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consecutiorerum

La dottrina della verità senza la dottrina della città

Per una critica della teoria heideggeriana della tecnica

di Roberto Finelli

Cademartori Dismissioni1. La de/formazione heideggeriana della «questione della tecnica»

Proporre visioni del mondo e dell’essere umano a partire dalla categoria o dal principio dell’Essere significa, come insegnava quel grande maestro di filosofia antica e di laicismo che è stato Guido Calogero, riproporre questioni improponibili ed arcaiche, che muovevano da metafisiche antiche legate alla transustanziazione ed ipostasi del verbo «essere», ossia di una parola, in un presunto fattore di realtà1.

Non a caso la storia della metafisica dell’Essere e della sua trascendenza si conclude con la filosofia moderna, specificamente con la Critica della ra- gion pura di Kant e la sua riduzione della realtà dell’essere all’esistenza, cioè alla percezione di un alcunché che si dà attraverso il modificarsi dell’apparato sensibile del corpo. Ma appunto, proprio a partire dall’estinzione del problema e della tematica dell’essere nella modernità e dalla sua riduzione a fantasma di antiche metafisiche e religioni, si può assai meglio intendere la poderosità dell’operazione culturale compiuta da Martin Heidegger nella prima metà del Novecento con la riproposizione del principio dell’Essere a principio di senso dell’intera realtà, umana e non umana, e insieme l’intento di far valere tale rinnovata dottrina dell’Essere come la massima espressione egemonica della filosofia dell’intero Novecento.

Com’è ben noto, Heidegger ha potuto compiere la sua gigantesca impresa, non attraverso una mera riproposizione dell’antico, bensì attraverso la sua partecipazione, a livelli assai rigorosi di acquisizione, alla fenomenologia di Husserl da un lato, quale teoresi moderna più avanzata sulla struttura della soggettività, e dall’altro alla tradizione della filosofia scolastica e del suo impianto ontologico, anche qui secondo modalità di studio e di conoscenza di grande estensione e profondità. Né v’è dubbio alcuno che la genialità del pensatore di Messkirch sia consistita proprio nella capacità di mediare queste due aree di competenza filosofiche, così lontane ed eterogenee tra loro, e di concepire in tal modo, prima, una originalissima fenomenologia ontologica della soggettività con Sein e Dasein e, poi, una metafisica della storicità dell’Essere nella seconda fase del suo pensiero.

Lo strumento fondamentale di tale originalissima mediazione è stata una profonda operazione di riformulazione del linguaggio, filosofico e non, che, attraverso un raffinato gioco di ripensamento ed invenzione di etimologie, ha consentito ad Heidegger di mettere in scena una sintesi di antico e moderno, di Essere ed Esserci, che senza quel dispiegamento di giochi linguistici ed etimologici certamente non avrebbe potuto aver luogo. Del resto proprio perché l’Essere di Heidegger è derivato, secondo la nostra prospettiva critica, da una tradizione arcaica come quella parmenidea, in cui parole sono state ipostatizzate e scambiate per cose, è solo agendo e intervenendo sul linguaggio che Heidegger ha potuto introdurre nella continuità del reale quella pretesa scissura e distanza tra piani, quella «differenza ontologica», che consente al suo principio dell’Essere di svelarsi nel momento stesso in cui si vela e di velarsi nel momento stesso in cui si svela.

Per altro, va aggiunto, che tutta la filosofia heideggeriana è stata concepita alla luce di un decisionismo radicale, dall’istanza cioè di una rottura con le linee di continuità della filosofia moderna, che ha condotto ad assegnare ad Heidegger la definizione di Führer della filosofia (1989) nel senso dell’essere la sua filosofia, non estrinsecamente, ma intrinsecamente, una prassi politica: ossia una rivoluzione e una destabilizzazione profondissima concernente tutti i modi e tutti i valori in cui l’uomo della cultura e della società occidentale ha provato, nel corso dei secoli, a pensare il mondo e sé medesimo. Vale a dire, come taluni hanno sostenuto, che il profumo di nazismo che continua ad aleggiare ancora, e di nuovo, attorno alla figura di Heidegger, quanto a rottura della storia e rifondazione palingenetica, prima che nell’appoggio al regime e nella celebrazione di Hitler, stia nella destinazione di fondo del suo pensare, volta, attraverso il fondamento di un Essere che è senza fondamento, a riscrivere con una metafisica ontologica il senso e il destino del mondo contemporaneo e della sua storia.

All’interno di tale valutazione esplicitamente critica, che in queste pagine si avanza, dell’opera complessiva di Heidegger, non poteva non assumere particolare rilievo la questione della «tecnica». Non solo perché la tecnica in Heidegger è tema centrale e filosofema costante del suo pensiero: quale dimensione ontologico-storica legata all’oblio dell’Essere e al dispiegamento, nella pienezza della contemporaneità, di quella metafisica che è cominciata, secondo Heidegger, già con Platone e con la riduzione nella classicità greca dell’Essere e della sua profondità ontologica alla finitezza e alla limitatezza dell’Ente. Ma anche perché per la maggioranza dell’intellettualità radicale dei nostri tempi la teoria della tecnica heideggeriana ha rappresentato la sliding door, la porta girevole, nella quale si è entrati per lo più marxisti e si usciti post-marxisti e/o antimarxisti: insomma pastori dell’Essere, aperti al suo invio destinale e al suo narrare poetico.

Da questo punto di vista è l’essenza della tecnica moderna e la definizione che ne ha proposto Heidegger come Gestell, come im-posizione, con la riduzione della natura a fondo (Bestand), che sembrerebbe maggiormente sollecitarci per un confronto con altre teorie moderne e contemporanee su tecnica e tecnologia2. Ma dato che la domanda sulla tecnica nel discorso heideggeriano implica un’ampia sezione dedicata alla filosofia antica, nella quale il termine greco τέχνη rimanda a una modalità della storia dell’Essere specificamente diversa da quella moderna, anche il nostro discuterne si distinguerà in due parti, la prima delle quali è appunto dedicata a téchne e téchnai nel mondo greco e alla de/formazione che di questo tema ha compiuto l’heideggeriana «Frage der Technik».

 

2. La physis come ordine morale

È alle opere raccolte nel cosiddetto Corpus Hippocraticum che ci si è rivolti tradizionalmente, nell’ambito degli studi sul pensiero antico, per trovare una trattazione sufficientemente elaborata e definita dell’uso e del significato di τέχνη già nel mondo greco tra gli ultimi decenni del V secolo a.C. e i primi del sec. IV3. In scritti come il Περί αρχάιης ιητρικής o il Περί αηρών υδάτων τόπων, tra gli altri, emergono in modo assai chiaro le caratteristiche attraverso le quali uno studioso come F. Heinimann ha avuto modo di compendiare la natura e la funzione delle téchnai.

Secondo lo studioso tedesco infatti nella cultura greca: 1) scopo di ogni téchne era quello di produrre qualcosa di utile, di efficace; 2) ognuna delle téchnai aveva un campo autonomo ma definito da limiti precisi, basati sulla sua specifica capacità o potenza (dynamis): come, nella medicina, la capacità di restituire la salute ai malati; 3) ognuna rimandava a una prassi il cui procedimento, era fondato su un sapere metodico, cioè su un quadro teorico di cognizioni accumulate e connesse secondo un ordine, secondo un logos; 4) ognuna, in quanto rimandava a un sapere non accidentale né casuale, era trasmissibile e insegnabile4.

Nel passaggio tra il V e il IV secolo a. C. lo sviluppo semantico del termine τέχνη e la sua applicazione a più campi dell’agire umano si era accompagnato ad una sempre più accentuata autonomizzazione del suo significato da un precedente orizzonte mitologico di divinità donatrici. Da dono degli dei, come Efesto o Atena, con la personalità e il potere sovrannaturale dei quali l’attività dei primi demiourgoì veniva animata e pressoché s’identificava, le téchnai s’erano venute facendo sempre più risultato e prodotto dell’attività umana. Secondo appunto quanto dice un celebre frammento di Senofane: «non dall’inizio gli dei rivelarono tutto ai mortali, ma col tempo cercando essi ritrovano il meglio»5.

Un passaggio da dono degli dei ad attività dell’uomo, che però non deve far dimenticare che in quella che è stata definita la concezione fi- sico-teologica dei princìpi dell’azione umana nella Grecia preclassica6, la volontà degli dei non differiva da un ordine secondo regole interno alla vita stessa della natura. Non perché la configurazione antropomorfa della religione olimpica non assegnasse umanità di passioni agli dei, fino all’ira, alla vendetta e all’arbitrio. Non perché sia nei poemi omerici che nell’opera di Esiodo, fino ad Eschilo e Sofocle, l’impotenza dell’essere umano, l’infelicità della sua vita non fossero più volte confermate e proclamate. Per cui non erano null’altro che gli dei che dispensavano beni e mali, assai frequentemente al di fuori di ogni considerazione di equità. Ma perché quella condizione di fatalità e di volubilità, per la quale il volere degli dèi rimaneva assai difficile da penetrare, sovente senza regola e senza motivo, valeva, di fondo, solo nella relazione tra dei olimpici ed esseri umani.

Giacché anche gli dei omerici erano subordinati a un potere più originario e a loro superiore che è quello della moira, del destino. Essi erano dèi per così dire dipartimentali, nel senso che ad ognuno di essi era assegnata una porzione della natura, un campo di azione, all’interno del quale ciascuno aveva una supremazia assoluta, ma che, per destino originario, non poteva oltrepassare, pena la messa in campo di una némesis, di una vendetta, compensatoria.

Su tale struttura morale dell’ordinamento del mondo quale veniva concepita nelle cosmogonie omerico-esiodee per cui era Dike, il principio di giustizia, ad organizzare l’ordine degli elementi e le varie regioni del mondo, con la pena che ne seguiva ad ogni trasgressione ha molto studiato e riflettuto la cosiddetta Scuola antropologica di Cambridge che, con J.E. Harrison (1850-1928), G. Murray (1866-1957), F. Macdonald Cornford (1874-1943) e A.B. Cook (1868-1952), ha particolarmente approfondito tale tema dell’ordine della natura, nel pensiero greco arcaico, quale ordine morale: ossia come la verità evidente e incontrovertibile del cosmo in quanto eo ipso principio di giustizia e di distinzione tra bene e male.

Per questi studiosi la moira non rimandava infatti a un destino individuale quanto invece a una necessità che serrava in sé tutto il vivente, l’intera physis. Un destino, che appunto originariamente assegnava parti (moira = parte), in quanto divideva il cosmo in zone di competenza nettamente distinte, al cui ordine sono assoggettati tutti i poteri individuali, sia umani che divini.

Così per la scuola antropologica cantabrigense, in particolare per la J.H. Harrison con il suo Themis. A Study of the Social Origins of Greek Religion (1912) e per F.M. Cornford con il suo From religion to philosophy (1912), il fatto che l’ordinamento della physis sul piano fisico fosse intrinsecamente morale, cioè governato da quelle medesime forze che colpivano la trasgressione morale, come le Erinni o Moire, era la testimonianza di quanto la religiosità epica ed olimpica, e, come subito vedremo, anche la prima filosofia naturalistica della Scuola di Mileto, non nascessero per autogenesi, come Atena dalla testa di Zeus. Bensì rinviassero a quella religiosità totemica che per secoli aveva preceduto e caratterizzato le comunità preletterate e che trovava nella divisione dipartimentale per clan e fratrie il principio primo dell’organizzazione sociale e, insieme, dell’intera articolazione, materiale e simbolica, dell’universo. In una continuità storica fatta ovviamente di profondissimi mutamenti, ma che pure consentiva, ad avviso dei ritualisti di Cambridge, di ritrovare nella religione olimpica, prima, e nella filosofia ionica, poi, la persistenza di quel mana che, come insegnavano gli studi etno-antropologici, nelle società primitive ordinava secondo tabù e secondo rigidissime prescrizioni morali, a partire dal divieto dell’incesto e dall’obbligo dell’esogamia, la distribuzione dei clan e la classificazione di uomini, animali e piante, di umano e non umano che ne derivava.

