni giornali hanno a suo tempo riferito delle opposte posizioni su questo tema dello storico Renzo De Felice e del filosofo della politica Norberto Bobbio.
Th.W.Adorno, Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit op.cit. p.52.
Cfr. Giovanni Gentile, La filosofia di Marx, Firenze 2003, p.69, dove Marx nella terza glossa al Feuerbach esprime la tesi della interazione con la famosa frase che “l’educatore stesso deve essere educato”.
9 Th.W.Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt 1966 p.316; tr.it. Dialettica Negativa, Einaudi, Torino 2004, p.287.
10 Cfr. Eric J. Hobsbawm Il secolo breve Rizzoli, Milano 1995, p.124: ”Ma poiché la domanda non poteva tenere il passo con la produttività rapidamente crescente (si pensi agli anni d’oro delle industrie di Henry Ford), i risultati furono la sovrapproduzione e la speculazione”. E più avanti, p.132: ”Le previsioni di Marx sembravano essersi avverate come fu detto dinanzi alla stessa American Economic Asociation nel 1938”.
11 Nicola De Domenico Una fonte trascurata dei quaderni del carcere di A. Gramsci: il “labour monthly” del 1931 in “Atti della accademia peloritana dei pericolanti”, Messina, p.2.
12 Th.W.Adorno Negative Dialektik op.cit. p.317; tr.it cit. p.288.
13 Cfr. Jacob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1955.
14 Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Torino 1989.
15 Th.W.Adorno, Zur Lehre von der Geschichte und von der Freihet, Suhrkamp 2001, p.
16 Hans Mayer, Außenseiter, Frankfurt 1975; tr.it. I diversi, Milano1977.
17 Th.W.Adorno, Negative Dialektik, Frankfurt 1966, p.51; tr.it. cit.p.39.
18 Ibidem, p.396; tr.it.p.362:
19 Benjamin Walter, Über den Begriff der Geschichte, in GS Volume I/2, Frankfurt 1974, pp.693-704; tr.it. Tesi di filosofia della storia in Angelus Novus, Torino 1962, pp.72-83. Cfr. in particolare la IX tesi, p.697 s.;tr.it.p.76s.
20 Th.W.Adorno, Negative Dialektik, op.cit.p.314; tr.it.cit.p.286: “Lo spirito universale, un oggetto degno di definizione, dovrebbe essere definito come la catastrofe permanente”.
21 Th.W.Adorno, Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit, op.cit.p.136.
22 Th.W.Adorno, Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit, op.cit.p.137.
23 Th.W.Adorno, Negative Dialektik, op.cit.p.332s; tr.it.cit.p.303s.:
24 Th.W.Adorno, Zur Lehre von der Geschichte und von der Wahrheit, op.cit. p.164.
25 Ibidem, p.168.
26 Ibidem, p.176.
27 Karl Marx, Das Kapital,Berlin 1955, vol.I, p.7; tr.it.Il capitale, Roma 1956, vol.I/1, p.18.
28 Th.W.Adorno, Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit, op.cit.p.170.
29 Ho menzionato questa conferenza e ho scritto di storia naturale nel mio Per il concreto, Saggio su Adorno, Guerini, Milano 1994.
30 Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels in GS VI I/1, Frankfurt 1974, p.355; tr.it. Origine del dramma barocco in Opere, Vol.II, Torino 2001, p.215.
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ernesto rossi
Sunday, 28 April 2019 23:10
Sei un ragazzo superbamente preparato, per quel che le odierne Facoltà Universitarie consentono. Bravo, bravissimo! Non potrai trovare la soluzione effettiva se la cercherai "solo" in questi studiosi ormai resi antichi, dal fatto di non aver tenuto conto o di aver rifiutato Malthus, ovvero la Questione Ecologica. Adorno non risolve, così anche Marx, solo Benjamin rasenta la Questione, la quale rimanendogli sconosciuta, lo lascerà pessimista. Anche Galimberti resta pessimista dato che non opera l'ammissione della Questione, questa volta senza scusanti visto che è contemporaneo. La Storia procede appunto non in modo lineare, ad opera ci chi ha trovato un sistema valido, il quale proprio in quanto ha successo prepara il suo insuccesso. Oggi che siamo ai limiti globali, il tempo si ferma e con esso le guerre, ma non i conflitti, vissuti ovviamente come azioni di polizia e questo non solo nei confronti del Terzo Mondo. Certo esiste un problema politico anche, non si tratta solo della contabilità ecologica, che si risolve solo con il controllo delle nascite e quindi Adorno non risolve, perchè gli esclusi esisteranno comunque, i non nati... Unica possibilità di superare le costrizioni della necessità e che possono offrire una possibilità di libertà, intesa proprio come filantropia. Questo lo intendo come moto interiore, aldilà delle sistemazioni; Marx fù prima di tutto un filantropo. Quì non è possibile inserire link, per cui invito chi volesse cogliere il senso del discorso tenuto dal nostro bravissimo studente, seguire una conferenza divulgativa, tenuta da Umberto Galimberti, dal titolo - "Umberto Galimberti -L'illusione della libertà", che si può trovare direttamente su internet o su youtube. A te Pietro Carlo Lauro e a chiunque, consiglio un libriccino, "Malthus di J. M. Poursin e G. Dupuy, prefazione di Giorgio nebbia - ediz. Universale Laterza". Altri documenti ecologisti successivi, non sono validi, in quanto fuffa conservatrice o opera di sirene che intendono attirare soggetti al sostegno di ennesimi presidentini, esistono anche P:R: al soldo della Conservazione. Tanto ti/vi basterà comprendere la logica, restano aperte le soluzioni e chiare la viste su quel che già accade.
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iskratov
Saturday, 27 April 2019 11:38
''un rigoroso tabù ti ha vietato di frammischiare il reale con il possibile, infatti tu sei sempre stato kantiano, nonostante il nostro Hegel'' da Brief di Adorno a Horkheimer
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