Benché noi ne parliamo come di una ‘personificazione’, la Moira è priva della caratteristica più importante della personalità: il fine individuale. Essa rappresenta la divisione del mondo in province; ma non è una dea che con un atto di volontà ne abbia progettato o creato l’ordine. È una rappresentazione puramente descrittiva dell’ordinamento cosmico che nulla aggiunge se non che la disposizione è necessaria e giusta. Se la si astrae dal fatto naturale, è una rappresentazione della necessità e della giustizia (devi e dovresti) della disposizione degli elementi. Il significato della nozione di destino si esaurisce qui.7

Tanto da poter sostenere lo stesso Cornford che anche la prima scuola di filosofia greca, il naturalismo ionico, si sia trovata a riformulare in termini razionali e discorsivi ciò che apparteneva a una visione prescientifica del mondo, ossia ad una rappresentazione dell’ordine cosmico la quale, attraverso e ben oltre la religione olimpica, era ben più primitiva degli stessi dèi. Lo strutturarsi della physis nella teorizzazione dei primi naturalisti (Talete, Anassimene e Anassimandro a Mileto, Empedocle in Sicilia) secondo articolazione generalmente in quattro elementi (acqua e terra, fuoco e aria) e connessione di essi secondo coppie di contrari (che potevano essere il caldo e il freddo, o l’umido e il secco) così come la tendenza di ogni contrario a invadere la provincia dell’altro e a farsene padrone, come, viceversa, il darsi di Amore e Pace quale bilanciamento ed armonia di poteri opposti e all’interno di ogni elemento quale attrazione del simile con il simile apparivano infatti riprodurre, secondo l’antichista anglosassone, il tema delle moirai, quali parti/destini, che strutturavano nelle società totemiche l’articolazione delle tribù in fratrie e il loro congiungersi/respingersi attraverso l’obbligo dell’endogamia e il tabù dell’incesto.

In tal senso è assai significativo il modo in cui è stato interpretato da Cornford quello che è pressoché l’unico frammento rimasto degli scritti di Anassimandro.

Le cose periscono nelle cose da cui hanno origine, secondo ciò che è ordinato; perché esse si rendono riparazione l’un l’altra e pagano il fio della loro ingiustizia secondo la disposizione del tempo.8

Il mondo molteplice nasce dall’indefinito, dalla cosa senza limiti (to ápeiron), che si separa e si distribuisce nelle regioni distinte e contrapposte, fino alla trasgressione dei rispettivi confini e alla depredazione reciproca, al fine di dar luogo agli esseri singolari. La nascita della cosa individuale è perciò sinonimo di ingiustizia e iniquità, la cui compensazione di pena è la morte, il ritorno di tutte le cose nell’indefinito (ápeiron) da cui esse sono nate. Nascere è un crimine che infrange l’ordine prestabilito il quale prima che fisico è un ordine morale. Ed appunto a proposito del carattere morale della physis così esplicitamente espresso nel frammento citato, per il quale gli esseri individuali sono subordinati a un destino che essi non hanno creato e contro cui nulla possono, Cornford può scrivere che: «Di sicuro sia Anassimandro che i suoi lettori avevano già in mente una rappresentazione tradizionale dell’ordine della natura, familiare a loro, quanto estranea a noi, che la nuova teoria riformulava solo in termini razionali»9.

Ora certamente questo non è il luogo per affrontare adeguatamente la questione, assai complicata e dibattuta, dell’inizio della filosofia e della sua storia e di quanto per ben impostarla sia verosimilmente necessario trovare le radici della filosofia nella non-filosofia che l’ha preceduta, ossia proprio in quel pensiero selvaggio che è oggetto precipuo delle discipline etno-antropologiche e che ha trovato negli studi sul totemismo di Lévi-Strauss e sulla magia di Marcel Mauss alcuni dei luoghi più elevati e più originali del suo sviluppo nel ‘900. E quanto quindi sia indispensabile, per ben concepire la questione dell’inizio, non credere verosimilmente a una modalità solo ingenua e naïf di quell’inizio o solo legata a una presunta eccezionalità e intelligenza del popolo greco, per contestualizzarla invece nell’ambito di quella cultura del magismo e della religiosità totemico-sciamanica che ha caratterizzato per secoli la vita delle popolazioni preletterate anche nel continente europeo.

Ma qui si è voluto solo brevemente accennare alla questione del cominciamento della filosofia, per evidenziare quanto, a nostro avviso, la teoria heideggeriana di ciò che è τέχνη nel mondo classico mostri i segni, profondi, di una forzatura e di una violenza ermeneutica ben premeditata quanto efficacemente svolta e costruita. Giacché, com’è ben noto, è «il lasciar-avanzare nell’avvento» il carattere fondamentale della téchne nel mondo greco antico secondo Heidegger. Ossia, ben diversamente dalla definizione moderna di tecnica come insieme di mezzi per raggiungere un certo fine, il fatto che la téchne antica non appartenesse alla sfera dell’utile bensì a quello del vero, nel senso peculiarmente heideggeriano di verità come alétheia (non-nascondimento): ossia di ciò che fa avvenire in quanto fa trapassare dalla non-presenza alla presenza, dal non essere all’essere.

Il far-avvenire concerne la presenza di ciò che di volta in volta viene all’apparire nella pro-duzione. La pro-duzione conduce fuori del nascondimento nella disvelatezza (das Her-vor-bringen bringt aus der Verborgenheit her in die Unverborgenheit vor). Pro-duzione si dà solo in quanto un nascosto viene nella disvelatezza.10

La téchne, come si esprime Heidegger, nella conferenza tenuta il 18 novembre 1953 alla Technische Hochschule di Monaco, non attiene all’an- tropologia quale capacità dell’essere umano di predisporre strumenti e mezzi per uno scopo determinato, bensì concerne l’ontologia, quale nesso di non-essere ed essere, ossia quale emergenza alla presenza, quale avanzarsi nell’essere di qualcosa che, per Heidegger prima non c’era, che non era appunto presente alla presenza. «Ogni far-avvenire di ciò che – qualunque cosa sia – dalla non-presenza passa e si avanza nella presenza è poiesis, pro-duzione (Hervor-bringen11. Così, in tale orizzonte, anche la dottrina aristotelica delle quattro cause (causa materialis, formalis, finalis, efficiens) va intesa come insieme dei modi che si fanno responsabili del liberare ciò che è nascosto, al fine di lasciarlo avanzare nell’avvento.

Ma è appunto tale dispositivo ontologico di una realtà da intendersi come disvelamento e come schiudentesi instaurarsi e far-apparire di alcunchè nell’orizzonte dell’essere – che appare a chi scrive assai lontano dalla disposizione generale dell’uomo greco (per esprimerci qui in modo assai schematico e sintetico) a vedere invece la realtà permanere nella sua struttura di fondo e ad essere contemplata come tale in quanto verità. Contrasta cioè con l’attitudine fondamentalmente visivo-contemplativa della spiritualità greca a riconoscersi e a riflettersi in un kosmos strutturato secondo ordine e secondo invarianze. Tanto che da tale peculiare natura della realtà derivava immediatamente per il greco antico la natura della verità, in una simultaneità che saldava insieme, senza mediazioni e distanze, ciò che era reale con ciò che era vero12.

Vale a dire che era proprio il permanere e lo strutturarsi del reale secondo kosmos, cioè alla luce di Dike e Peras (Giustizia e Limite) ovvero il suo intrinseco ordine e la sua chiarezza di ordito – a far sì che la verità, per esser tale, non dovesse altro che riflettersi e adeguarsi a quella realtà: in una unità e corrispondenza tra piano del reale e piano del vero che ha avuto validità verosimilmente per tutta la cultura greca, fino a includere nella sua ispirazione unitaria finanche quella fortissima separazione tra ontologia e logica che ha caratterizzato la filosofia aristotelica.

Per cui, assai diversamente da quanto ha teorizzato Heidegger, una dimensione del nascondersi/svelarsi nel mondo greco poteva venire a dipendere solo dagli occhi della mente di colui che guardava ed apprendeva il reale, deformandosi lo sguardo di costui per i più vari motivi d’offuscamento e di errore. In tal senso ciò che appare prevalere nei primi filosofi e naturalisti greci, come motivo dominante della physis, non era il disvelare, il portare allo scoperto ciò che sarebbe stato originariamente nascosto, l’irrompere sul piano dell’essere, quanto invece la metábasis, la trasformazione: ossia la composizione/scomposizione/ricomposizione di elementi primari. Dunque non un passaggio dal al no, dal non-essere all’essere, quanto invece un nascere e un perire delle cose, costituito dall’alternanza di mescolanza e separazione nel vario aggregarsi e dissolversi dei componenti.

 

3. L’Essere dell’eleatismo come impedimento e opposizione alla cultura delle téchnai

È dunque la teoria della verità come disvelamento ontologico di un essere che fuoriesce dalla latenza del non-essere e che dal nulla giunge alla presenza dell’essere a costituire il cuore dell’interpretazione heideggeriana di ciò che sia stato il significato di τέχνη nel mondo greco, ma a rappresentarne, per noi, proprio il luogo maggiore di aporia e di improponibilità.

Perché ciò che invece appare sempre di più, sulla base di molti studi sul pensiero antico, anche di pubblicazione più recente, è che la messa a tema di una riflessione sulle téchnai, sul loro ambito di azione e di efficacia, come sulla loro costituzione metodologica, abbia cominciato a svilupparsi e ad autonomizzarsi nella Grecia classica, solo e proprio in opposizione all’ontologia dell’Essere e quindi in opposizione a quella filosofia eleatica che non poco peso ha avuto nelle vicende del VI-V secolo a.C. e, di lì, ovviamente anche nella storia di molta filosofia posteriore.

Se si analizzano infatti i testi sulla medicina del cosiddetto Corpus Hippocraticum che si collocano tutti grosso modo nella seconda meta del sec. V a. C. (in particolare Περί τέχνης, Περί αρχάιης ιητρικής, Περί φύσεως ανθρώπου) risulta quanto mai evidente che la rivendicazione della legittimità e del valore della medicina come pratica empirica, fondata sull’esperienza ma anche sull’organizzazione sistematica delle conoscenze, e dunque su procedure metodiche, aveva avuto come uno degli oggetti essenziali di critica l’eleatismo, che da Parmenide fino a Melisso, aveva teorizzato il monismo dell’Essere e di conseguenza, soprattutto con Melisso, quella teoria dell’Uno che impediva di valorizzare la molteplicità dell’esperienza e del suo divenire di contro all’assolutezza dell’Essere.

L’assolutizzazione e la sostantificazione nel poema di Parmenide dell’espressione linguistico-grammaticale «che è» (οπως έστιν) nel principio ontologico dell’«essere» (τ´εόν), a motivo di una ritualità linguistica ancora molto condizionata dal magismo, aveva condotto infatti, per il divieto assoluto anche sul piano del dire della possibilità di pronunciare il non essere (ουκ έστιν), ad una configurazione del tutto compatta dell’assolutezza ontologica dell’essere, senza variazione alcuna nello spazio e nel tempo e senza nessuna concessione al divenire.

[…] essendo senza nascita è anche senza morte, / è intero e compatto, è tutto d’un getto, non si muove d’un’ombra e non finisce mai./ Donde infatti potrai mai cercar che sia nato /o che abbia avuto accrescimento? Da quel che non è non ti lascerò

/né dirlo né pensarlo, chè non dicibile né pensabile / è che non è. […] / E non è diviso, perché è tutto uguale. / Né in alcun punto soverchia, in modo da ostacolare la sua omogenea coesione, / né in alcun punto cede, bensì è tutto pieno di quel che è. / Con ciò è tutto compatto: quel che è confina infatti con quel che è. / Inoltre immoto e immutato nei termini dei grandi legami / è, senza inizio e senza cessazione, poiché la nascita e la morte / ben lungi furono respinte, e le ricacciò la convinzione verace. / Lo stesso restando in sé giace nel luogo stesso / e così resta saldamente anche in seguito: infatti la robusta Ananke / lo tien legato nel confine che tutto intorno lo serra, giacché è legge che quel che è non sia privo di fine. / Infatti non manca di nulla: se invece lo fosse, mancherebbe di tutto. / Poiché dunque c’è un confine ultimo, è compiuto / da ogni lato, simile al volume di ben rotonda sfera, / dal centro pari a tener fronte in ogni senso: esso infatti per nulla maggiore / e per nulla minore può essere, in un luogo più che in un altro. / Non c’è infatti quel che non è, che possa farlo cessare dal giungere / ad egual punto, né quel che è lice che sia di quel che è /qui più e là meno, giacché è tutto immune. /Dove infatti è rispetto ad ogni parte uguale, in ugual modo incorre nei suoi confini.13

Così nel τό εόν, nell’essere del poema di Parmenide, per l’impossibilità di pensare e dire il non essere, non si può dare passaggio alcuno dal non essere all’essere (nascere) né dall’essere al non essere (morire). Può esservi solo identità assoluta, senza presenza alcuna e funzione dell’alterità. Per cui non v’è né nascita né morte, né alterazione e divenire possibile che possa ammettersi e prospettarsi all’interno della sua pienezza di perfezione. Anche se va detto che è più propriamente a Melisso di Samo, che non a Parmenide di Elea, che bisogna far risalire, in modo più dichiarato ed esplicito, l’estraniarsi dell’ontologia dell’Essere dal piano empirico delle téchnai, con specifico riferimento alla medicina. Giacché è Melisso che, traducendo l’impossibilità parmenidea di pensare e di dire il non essere nell’assunto dell’ουδέν εκ μηδενός (nulla nasce da nulla), ha valorizzato assai più la dimensione dell’infinità spaziale e temporale dell’Essere, il quale non può essere confinato in alcun confine perché, se limitato, confinerebbe con altro. E da tale illimitatezza ha dedotto quella connotazione dell’unicità e dell’immobilità dell’Essere che, ancor più dell’omogeneità parmenidea dell’Essere con sè medesimo, esclude dall’Assoluto ontologico ogni possibilità, finanche, di patire dolore e tristezza.

1. In tal modo, dunque, è eterno e infinito e uno e uguale tutto quanto. 2. Né potrebbe perire né diventar più grande né modificarsi nella sua natura o nel suo ordinamento, né sente dolore o noia: ché, se andasse soggetto ad una di queste cose, non sarebbe più uno. Se infatti si altera, è necessario che quel che è non sia uguale, ma si distrugga quel che già è e venga alla luce quel che non è: ammesso dunque che si alteri pur d’un capello in diecimila anni, si distruggerà tutto quanto nella totalità del tempo. 3. Ma neanche è possibile che esso muti ordinamento: l’ordinamento che già è infatti non perisce, e quello che non è non viene alla luce […]. 4. Né soffre dolore, ché, soffrendolo, non sarebbe totale: infatti una cosa che soffre dolore non potrebbe essere eternamente, né ha la stessa vigoria di una cosa sana. Né sarebbe omogenea, se soffrisse dolore: ché lo soffrirebbe solo per qualcosa che o le venisse meno o le sopraggiungesse, e così non sarebbe più uguale. Né quel che è sano potrebbe soffrir dolore: infatti perirebbe quel che è sano e nascerebbe quel che non lo è. 6. Quanto poi al soffrir tristezza, il discorso è uguale a quello circa ciò che soffre dolore.14

Ora proprio tale concezione dell’Essere come principio di massima perfezione e di assoluta inalterabilità e compattezza, con la svalutazione dell’e- sperienza concreta e sensibile che ne seguiva di contro alla validità assoluta di un principio metafisico e metasensibile, non poteva che essere estranea ed opposta a quella cultura e pratica delle tecniche che s’era venuta sviluppando nel mondo greco, includendo nella sua estensione la Jonia e la Magna Grecia e che come, dà ben testimonianza il testo ippocratico sull’Arte (della medicina), viveva di una profonda compenetrazione tra esperienza e ordinamento secondo generalizzazioni ed invarianze dei dati sensibili, ossia tra aísthesis ed epistéme15.

Non che Elea, la città di Parmenide, non fosse aperta ai traffici e ai commerci marittimi, con le tecniche navali che ne erano implicate, e non che Samo non fosse profondamente attraversata dal commercio dell’Egeo e dalla prossimità alla cultura jonica, come dà conto anche il comando della flotta che fu assunto da Melisso nella guerra contro Atene, ma Parmenide e Melisso, soprattutto il primo, si iscrivevano in una tradizione culturale aristocratica, di carattere oracolare e iniziatico, che era affidata, com’è nel poema di Parmenide, alla trasmissione orale e alla forma poetica, in cui la verità era ancora la partecipazione a una rivelazione divina e in cui la forza comunicativa dell’espressione verbale conservava ancora una valenza significativa fondamentale.

Così, ben diversamente dalla valorizzazione e dalla riproposizione heideg- geriana della tematica dell’Essere, appare che, viceversa, sono state proprio la critica e il superamento dell’eleatismo e del principio monistico del τό εόν ad assicurare e legittimare le téchnai come pratiche che attraverso procedimenti metodici, e quindi generalizzabili e ripetibili, dovevano tener conto dell’osservazione dell’esperienza e della sua variabilità: come accade, al massimo, nella rivendicazione della medicina come sapere autonomo sia dalla magia che dalla filosofia.

Del resto, riproponendo anche su questo tema l’ipotesi ermeneutica avanzata da Guido Calogero, si potrebbe aggiungere che buona parte della stessa filosofia, posteleatica e postnaturalistica – pensiamo ovviamente in primis a Platone ed Aristotele – ha cercato poi, a ben vedere, di affrancarsi dal mitologema del monismo dell’Essere e dagli effetti di una concezione arcaica del linguaggio ed ancora esposta al magismo, che stava a base, come abbiamo detto, di quella ontologia che nulla concedeva al mondo del concreto e del divenire. Giacché è proprio in tale prospettiva, di un affrancamento dall’obbligo di pensare e dire solo l’essere e, insieme, dal divieto di poter pensare e dire in qualsiasi modo possibile il non-essere, che vanno letti, secondo l’insegnamento calogeriano, sia l’interpretazione che Platone ha avanzato nel Sofista del non-essere non come «opposto» ma come «diverso» dall’essere, sia la teorizzazione aristotelica dell’essere che si dice in molti modi (τό όν πολλαχώς λέγεται).

Di contro alla compattezza ed unicità dell’essere eleatico, la téchne, secondo quanto veniva argomentato negli scritti più antichi del Corpus Hip- pocraticum, ha un campo di agire che per essere efficace deve essere ben delimitato, definito da un campo su cui si può intervenire, senza pretendere di curare tutto col volgersi anche a pazienti che ormai sono già vinti dalle malattie. La medicina si doveva distinguere da un lato dalla magia e dalla superstizione, non potendo essa credere all’operare di τύχη, ossia del caso, quanto invece a un complesso di ragioni e conoscenze consolidate che potessero dar conto dei fenomeni osservati. Come dall’altro si doveva distinguersi dalla filosofia, sia per quanto concerneva la concezione eleatica dell’unità e della totalità dell’essere, sia rispetto alle teorie del naturalismo jonico ed empedocleo, che facevano riferimento a mere ipotesi, non confermate dall’esperienza, riguardo all’arché che sarebbe stato alla base del tutto, così alla quadripartizione degli elementi e dei fattori in cui in genere quell’arché avrebbe preso corpo corpo e articolazione.

Per chi sia uso ad ascoltare quanti trattano della natura umana oltre la zona di essa pertinente alla medicina, il presente discorso non ha interesse: non affermo infatti assolutamente che l’uomo sia aria, o fuoco, o acqua o terra, o qualcos’altro che non sia chiaramente presente nell’uomo: ma lascio tali asserzioni a chi vuol farle. Costoro mi sembrano però di non disporre di corrette conoscenze: tutti infatti seguono la stessa dottrina, ma non affermano le stesse cose; e pur traendo dalla dottrina le stesse conseguenze (stabiliscono infatti che ciò che è, è alcunchè unitario, e che questo è l’uno e il tutto), non concordano però sui nomi: l’un di essi dichiara che codesto ‘uno e tutto’ è l’aria, l’altro il fuoco, l’altro ancora l’acqua l’altro la terra, e ciascuno correda il suo discorso di testimonianze e prove, che sono nulla. Giacché pur seguendo la stessa dottrina non dicono le stesse cose, è chiaro che non conoscono nulla. E se ne rende soprattutto conto chi assiste ai loro contraddittori: venendo a contraddittorio gli stessi uomini di fronte allo stesso pubblico, mai prevale tre volte di seguito lo stesso oratore, ma ora questo ha la meglio, ora quello, ora chi abbia la lingua più sciolta davanti alla folla. Eppure sarebbe giusto che chi proclama una corretta conoscenza delle cose facesse sempre prevalere il proprio discorso, se la sua conoscenza verte sulla realtà e vien correttamente manifestata. A me pare invero che tali uomini si demoliscano reciprocamente nelle parole dei loro stessi discorsi, e confermino all’opposto la teoria di Melisso.16

Di contro a ipotesi troppo astratte, che con la loro inverosimiglianza finivano col confermare il monismo eleatico, il punto di riferimento, il criterio di verità, della medicina doveva essere il corpo dell’ammalato e l’evoluzione della sua aísthesis, del suo sentire, con cui doveva entrare in contatto la capacità di sentire del medico, unita al quadro di cognizioni che egli possedeva. L’hypóthesis, il postulare princìpi ed archái che non potevano essere controllati attraverso l’esperienza e un intervento pragmaticamente utile, appartenevano alla filosofia o potevano essere ammessi solo nell’osservazione e nello studio dei fenomeni celesti o della natura sotterranea17. Ma, si affermava, i postulati non appartengono alla medicina in quanto téchne, la quale, com’era descritto in testi quali De aere, aquis et locis e il Prognostico, ha bisogno di indagare come suo oggetto fondamentale di conoscenza, oltre che il corpo del paziente e la capacità di percepirlo da parte del corpo del medico18, anche il periéchon, cioè l’ambiente climatico, geografico e socio-politico, i tipi di alimentazione usati, la collocazione orografica, la qualità dei venti e delle acque, al fine di meglio precisare e diagnosticare l’individualità di ogni caso.

Lontana dalle concezioni di una filosofia troppo generalizzante sulla natura dell’uomo e del cosmo, la medicina si basa sulla prognosi, cioè su una ricostruzione di tutto il processo passato della malattia, sull’accertamento della condizione presente e sulla previsione delle possibili evoluzioni del futuro. E come si afferma nel De veteri medicina, la salute, seguendo la dottrina di Alcmeone di Crotone19, consiste in un equilibrio di qualità e di coppie di contrari, che non limitate ai quattro elementi del naturalismo jonico od empedocleo, devono congiungersi e mediarsi tra loro, senza che nessuna prevalga sull’altra20, e secondo una molteplicità di relazioni e variazioni di accadimenti, della cui peculiarità il bravo medico deve provare ogni volta a riconoscere la struttura causale.

Eppure, nei testi ippocratici, non si dava distanza tra physis e téchne, giacché la téchne, si affermava, anziché essere un agire solo artificiale, è in continuità con la natura. La sua epistéme, il suo logos, consistevano nella conoscenza e nell’adeguazione alle forze, alle dynameis, della physis. E di conseguenza nella capacità pratica di saper utilizzare al momento opportuno, quando conveniva e come conveniva, quelle forze.

Per questo la techne era limitata e trovava nel limite la fecondità del suo operare: proprio perché il limite era costituito da quel sistema di essenze e di poteri che strutturava oggettivamente il suo campo d’azione e che impediva appunto che essa presumesse di sconfinare in un potere infinito che sarebbe tornato a proporre pratiche magiche e sovrannaturali.

 

4. I sofisti: la tecnicizzazione” di tutte le sfere dell’agire

Quanto fin qui abbiamo detto ci esorta a sottolineare con forza quanto l’interpretazione heideggeriana della téchne greca, concepita quale un modo di agire legato al disvelamento, abbia mirato assai più agli arcaismi del mondo eleatico e a una concezione aristocratico-sacrale del sapere che non alla genesi reale delle pratiche e del significato delle téchnai nella Grecia del V e IV sec.: abbia mirato cioè assai più a un tacito sovrapporsi o implicarsi di senso tra verità come disvelamento e verità come rivelazione che non al faticoso emergere, nel passaggio del mondo greco da una cultura arcaica alla cultura classica, di pratiche istituite su un nuovo modello di sapere, che viveva della fecondità del nesso tra osservazione empirica e una teoria basata su ricorrenze e invarianti, la quale in tal modo veniva autonomizzandosi da una sapienza istituita sull’autoritarismo della tradizione o su un naturalismo ancora parzialmente esposto a istanze magico-analogiche.

Ma è soprattutto l’assenza nel discorso heideggeriano di ogni riferimento ai sofisti e al loro ruolo imprescindibile nell’intendimento di ciò che furono le téchnai nell’antichità greca classica a rivelare quanto la per qualche verso giusta intuizione di Heidegger, che il significato di téchne non rimandasse nel mondo greco a una dimensione di sola produzione e strumentazione materiale, sia, a ben vedere, curvata e piegata secondo una presupposizione metafisico-ontologica che la allontana profondamente dal vero cuore, storico-filosofico e storico-sociale, della questione.

È con la sofistica che infatti che il termine e il concetto di téchne viene largamente utilizzato e teorizzato, assumendo un particolare rilievo sociale e culturale, testimoniando per altro che la riflessione sulle téchnai era divenuta nella Grecia del V sec. tema centrale, anche a seguito dell’inclusione sempre maggiore degli artigiani e dei ceti produttivi nelle strutture economiche e politico-amministrative della polis greca (si pensi ovviamente soprattutto all’Atene di Sofocle e di Clistene).

Ma già con l’atomismo di Democrito, a dire il vero, si era giunti alla teorizzazione dell’autonomia delle téchnai da ogni oblatività divina e alla loro genesi interamente umana, mossa dal bisogno, dalla fragilità naturalistica degli esseri umani e dal loro riunirsi in gruppi sociali.

Linguaggio, società, religione e tecniche, com’è verosimilmente affermato nella sua opera intitolata Mikros Diakósmos, connotano per il pensatore di Abdera la storia delle origini della specie umana e della nascita della vita associata. È la paura della sopravvivenza in un ambiente ostile e molto più forte dell’umano a far nascere la necessità della vita e del linguaggio, la cui natura convenzionale e il cui primo formarsi coincide con l’organizzarsi in società dei primi uomini. Ma un prodotto insostituibile della evoluzione civile sono anche le tecniche messe in moto da un bisogno che, sollecitando le doti naturali dell’uomo, rende possibile «l’apprendimento di ogni cosa a quell’essere vivente ben dotato che ha per cooperatrici in ogni cosa le mani, la ragione e la perspicacia dell’anima»21.

La compresenza di manualità e di riflessività nell’essere umano lo rende infatti capace di reagire all’ambiente naturale estraendone i lati utili e vantaggiosi e limitandone quelli negativi e svantaggiosi, per cui si dà luogo a una coerenza e a una continuità tra uomo e natura all’interno della quale le tecniche traggono per mimesi dal mondo naturale lo stesso loro procedere e modo di operare: «Noi siamo stati allievi degli animali nelle tecniche più importanti: dal ragno nel tessere e nel rammendare, della rondine nella costruzione delle case, e degli uccelli canterini, del cigno e dell’usignolo nel canto con l’imitazione»22.

In tal modo, nella sua lotta per affrancare quanto più possibile l’essere umano dalla paura e nel suo convincimento che il progresso fosse legato profondamente, anziché ad un inconcepibile intervento divino, al sapere e all’educazione, Democrito vedeva nelle tecniche uno scambio fondamentale tra uomo e natura. Nel quadro del suo naturalismo, dove nulla si crea e nulla si distrugge e dove dunque non si va mai dal non-essere all’essere23, le tecniche si approssimano a intendere e a replicare quelle configurazioni dei movimenti degli atomi che nel loro associarsi generano nelle loro composizioni finali, senza alcuna forza ad essi esterna, i vari enti della realtà. Come ha ben scritto G. Cambiano:

La physis di cui Democrito parla nel quadro dello sviluppo della civiltà è dinamica, cioè procura bisogni e sollecita trasformazioni: ed è in base a questa concezione dinamica della natura, come scambio continuo tra uomo e ambiente, che Democrito può distinguere una serie di fasi della storia umana.24

Del resto era solo all’interno di un orizzonte del tutto causale-meccanicistico come quello democriteo, in cui, senza presenza alcuna di finalismo o di volontà esterna, gli enti naturali venivano a comporsi dei movimenti e delle forze intrinseche ed originarie negli atomi, che poteva nascere una tale visione delle téchnai, che ne faceva un fattore insostituibile di civilizzazione e che contemporaneamente le sottraeva alla sottovalutazione e alla disistima in cui il lavoro manuale del demiourgós era tenuto in una società a forte dominanza oligarchico-aristocratica.

Ma, come si diceva, è propriamente con i sofisti che alle téchnai viene riconosciuto valore e legittimazione all’interno dell’orizzonte culturale greco. Così come dobbiamo propriamente ai sofisti una genesi di quel significato non solo materiale/produttivo che il mondo greco classico del V° sec. ha assegnato al termine di téchne e che è stato occasione per Heidegger di leggere la questione della tecnica come propria non tanto di una prassi strumentale ed efficace di risultati quanto invece come una operazione di verità e come un «modo del disvelare»25. Giacché la téchne per eccellenza, oggetto della competenza e dell’insegnamento dei sofisti, non è una tecnica materiale, ma è la téchne politikè, che possiamo tradurre come la tecnica che insegna a ben vivere nella polis.

Come afferma Protagora nell’omonimo dialogo platonico:

(Protag.) L’oggetto del mio insegnamento è l’accortezza negli affari domestici – come amministrare la propria casa nel modo migliore e negli affari della città – come essere abilissimi a parlare e ad agire per il governo della città. (Socr.) Se seguo il tuo discorso, dissi, mi pari che tu parli della tecnica politica e garantisca di formare buoni cittadini. (Prot.) Proprio questa , Socrate, rispose è la professione che io esercito”(Protagora, 318 e – 319 a).26

La téchne politikè non concerne nessuna abilità manuale bensi concerne la capacità di ben decidere sia nell’ambito dell’oíkos che in quello della polis. Ma è soprattutto quest’ultima, come conferma lo svolgimento dell’intero dialogo, a costituire l’oggetto e il campo di competenza della téchne sophistikè: a formare cioè il buon πολίτης nella complessità dei suoi ruoli, come portatore di un parere e di un voto nelle assemblee, come amministratore nel ricoprire una carica pubblica, come soldato nella difesa dai nemici esterni. Del resto già all’inizio del dialogo, Protagora, argomentando «che la tecnica sofistica è antica»27 (Protagora, 316 d) in quanto si è dissimulata sotto le spoglie della poesia di Omero, o della mistica di Orfeo e Museo, o dell’arte della ginnastica, o della musica, sembra far riferimento al fatto che oggetto della sofistica è sempre stata la paideia, l’educazione, potremmo dire, con linguaggio moderno, secondo le arti liberali, e non manuali, di tutti coloro la cui virtù prima doveva essere l’areté: quale virtù dell’arte di guida e comando, prima, nelle società a statuto oligarchico-nobiliare, e quale capacità di vivere e partecipare nelle istituzioni della polis, dopo.

Anche nel Gorgia per altro la specificità della tecnica del sofista fa riferimento a ciò che si compie attraverso il discorso e che non implica alcuna relazione con la manualità e con alcun genere di lavoro manuale. La retorica infatti, oggetto dell’insegnamento di Gorgia, è tecnica dei discorsi e tutta la sua attività ed efficacia si svolge διά λόγον: lavora cioè sulla dy- namis intrinseca al linguaggio, sulla sua grande forza (μέγας δυνάστης), capace, nello spazio dell’assemblea pubblica, di persuadere e di far valere un discorso, un lógos sugli altri lógoi.

Ma comprendere tutto ciò significa ovviamente dar rilievo in tutta la sua portata all’evento storico dell’apparizione della polis, con i suoi inizi nell’VIII-VII sec. e con il suo apogeo nel V-IV ed ovviamente sottolineare il passaggio epocale che si gioca in quel periodo da una città fondata ancora sul primato dell’acropoli e delle grandi famiglie aristocratiche, che stringevano insieme potere economico e potere sacerdotale-politico, ad una città fondata sull’agorà e l’assemblea e sulla partecipazione dei cittadini alle sue istituzioni, in cui non è più la forza della tradizione, della durata nel tempo, ad essere criterio di norma ma la forza di convincimento di un logos che si svolge attraverso la potenza delle parole. Come ha ben scritto J.-P. Vernant:

Il sistema della polis implica prima di tutto una straordinaria preminenza della parola su tutti gli altri strumenti del potere. Essa diventa lo strumento politico per eccellenza, la chiave di ogni autorità nello Stato, il mezzo di comando e di dominio su gli altri. […] Il linguaggio non è più la parola rituale, la formula giusta, ma il dibattito contraddittorio, la discussione. Presuppone un pubblico, al quale esso si rivolge come a un giudice che decide in ultima istanza, per alzata di mano, tra i due partiti che gli sono presentati: è questa scelta puramente umana che misura la forza di persuasione rispettiva dei due discorsi, assicurando la vittoria di uno degli oratori sul suo avversario.28

Così nel passaggio dalla cultura dell’acropoli a quella dell’agora è il modello di verità che è venuto progressivamente mutando. Perché nel sistema della polis la trasmissione dell’ordine dei valori non avviene più attraverso una parola iniziatica, profetico-oracolare, come accade nei versi omerici del poema di Parmenide, o con le tavolette d’oro su cui Eraclito, ο σκοτεινός (l’oscuro), scrive il suo logos, depositandole nel tempio di Efeso, o secondo i vari livelli iniziatici della scuola di Pitagora. Non si tratta più di una verità che si disvela solo a pochi rimanendo velata ai più. Perché ora la parola è divenuta pubblica e, come tale, deve derivare la sua pregnanza di verità non dall’autorità della tradizione e dalla sua identità invariata nel tempo ma dalla consequenzialità logica del suo argomentare e della sua connessione discorsiva. Anche perché il sistema della polis si è sviluppato all’interno di una civiltà che ha ormai superato in buona parte la trasmissione della sua cultura attraverso comunicazione e ripetizione orale, approdando pienamente e definitivamente alla scrittura, con la oggettivazione e spersonalizzazione che la fissazione nel documento scritto comporta rispetto alla dizione narratologica del sapere.

Ora appunto la paideia dei sofisti è pubblica nel duplice senso che il sofista offre la sua prestazione a chiunque disponga di denaro e che la polis è l’ambito di uso e di applicazione della sua sophía. I sofisti già di per sé sono personaggi pubblici in quanto spesso hanno avuto funzioni politiche. Protagora avrebbe redatto la costituzione della colonia panellenica di Τούροι nella Magna Grecia italica, come sappiamo che Ippia, Gorgia e Prodico sono stati ambasciatori della loro rispettiva città d’origine. Ma soprattutto il loro insegnamento è volto a che ciascuno dei loro uditori possa esprimere al meglio il proprio valore, la propria areté, nell’ambito della vita della polis. In tale prospettiva interpretativa è evidente che il celeberrimo mito di Protagora nell’omonimo dialogo platonico assume un valore esplicativo fondamentale. Com’è noto il mito narra che il titano Epimeteo nella distribuzione delle doti e della capacità di vita attribuite a ciascuna specie animale, affinchè tutte avessero in giusta proporzione possibilità di sopravvivenza e conservazione, aveva dimenticato l’essere umano, il quale si era trovato «nudo, scalzo, senza coperte e inerme»29 (Protagora, 321 c).

Per rimediare a tale fragilità e impotenza, l’altro titano Prometeo ruba il fuoco, cioè l’abilità tecnica, ad Efesto e ad Atena: e il genere umano «articolò ben presto con tecnica voce e parole, inventò abitazioni, vesti, calzature, coperte e gli alimenti che nascono dalla terra»30 (Protagora, 322 a). Ma le tecniche non bastavano. Potevano garantire il procurarsi il cibo, ma non la salvezza dalle fiere, visto che gli uomini vivevano dispersi e isolati, senza la salvaguardia del gruppo e della vita sociale.

Pur essendo così forniti, in principio gli uomini vivevano dispersi e non esistevano città; perivano quindi uccisi dalle fiere, dato che erano in tutto più deboli di esse: la tecnica artigianale bastava per aiutarli a procacciarsi il cibo, ma era insufficiente nella lotta contro le fiere, perché essi non possedevano ancora la tecnica politica, di cui è parte la tecnica di guerra (Protagora, 322 a-b). 31

Eppure anche la creazione delle città e delle forme di vita associata si era rivelata insufficiente, in quanto fondata solo sulle tecniche manuali e produttive e sulla divisione del lavoro. Gli mancava la tecnica politica della convivenza e appunto per questo Zeus assegnò ad Ermes, il messaggero degli dei olimpici, di portare nella città il rispetto e la giustizia, ossia le virtù della sapienza politica che insegnano e garantiscono l’arte della convivenza nella città. Con l’ulteriore precisazione che di questa tecnica politica dovevano partecipare tutti e non solo pochi, come accadeva invece con le altre tecniche e con la divisione del lavoro che le caratterizzava.

Dalla esposizione platonica di questo mito, che verosimilmente corrispondeva a un testo dello stesso Protagora dal presumibile titolo Intorno alla condizione originaria dell’uomo, si evince quanto per il sofista di Abdera fosse chiaro che ciò che distingue l’essere umano dall’animale è la tecnica, la cui funzione è quella di salvare e conservare la vita. E che senza uscire dalla condizione originaria della natura e senza accedere al progresso delle tecniche in generale e poi, ulteriormente, alla tecnica della convivenza nella città, non ci sarebbe stata esistenza e storia della razza umana.

Dunque eccellenza della politiké areté, della tecnica politica, su tutte le altre, con la valorizzazione della retorica, dell’arte del discorso che ne conseguiva, ma contemporaneamente valorizzazione di tutte le tecniche, nei più diversi campi, quanto a possibilità di assegnare procedure metodiche e regolate a pratiche del vivere contro una rivendicazione di mera esperienza e di assegnazione alla casualità dell’agire umano, per non dire di ogni iscrizione nel magismo.

Giacché proprio in tale progetto, di propugnare una tecnicizzazione che si estendesse a tutte le sfere dell’agire umano, si potrebbe vedere la dimensione unitaria di un movimento, come quello dei sofisti, che appare segnato da figure invece fortemente individuate e indipendenti tra loro. In tal senso si ricordi che nel catalogo di Diogene Laerzio viene assegnata a Protagora la stesura di una téchne eristiké, di un’arte cioè dell’eristica, e che verosimilmente la quarta sezione delle Antilogie (Αντιλογίαι) del sofista di Abdera può aver avuto un titolo complessivo Περί τεχνών, di cui dovevano far parte il Περί πάλης (Intorno alla lotta), e il Περί των μαθήματων (Intorno alla matematica). Ma è l’insieme di entrambi i libri delle Αντιλογίαι che, attraverso la contrapposizione di due tesi contrarie, testimonia, dell’ampiezza del campo d’indagine di Protagora che si articola secondo i quattro temi fondamentali, che sono 1) intorno agli dèi; 2) in- torno all’essere; 3) intorno alle leggi e al mondo della polis; 4) intorno alle téchnai.

Per cui, ritornando alla ferma distinzione tra εμπειρία e τέχνη, tra mera esperienza e prassi basata su sapere metodico, o tra τέχνη e τύχη, ossia caso e fortuna, già proposta negli scritti del Corpus Hippocraticum (De arte e De antiqua medicina), si può ben accogliere quanto scriveva Felix Heinemann nel saggio già citato, affermando che: «La maggior parte delle discipline si sono formate consapevolmente come tali, ed hanno trovato i loro metodi e la loro prima esposizione scritta, già all’epoca dei Sofisti»32.

Per altro anche uno dei primi studiosi delle téchnai antiche, come Alfred Espinas, già nel 1893 aveva attribuito ai sofisti la funzione storica fondamentale di aver redatto trattati manualistici per molti campi dell’agire riconducibili a metodi e procedure sistematiche.

Mais pendant que se proces se realisait dans l’ordre de la science, un autre fait favorisait singulierment la formation d’une philosophie positive de l’action: nous voulons parler de la condensation pour l’enseignement oral ou pour la redaction ecrite d’un moltitude de connaissances disseminees a l’etat des coutumes anciennes ou de recentes invention. Nous avons montre dans la classe d’hommes appelles sophistes les auteurs principaux de cette condensation. Il faut ajouter que ceux-là mèmes qui se disaient ennemis des sophistes, quand le mot pris une acception défavorable, collaboraient à la meme œuvre.33

Tanto già da presentare, lo studioso francese, una prima lista di riferimenti a classici che confermavano appunto tale ipotesi di una centralità dell’opera dei sofisti nella diffusione della metodica delle téchnai nella cultura greca del V secolo.

Nel Gorgia di Platone si parla infatti di un certo Miteco, «autore di uno scritto sulla cucina siciliana» (Gorgia, 518 b). Così come Aristotele nella Politica ricorda che a Siracusa ci sono educatori al servizio domestico, cioè competenti in una téchne che giunge ad occuparsi della materia più umile come quella del lavoro servile. Protagora, oltre ai trattati già ricordati, aveva scritto verosimilmente un trattato su la Palestra, nell’ambito del fortissimo rilievo che la ginnastica aveva assunto nella paideia greca. Senofonte aveva dedicato un trattato al modo migliore di allevare i cavalli e in esso c’è un prezioso riferimento a un precedente trattato sull’argomento di un tale Simone, massimo esperto nella téchne concernente l’equitazione. Ancora nell’Economico, lo stesso Senofonte parla di persone che discettano meravigliosamente dell’agricoltura a parole, pur senza intendersene per nulla nella pratica, e che comunque sollecitano a ben conoscere la natura del suolo per essere bravi agricoltori. Dove il riferimento non può che essere rivolto, evidentemente, che ai sofisti. A proposito dei quali Aristotele cita espressamente il trattato di Carite di Paro e quello di Apollonio di Lesbo.

Per altro lo stesso Aristotele, a proposito dell’agricoltura e della capacità tecnica di ricavarne ricchezza, scriveva nella Politica:

Vi sono alcune parti della crematistica legate all’uso: così l’avere esperienza degli oggetti di proorietà, quali sono i più redditizi, e dove e come, ad es. in che modo si acquistano cavalli, buoi, montoni, e parimenti gli altri capi del bestiame (bisogna in effetti sapere per esperienza quali di questi siano i più redditizi, paragonati gli uni agli altri, e quali nelle diverse qualità di suolo, perché alcuni prosperano in un luogo, altri in un altro) e poi dell’agricoltura, sia quella a base erbacea che quella a base arborea, e dell’apicultura, e dell’allevamento degli altri animali, pesci o uccelli, da cui si può trarre qualche risorsa. Sono queste le parti della crematistica intesa nella forma più propria e genuina34 (Politica, 1258 b 12-21).

Nei Memorabili di Senofonte Socrate allude a delle opere di contenuto metereologico (almanacchi, calendari, tavole astronomiche) che avevano presumibilmente come scopo la previsione del tempo. Ma anche l’astrologia nautica, che alcuni attribuivano a Talete ed altri a un certo Foco di Samo, doveva contenere, secondo l’indicazione di Tannery35, previsioni metereologiche di possibile derivazione egizia. Infine anche Vitruvio viene introdotto nell’elenco di Espinas per la citazione da parte dell’autore latino di un architetto che, avendo lavorato ai tempi di Eschilo alle decorazioni del teatro di Atene, avrebbe lasciato un primo trattato sulla scenografia.

Seguendo il suo esempio scrive Vitruvio Democrito e Anassagora hanno scritto sul medesimo soggetto: essi hanno insegnato come si può, a partire da un punto fissato come centro, imitare così bene la disposizione delle linee che nascono dagli occhi da raggiungere l’effetto illusorio di rappresentare sulla scena edifici veri, che sebbene disposti su un’unica superficie»36.

Ora questi pochi esempi andrebbero certamente integrati e sottoposti a criteri di accertamento filologico e critico assai più approfonditi, anche alla luce della letteratura più recente. Ma qui devono valere solo a dare un’idea, assai approssimativa, di quanto, soprattutto a partire dalla seconda metà del V sec. a. C. si possa parlare almeno di una disposizione generalizzata, nell’ambito della cultura greca, ad una tecnicizzazione di tutte le sfere dell’agire, e delle metodiche e dei saperi a ciascuna di esse connessi. La funzione dei sofisti è stato in tal senso imprescindibile, non solo per quanto riguarda l’arte retorica e l’arte politica, ma anche, come s’è visto, per ogni ambito dell’agire in cui potesse valere una ricostruzione metodica tra mezzi e fini che potesse, a sua volta, essere insegnabile e trasmissibile.

In questo senso l’impianto e la diffusione delle téchnai nella cultura greca, ben diversamente al carattere ispirato e quasi religioso che Heidegger ha assegnato alla téchne greca quale poíesis che avrebbe promosso il passaggio dal non-essere all’essere, dal nascondimento della non-presenza alla visibilità della presenza, appaiono legati assai ben più a un processo, potremmo dire usando termini moderni, di laicizzazione: nel senso di una trasformazione intellettuale che fa sempre meno riferimento alla divinazione e che si basa sempre di più sulla conoscenza delle cause quale capacità di produrre risultati efficaci ed utili. Vale a dire che, se non nei termini della credenza popolare diffusa, era venuta sempre più meno già nel V° sec. nei ceti più colti della popolazione il convincimento dell’intervento degli dei negli affari degli esseri umani e la credenza che l’essenziale della religione fosse la pratica sacrificale volta a consultare e a prevedere il volere della divinità, oltre che procacciarne il consenso. L’esplicazione causale veniva sostituendo sempre più la frequentazione di oracoli e la divinazione, concepiti fin’allora come gli unici mezzi per alleviare i mali che incombono sull’umanità e modificare in qualche modo gli orditi del destino.

 

5. Nómos e physis nella sofistica

Eppure, ci si può chiedere, come si poteva accordare tale nuova attitudine verso l’esplicazione causale, verso la conoscenza e l’appropriazione dei mezzi più adatti e consoni a fini determinati, con il relativismo delle opinioni e con la negazione conclamata della possibile esistenza della verità oggettiva da parte di sofisti così celebrati come Protagora e Gorgia? Perché, si può rispondere (ma anche qui con una risposta sommaria e rapida, data la schematicità della nostra esposizione) l’oggetto fondamentale dell’insegnamento dei sofisti ha riguardato assai più le istituzioni umane che non la natura. È il nomos infatti, e non la physis, il tema prioritario della sophistichè téchne: ossia, proprio nella distinzione dalla physis, il carattere convenzionale e propriamente umano dei nómoi.

Giacché religione, legislazione, costumi e consuetudini delle città, gerarchie sociali, ordinamenti morali e familiari sono stati considerati dai sofisti come non iscritti nell’ordine naturale, e visti dunque quali istituzioni artificiali ed arbitrarie, che variavano secondo i diversi luoghi e le diverse culture. Vale a dire che assai più che sulla struttura della physis, in questo differendo dalle speculazioni della filosofia naturalistica dei fisiológ- oi, i sofisti hanno esercitato il loro sapere sulle questioni dell’educazione, della moralità e della politica, sulle opinioni della città riguardo al bene e al male, al giusto e all’ingiusto: su tutto ciò che insomma non apparteneva all’ordine naturale delle cose ma s’iscriveva nella peculiarità degli esseri umani di dar vita a un mondo sociale che si distaccava dagli automatismi e dalle necessità inevadibili del mondo naturale.

Anche perché la natura, vista e confrontata dalla prospettiva di un ordine sociale umano, costruito con sforzo pertinace di volontà e di intelligenza, non poteva non apparire alla cultura sofistica altro che un complesso di forze, se pure legate e scandite da leggi, comunque meccaniche ed automatiche, e, per tale via, cieche e irresponsabili. A meno di non trarne, con la disciplina e la pratica metodica delle téchnai, un senso e una utilizzazione feconda per il bene del singolo e soprattutto per il bene della città. La quale ora diventava, con la sua fisiologia di vita e con la salvaguardia della sua unità organica, il vero significante, alla luce del quale interpretare ed elaborare il mondo della physis. Quest’ultimo nella prospettiva dei sofisti rimaneva il mondo caratterizzato da una profonda e inalterabile stabilità a fronte della quale si distingueva e prendeva rilievo la mutevolezza e la labilità delle convenzioni e delle istituzioni umane: dei nómoi. Ma appunto il mondo dei nómoi si distingueva profondamente dal mondo della physis, non per dominarla e imporle una legalità estrinseca, bensì per conciliarsi con essa, lasciandone cadere i lati più casuali, irrazionali e ferini e trovandone le utilità più accessibili e feconde per la vita umana.

Senza considerare tale profonda connessione tra politica e morale da un lato, quale mondo dell’autonomia e del perfezionamento umano all’interno dell’orizzonte della città, e mondo della physis dall’altro, si rischia dunque di fraintendere profondamente il senso di ciò che è téchne nella Grecia classica del V° secolo. O addirittura di piegarne la tessitura antropologica ed etico-politica in una curvatura di senso univocamente ed astrattamente ontologica, come accade appunto, a nostro avviso, alla lettura avanzata da Heidegger con il suo ricondurre il senso della téchne antica al passaggio e al disvelamento dal non-essere all’essere: e cioè assai più all’autonomia e alla dinamica del supposto principio metafisico dell’Essere che non alla specificità storico-culturale dell’umanità greca nel V° sec. a. C. e, in tal senso, alla sua autonomia di configurazione sociale rispetto a un contesto ontologico-naturalistico.

Del resto larga parte degli studiosi di filosofia antica hanno sottratto il movimento culturale della sofistica alla riduzione all’eristica e alla manipolazione linguistico-retorica cui l’aveva costretto e sminuito l’interpretazione platonica, per evidenziare come il vero fine dell’innovazione educativa e comunicativa della sofistica sia stato quello di fecondare e migliorare la convivenza civile e politica tra i membri di una medesima comunità. In particolare riguardo al relativismo dei valori, alle concezioni molteplici di ciò che era il significato di dike, all’apprendimento e alla comparazione di diverse organizzazioni istituzionali e politiche all’emergere di profonde differenze di costumi e consuetudini di vita, che segnavano con il V° sec. il passaggio del mondo ellenico da una cultura aristocratico-signorile alla cultura della città e della tendenziale isonomia e valorizzazione dell’insieme del demos che essa va detto particolarmente ad Atene comportava.

Di questa scomposizione dell’esperienza umana, di questo contrapporsi di tradizioni e usi tra i diversi popoli, così come, va aggiunto, di una incertezza di vita nell’intimo del singolo, quale giunse allora a manifestarsi con la poesia dei lirici di contro al fiducioso razionalismo ed oggettività dei valori dell’epos omerico, la testimonianza forse più espressiva è quella ben nota di Protagora, riportata, com’è ben noto, da Diogene Laerzio, concernente la contrapposizione/scissione in due lógoi che giunge a connotare ogni esperienza: «per primo sostenne che intorno a ogni esperienza vi sono due logoi in contrasto fra di loro»37. E che dunque da tale contrapposizione di giudizi implicita nell’esperire dell’essere umano, non potesse che derivarne una prospettiva relativistica, secondo quanto riportava Sesto Empirico:

Taluni poi compresero anche Protagora di Abdera nel gruppo dei filosofi che eliminano il criterio per distinguere la verità; infatti egli afferma che tutte le rappresentazioni e le opinioni sono vere; e che la verità è uno dei concetti relativi perché tutto ciò che appare o è opinato da qualcuno esiste senz’altro presso di quello.38

Ed è ben noto che, congiungendo a questo frammento, l’altra famosa proposizione protagorea («l’uomo è dominatore di tutte le esperienze, in relazione alla fenomenalità di quanto è reale e alla nessuna fenomenalità di quanto è privo di realtà»39) è stata avanzata una lettura solo relativistica della dottrina di Protagora, e, di lì, dell’intera sofistica, rimasta confinata ai soli dissidi dell’opinione ed a una gnoseologia di natura solo sensistica e individualistica.

Ma come ha ben interpretato, a mio avviso, meglio tra tutti, Mario Untersteiner il confinamento del discorso di Protagora ai soli dissidi dell’opinione e a una gnoseologia solo sensistica e individualistica non ha sufficientemente colto l’ulteriore tesi protagorea del fare del discorso peggiore il discorso migliore, ossia di «ridurre la minore possibilità di conoscenza a una maggiore possibilità di conoscenza» (τό τόν ήττων λόγον κρείττων ποιειν) (Rhet., B 24, 1402 a 23). Ha omesso cioè dalla filosofia anassagorea la tesi dei diversi gradi di conoscibilità di ciascuna cosa e di riuscire a portare l’essere umano a farsi padrone e dominatore di una superiore conoscibilità di una cosa, attraverso e al di là delle opinioni necessariamente contraddittorie su quella medesima cosa. L’essere umano può passare da una minore possibilità di conoscenza a una maggiore possibilità di conoscenza e in questo passaggio cogliere proprietà della materia che ad altri non si rivelano.

Egli afferma ancora che le possibilità di conoscere tutte le cose che si rivelano, sono inerenti alla materia, cosicchè la materia, per quanto dipende dalla sua essenza, è tutto quello che essa si rivela a tutti.40

La materia si espone in una fluidità fenomenologica che ammette in sé diversi gradi di esperienza, gli uni superiori agli altri, in un trapasso per il quale l’uomo si fa misura, ma possiamo dire anche dominatore, di tutto ciò che esiste e di tutto ciò che non esiste. Come viene detto nella cosidetta Apologia di Protagora nel Teeteto:

Io dico, infatti, che la verità è come ho scritto: ciascuno di noi è misura delle cose che sono e di quelle che non sono, ma siamo immensamente differenti l’uno dall’altro proprio per questo, che per uno appaiono e sono certe cose e per un altro invece altre. E sono ben lontano dal negare che esistano sapienza e sapienti, anzi chiamo sapiente proprio colui che, operando un mutamento, ad uno di noi per il quale certe cose appaiono e sono cattive, le fa apparire ed essere buone (Teeteto, 166 d-e).41

Di certo dunque per Protagora non esiste una assoluta orthótes, una verità assoluta, perché ad ogni logos può essere sottratto valore da un altro e contraddittorio logos, ma il saggio deve saper dominare i contrasti, e divenirne misura, dominatore. Dove ánthropos, secondo la lettura proposta da Untersteiner, non va interpretato in senso individualistico ma in senso collettivo. Significando cioè l’uomo in generale, l’uomo della città, che ormai di fronte a sé, più che natura o dèi, ha ormai solo altri uomini, col pluralismo dei quali confrontarsi e reciprocamente educarsi.

È dunque solo rifacendosi alla Sofistica e alla trasformazione sociale e politica della polis solo rifacendosi al significato e alla pratica di ciò che è propriamente politica che si può realmente intendere come e perché nella Grecia classica del V° sec. si affermi e sviluppi un’idea di téchne che non è limitabile alle pratiche di produzione di oggetto, cioè che non è limitabile al campo semantico della póiesis. Laddove nel discorso di Heidegger téchne coincide con póiesis, con il portare qualcosa alla presenza, con il condurre fuori alla luce dell’essere un nascosto dal nascondimento del non-essere. Téchne è πόιεσις. E la πόιεσις va intesa nel senso peculiare di pro-duzione (Hervor-bringen).

Anzitutto, τέχνη non è solo il nome del fare artigianale e della capacità relativa, ma anche dell’arte superiore e delle belle arti. La techne appartiene alla pro-duzione, alla poiesis; è qualcosa di poietico (Poietisches).42

Ma il discorso heideggeriano conchiude la nozione di téchne in quella di póiesis, come testimonia anche la sua citazione della dottrina aristotelica delle quattro cause, esplicitamente riferita nel testo di Heidegger a un produrre artigianale di oggetti (qual è il caso del calice), perché di fondo al pensatore tedesco rimane del tutto estranea la connessione delle téchnai greche con la tematica della politica, come scienza pratica del sapersi condurre nella vita della città. Ed è appunto tale disinteresse verso la dimensione greca della politeia che, a mio avviso, lo ha destinato a una svalutazione e critica di quella filosofia platonica, la cui essenza s’è giocata invece proprio nella confutazione del monismo e dell’assolutezza dell’Essere eleatico, e nell’articolazione, che ne derivava, di un mondo di ontologia socio-politica basato proprio sulla divisione e moltiplicazione di tecniche, non limitate alle tecniche di sola produzione.

 

6. Le téchnai nella politeia platonica

Giacché proprio in tale nesso tra una teoria sistematica ed organica delle téchnai e la confutazione dell’eleatismo, io credo – seguendo in ciò la lezione di studiosi autorevoli tra i quali, in primo luogo, Giuseppe Cambiano – consista la maggiore originarietà della filosofia platonica, qualora venga considerata da una prospettiva non univocamente teoretico-speculativa ma, complessivamente, anche storica e sociale43. Dicendo però subito che in queste pagine, rinunciando ad una disamina all’interno dell’intero corpo platonico, si concentra l’attenzione solo su quei dialoghi come il Protagora, il Cratilo, La Repubblica e il Sofista, in cui viene più diffusamente trattato il tema delle tecniche, con particolare rilievo dato al Sofista. A motivo della «sensibile attenuazione della trascendenza dell’eidos», come giustamente è stato detto, dato che la comunanza dei generi, di cui Platone discute in quel dialogo, mette in campo un sistema relazionale delle idee tra di loro e dunque, da parte del mondo dell’agire e del vivere sensibile, una «partecipazione non al singolo eidos ma a una unità sintetica fatto di una molteplicità di eide implicantesi a vicenda»44.

Ogni téchne per Platone è tale in quanto il suo campo di azione è ben defi e distinto dai campi delle altre téchnai. Una delimitazione che, a sua volta, è generata dalla specifi degli oggetti che di quel campo costituiscono l’insieme e dalla loro specifi natura. Ogni oggetto ed ogni campo di realtà possiede una sua intrinseca legalità, un suo ordine e una sua destinazione, di cui dà conto l’idea, l’eidos, quale appunto confi della sua struttura e funzione al meglio delle sue possibilità. E di questa connessione tra areté, da intendersi come virtù di una cosa al meglio delle sue possibilità di azione (dynameis), e sua legge ideale (eidos) è competente chi ne possiede e ne esercita la téchne: come colui che, attraverso il sapere del logos e dell’ordine causale e metodologico che presiede a quel campo, ha la capacità di governarlo e di produrlo secondo la sua vera, e non errata, funzione.

Sapere e potere sono il binomio che sta a fondamento di ogni attività. Nella prospettiva platonica episteme, dynamis e techne formano un sistema di concetti che si soccorrono e precisano mutuamente […]. Per Platone una possibilità è autenticamente tale, se alla sua base stanno le condizioni che la rendono realizzabile: e tali condizioni sono le informazioni fornite dal sapere. La tecnica è, allora, l’esecuzione scientifica della possibilità di scrivere.45

È tale connessione profondissima istituita tra epistéme e téchne, tra mondo delle idee e procedure dell’agire e del produrre nel mondo sensibile, che rendeva Platone radicalmente critico della sofistica quando essa veniva ridotta o si riduceva alla sola retorica quale tecnica dei discorsi e della persuasione, giacché in tal caso essa operava attraverso il pathos e la via emotiva della seduzione anziché attraverso la conoscenza del logos e delle regole causali dell’accadere. L’idea è invece ciò che rende una cosa veramente tale, nella sua struttura di relazioni, e ogni tecnica non può che assumere l’e- pisteme dell’idea come modello del suo operare. Epistéme dunque, che non è né empeiría, ossia mera esperienza basata su una ripetizione dell’agire che non ha logos, perché non sa rendere le ragioni del medesimo, né doxa, ossia mera opinione, quale pretesa di sapere senza sapere effettivo. Laddove è solo il possesso della tecnica, legata alla conoscenza dell’idea e alla sua incarnazione, che consente perciò di compiere, nel momento opportuno (καιρός), l’operazione voluta.

Come si diceva si deve agli studi sulle téchnai compiuti da Giuseppe Cambiano la delineazione più chiara e approfondita di questa identità e funzione del mondo delle idee in Platone, dove l’idea è regola dell’agire, criterio metodico e immanente al mondo concreto, di cui costituisce la definizione di possibilità e di uso al livello ottimale. E da cui deriva un’intepretazione non contemplativa della filosofia platonica bensì pratico-operativa, in quanto volta ad organizzare attraverso la divisione e la relazione delle téchnai le modalità di vita sociale e politica della città ideale. Giacché appunto su tale concezione delle téchnai, come organizzazione e delimitazione reciproca di campi di competenza garantiti dall’episteme, Platone ha istituito la sua concezione della politeia, come vita e organizzazione della città fondata e articolata sulla divisione del lavoro. Da cui deriva la sua critica della democrazia, come istituzione che non lascia spazio alla vera competenza, compiuta dal punto di vista di una aristocrazia filosofica, che non torna a valorizzare le aretai tradizionali secondo ricchezza, bellezza e potere attinenti per discendenza alle classi aristocratiche, bensì si basa su una concezione del sapere come unica fonte legittima del potere.

La vita del singolo uomo non è autosufficiente, non basta a soddisfare i propri bisogni, come già avevano concepito Democrito ed Anassagora. Può soddisfarli solo scambiando oggetti e prestazioni con quelli di altri e, dunque, solo attraverso la creazione di una cooperazione sociale fondata sulla differenziazione delle tecniche. Ma in tal senso le tecniche non possono non estendersi all’intero campo sociale, visto appunto che in Platone è stato escluso qualsiasi altro principio di socializzazione, che non sia il possesso di una epistéme specifica. E, come già accadeva con i sofisti, non possono limitarsi ad essere solo téchnai artigianali di produzione perché sono anche téchnai di acquisizione, come accade con la matematica, la geometria, «l’intera specie relativa all’apprendimento e quella del conoscere e quella del guadagnare e della competizione e della caccia. Poiché nessuna di esse fabbrica qualcosa, ma alcune s’impadroniscono mediante discorsi e azioni di ciò già è o è stato prodotto, mentre altre oppongono resistenza a coloro che vogliono impadronirsene»46 (Sofista, 219 c).

Già alle tecniche di acquisizione risulta assai difficile applicare la teorizzazione heideggeriana della téchne greca come pro-duzione e passaggio generativo dal non-essere all’essere, visto che esse fanno riferimento nei dialoghi platonici a ciò che è da sempre, a un vero eternamente presente, solo da rendere accessibile e conoscibile all’intelletto umano, per cui esse non producono i propri oggetti, ma scoprono oggetti già esistenti. Ma ancor più tale motivo dell’eternità dei paradigmi vale per le tecniche di produzione, giacché l’artigiano produce l’oggetto guardando a un modello ideale dell’eidos, che egli non inventa ma solo imita. Infatti da questo punto di vista Platone, pur facendo della divisione del lavoro il principio dell’organizzazione di vita della polis, non eccede, nella costruzione della sua aristocrazia filosofica, nella valorizzazione del lavoro manuale e artigianale, perché, per quanto dotato di epistéme l’artigiano di tecniche produttive, rimane contemporaneamente servo: servo dell’uso, e dunque del giudizio del consumatore cui l’oggetto in questione è destinato, e servo della forma ideale, la cui regola, da sempre fissata, la sua prassi produttiva deve seguire.

Ma ancor più il lavoro delle tecniche come servizio al seguito di modelli ideali, non generati ma eterni, testimonia delle difficoltà e della inverosomiglianza della concezione heideggeriana della verità come non-latenza, come preteso disvelamento, o meglio sarebbe dire autodisvelamento, di una realtà nascosta. Perché la conformità del lavoro alla regola dell’idea, e alla sua eternità paradigmatica, è testimonianza all’opposto di una verità connaturata e intrinseca alla realtà stessa, ossia, come ha ben scritto M. Vegetti, di «una manifestatività originaria dell’essere». Nel senso che la verità nel mondo platonico (ma non solo platonico) promana dalle cose, essa «è una luce che viene dalle cose»47. E agli esseri umani vale solo togliere tutti quegli ostacoli soggettivi che impediscono “di vedere quella luce che comunque si irradia”, tra i quali vanno annoverate le opinioni erronee dei predecessori che vanno a tale scopo metodicamente analizzate e confutate.

Va inoltre detto che una compenetrazione così profonda tra mondo delle tecniche e mondo delle idee ha richiesto nei dialoghi platonici la messa in campo di un radicale dispositivo antieleatico che, nella critica del monismo dell’essere e nel superamento del non-essere come polarità ontologica opposta e contradditoria a quella dell’essere, ci sollecita ad atteggiarci criticamente anche verso la riproposizione heideggeriana dell’Essere come Sein.

Per il Platone del Sofista, com’è ben noto, il parricidio di Parmenide è consistito nel superamento del fondamentale comandamento eleatico di non poter pensare né dire il non-essere («giacché non potresti conoscere quel che appunto non è né potresti farne parola»48. Rompendo la considerazione parmenidea dell’univocità dell’essere, e del non essere che ne consegue, Platone sottrae la relazione di essere e non-essere alla tipologia dell’opposizione ed esclusione reciproca tra i due, e attribuisce al non essere di significare non il contrario dell’essere bensì quello della diversità, per il quale un qualsiasi ente intanto è se stesso, in quanto non è, ossia è diverso da tutti gli altri. Questo poter pensare e pronunciare il non essere come sinonimo del diverso, rende le due polarità non esclusive l’una dell’altra, per qui la presenza dell’una esclude quella dell’altra, ma compresenti l’una dell’altra, e dunque, per tale compresenza non esclusiva, capaci di organizzare e relazionare un intero campo di identità e distinzioni che non accoglie la contraddizione dentro di sé. Bensì configura la realtà delle idee oppone una concezione dell’essere come totalità di relazioni, delle quali alcune sono connesse e partecipi secondo un principio di identità ed altre, invece, che si escludono per non avere rapporto alcuno tra di loro. A tale riguardo ha ben scritto Cambiano come questo passaggio decisivo nella filosofia platonica

è possibile soltanto sulla base del riconoscimento antieleatico del non essere non come opposto all’essere, ma come altro dall’essere. A sua volta una tale interpretazione del non essere è possibile solo sulla base della comunione (κοινονία) dei generi, alla quale la definizione dell’essere come possibilità (δύναμις) fornisce l’adeguata base ontologica. La definizione proposta da Platone ha lo scopo di superare i ristretti limiti in cui le ontologie materialistiche rinchiudono il discorso sull’essere: per Platone ‘è’ tutto ciò che per natura ha una possibilità qualsiasi o di fare o di subire qualcosa in relazione a qualche altra cosa.49

La tecnica dialettica studia questo: quale sia il mondo delle idee nella sua articolazione di generi e specie. Ossia che essa sia la scienza di «chi intende correttamente mostrare quali generi con quali altri di accordino e quali invece si escludano reciprocamente? E soprattutto se ce ne siano alcuni che, attraversandoli tutti, li connettano in modo che essi possano mescolarsi»50 (Sofista, 253 b). In questo senso il filosofo è colui che sa «dividere per specie seguendo le articolazioni naturali e cercare di non spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo cuoco»51 (Fedro, 265) ed è colui che possiede la tecnica dell’articolazione/distinzione, secondo la quale «alcuni generi consentono una comunicazione reciproca, mentre altri no e alcuni in misura ristretta, altri invece più estesamente»52 (Sofista, 254 b). La confutazione dell’eleatismo, quanto alla risoluzione del non essere assoluto di Parmenide nel non essere relativo del Sofista, ci dice quanto Platone abbia da un lato proseguito il cammino della sofistica nella valorizzazione delle tecniche come strumento indispensabile della civilizzazione umana per accedere alla vita della polis, ma ne abbia contemporaneamente tracciato il limite di contro al potere della filosofia quale il luogo massimo dell’episteme all’interno della città.

È la filosofia infatti, come téchne politikè, che possedendo la conoscenza della partecipazione o meno dei generi tra di loro, è in grado di avere una conoscenza dell’intero, dell’hólos e stabilire la vita della città come insieme organico di tecniche. La virtù per eccellenza della politica è la giustizia, la dike, in quanto regola i nessi tra le parti di una totalità, assegna loro equilibrio ed impedisce che vi siano asimmetrie ed unilateralità. Ed essa non può che coincidere con la filosofia in quanto episteme dell’identico e del diverso, di ciò che è comune e di ciò che è eterogeneo, di ciò che si connette e di ciò che si slega, dei rapporti corretti tra generi e specie. La quale, per tale motivo, è ulteriore alle téchnai, o, se si vuole, è definibile come quella tecnica per eccellenza che ha come cura la definizione delle connessioni possibili e di quelle impossibili all’interno di una totalità. O ancora perché è tecnica d’uso per eccellenza in quanto, essendo conoscenza di quell’idea suprema, che è l’idea del Bene, è in possesso del criterio massimo che definisce quale sia l’uso e la destinazione corretta di ogni tecnica particolare. La physis in Platone rimanda a un ordinamento strutturale e permanente della realtà la cui intellegibilità e legalità è espressa massimamente dagli archetipi delle idee. La physis platonica significa una «realtà stabile e fissa, come struttura costitutiva, contrapposta a manifestazioni accidentali e superficiali dell’essere»53. Della physis è parte la téchne, nella misura in cui ne segue e ne rispetta l’ordinamento. Tanto da potersi dire che in Platone c’è una identificazione tra physis e téchne, per la coincidenza e omologia che stringe insieme i loro ambiti.

E, se è da un tale argomentare e presupporre ontologico e metafisico, assai prima che politico, che è derivata nella Politeia platonica la forte valorizzazione delle tecniche come principio istitutivo della vita civile attraverso la divisione del lavoro, è dal medesimo quadro ontologico-metafisico che Platone deriva quella superiorità della téchne dialektikè su ogni téchne particolare, che gli ha consentito di giustificare e legittimare attraverso un piano epistemologico una tradizionale e aristocratica svalutazione, sul piano del potere sociale e politico, dei ceti artigianali. Per altro di tale subordinazione delle tecniche ad un criterio di condotta ad esse esterne era stata già testimonianza la visione attribuita a Protagora nel celebre mito platonico, già ricordato, nel quale il sofista indicava nella partecipazione di tutti alle doti del rispetto e della giustizia la diversità e la superiorità della politica rispetto alla distribuzione tra pochi competenti per ciascuna delle tecniche particolari.

Per questo, Socrate, gli Ateniesi, come gli altri uomini, quando si discute sulla virtù costruttrice o su qualche altra tecnica artigianale, credono che sia compito di pochi dare consigli, e se qualcuno, estraneo a questi, si mette a darne, non lo tollerano, come tu dici, e a ragione, dico io. Quando invece si riuniscono a consiglio sulla virtù politica, che deve procedere interamente secondo giustizia e saggezza, è naturale che ammettano a parlare chiunque, poiché è proprio di ognuno partecipare di questa virtù; altrimenti non esisterebbero città (Protagora, 322 d-323 a).54

Solo che per Platone, com’è ben noto, il nesso tecniche-politica era ben diverso, giacché la stessa politica doveva essere anch’essa una tecnica, di cui partecipavano solo i competenti, che appunto sono i filosofi, perché essi giungevano a frequentare e studiare il mondo delle idee nella loro complessità e sistematicità fino al vertice dell’idea del Bene, senza limitarsi alla frequentazione epistemica e prassica di una sola idea, come accade invece al demiurgo costruttore ed artigiano. Ma è appunto questa incapacità delle tecniche ad essere autosufficienti quanto alla loro destinazione ed uso, soprattutto di quelle poietiche legate alla produzione di manufatti, che delucida in modo assai chiaro quanto il lavoro manuale in Grecia, l’attività dei demiourgói, sia rimasto non valorizzato socialmente e confinato in un insieme di pratiche di servizio. Giacché pure in Platone che, come abbiamo visto, aveva fatto della divisione del lavoro il principio materiale di organizzazione della polis, il lavoro del demiourgós è póiesis e non praxis.

Ossia è servizio nel duplice senso che colui che lo svolge è strumento della forma, ossia di un modello che esiste dall’eternità, e che dunque egli non crea ma imita, e nel senso di essere strumento del consumatore, che è l’unico a usare e a realizzare la vera finalità dell’oggetto. È l’uso, la destinazione del manufatto, che infatti comanda la produzione e che decide e valuta se l’opera del demiourgós corrisponde per qualità e completezza al paradigma dell’idea.

Ed è appunto tale primato della chresis, delle tecniche di uso, sulle tecniche di fabbricazione, fino al primato ultimo della téchne politikè, il cui contenuto è l’episteme propria della dialettica, che ben esprime quanto nella visione platonica, critica della democrazia, la valorizzazione delle tecniche è paradossalmente la loro limitazione: giacché il loro senso, quanto al bene della polis, è al di là di loro ed è deciso dai filosofi-re, la cui tecnica dialettica ha il compito di rendere presente l’eidos della giustizia.

Del resto il breve e schematico riferimento alla sofistica che abbiamo fatto, ci ha confermato anch’esso che il logos, la ragione greca del V° e del IV° sec. è stata una ragione anche intrinsecamente politica, figlia della città. Cioè che il suo contenuto di maggior valore è stato, accanto al commercio degli esseri umani con le cose, anche quello delle relazioni degli esseri umani tra loro. Per sollecitarci, di nuovo, io credo, a riflettere sulla problematicità dell’interpretazione heideggeriana della tecnica nel mondo greco come legata a una teoria della verità che, nel suo disvelare e nel suo trapassare dal non-essere all’essere, è sempre stata assai lontana dall’orizzonte e dalla vita della città.

 

7. Aristotele: la separazione

Infatti è propriamente prima con l’Accademia e poi con Aristotele che nasce una teorizzazione per la quale le téchnai vengono disgiunte dalla connessione profonda con l’epistéme, ontologica ed espistemologica, che esse avevano raggiunto nella dottrina platonica.

Ancora nella tarda produzione di Platone, le Leggi confermano quanto l’idea-norma debba guidare il procedere dell’artigiano:

Non abbiamo detto che l’artigiano ottimo in ciascuna cosa particolare, e così il custode, non solo deve essere capace di guardare alle molte cose del suo ufficio, ma anche deve saper perseguire con slancio incalzante quell’uno e conoscerlo e, conosciutolo, ordinarvi ogni cosa, considerando tutto con uno sguardo generale? (Leggi, 965 b-c).55

Ed anche nel Timeo, il dialogo per eccellenza legato al tema del demiour- gós e della creazione del mondo, si dice, a proposito del convincimento dell’esistenza delle idee degli oggetti fabbricati: «Ora, quando l’artefice, guardando sempre a quello che è nello stesso modo e giovandosi di così fatto modello, esprime la forma e la virtù di qualche opera, questa di necessità riesce tutta bella: non bella, invece, se guarda, a quel ch’è nato, giovandosi d’un modello generato»56 (Timeo, 28 a-b). Ma ancor più il Filebo, che precede con il Timeo la composizione delle Leggi, illustra quanto nel tardo Platone il riproporsi del tema della partecipazione dei molti all’uno illustri un atteggiamento di superamento della rigida trascendenza del mondo delle idee, quale veniva invece concepita ancora ad es. nel Fedone, per mettere a tema il senso di una partecipazione più intrinseca tra il mondo del divenire (ghénesis) e quello dei princìpi (ousía), che, privi di alterazione e divenire, danno comunque ordinamento e consistenza a quel mondo imperfetto, istituendone la struttura più vera. Giacché, in particolare nel Filebo, nella strutturazione del reale ora giocano non uno ma due princìpi, che sono quello del limitato, del peras, e quello dell’illimitato, dell’apeiron: il primo sinonimo dei paradigmi ideali, conchiusi nella perfezione e nella inalterabilità del loro significato, sinonimo dunque dell’unità, il secondo sinonimo dell’indeterminato, del molteplice, di ciò che sfugge a forma e regola. Ma appunto il principio dell’unità non possiede ora carattere di totale assolutezza, perché si confronta con il principio contrapposto della molteplicità. Tanto che, poiché «le cose che sono portano in sé connaturato finito e infinito», non si può saltare dall’uno ai molti, ma attraverso una catena di mediazioni, procedere dall’unità alla molteplicità, per successive divisioni, senza saltare alcun passaggio intermedio.

Per cui, a proposito della perseveranza della connessione tra epistéme e téchne anche nel tardo Platone e della natura razionale dell’azione-modello che si pone come norma per la produzione di un oggetto, può scrivere acutamente Margherita Isnardi Parente:

Nel Filebo troviamo aff che per operare produttivamente nel mondo sensibile occorre mischiare la scienza dei modelli eterni, della sfera ‘divina’, alla conoscenza della sfera ‘umana’, e in certo modo falsa (pseudes), quella della realtà fi ma ciò non toglie che la scienza del ‘divino’ intelligibile sia presupposta per la corretta opera dell’artigiano, anche se l’eff di questa, essendo termine della produzione una realtà ‘mista’, richiede qualcosa di estraneo al mondo dei valori puri. […] L’opera dell’artigiano si vale del kakòn umano e sensibile, ma in esso al sensibile è misto il modello esterno, del limite, del fi di cui il sensibile tenta di riprodurre in qualche modo la perfezione.57

Ma è già con i discepoli di Platone, già con la storia filosofica dell’Accademia, la connessione platonica tra téchne ed epistéme viene messa in discussione, col negare la possibilità dell’idea di oggetti fabbricati e con l’accentuarsi della trascendenza del mondo delle idee rispetto al mondo empirico e corruttibile dei singoli corpi fisici. Vale a dire che con l’Accademia comincia quel percorso di forte gerarchizzazione tra i diversi tipi di conoscenza che troverà la sua espressione più esplicita con Aristotele e che introduce, anche in forza di un mutarsi della destinazione storica ed etica della polis, una forte distinzione tra le scienze che hanno come loro oggetto le idee, come universali eterni e immutevoli, e le tecniche che hanno a che fare con il mondo degli infiniti e mutevoli particolari. Senza poter entrare qui nel merito delle divergenze nella scuola platonica tra Speusippo e Senocrate, qui va solo brevemente accennato al fatto che con l’Accademia si radicalizza una concezione trascendente dell’idea, che riprende motivi certamente presenti nella teorizzazione platonica del Fedone e della Repubblica, ma che finisce con l’accentuare fortemente la scissione ontologica e gnoseologica tra intellegibile e sensibile, assegnando di conseguenza alla praxis il mondo della contingenza, lavorato e trattato da un ingegno umano che non riesce ad assurgere alla divinità dell’idea e che produce oggetti lavorati a cui non corrispondono modelli di pura razionalità. Tanto che ora la natura appare non trovare più nell’idea la sua ratio costitutiva, quale principio che dà ordine e unità al suo divenire e che, di conseguenza, nobilita una téchne che produca conformemente a tale unità strutturale. Bensì trova un mondo, che per l’immutabilità delle sue forme, gli si contrappone, come il luogo dell’ordine di contro al suo intrinseco disordine e alla sua intrinseca alterabilità.

Ma è con Aristotele che la separazione tra epistéme e téchne trova, di contro alla visione platonica, la sua teorizzazione più esplicita e definita. Già dai frammenti del Protrettico (framm. 6) emerge una chiara distinzione tra una επιστήμη θεωρητική e una επιστήμη ποιουση, che introduce la concezione della depositata nei testi più maturi come una prassi diversa e inferiore, sia sul piano ontologico che su quello antropologico e socio-culturale, da quella della vera scienza. La επιστήμη θεωρητική, viene detto infatti nel Protrettico, è una scienza che include il suo fine entro se stessa, che non ha un fine diversa da se stessa. La επιστήμη ποιουση è invece una conoscenza che serve a produrre qualcosa di altro, di diverso e fuori di sé. Così le scienze che rientrano nell’ επιστήμη θεωρητική godono, di contro a quelle produttive, di una assoluta autosufficienza perché «non hanno bisogno per il loro lavoro né di strumenti né di luoghi; in qualunque luogo della terra si ponga il pensiero, ugualmente ovunque esso affetta la verità come presente»58. A differenza delle scienze produttrici, esse non hanno bisogno alcuno di oggetti materiali e di strumenti, e in tale immediatezza, che è assenza di mediazione e di dipendenza con l’altro, esprimono la loro libertà come attività coincidente con sé stessa.

La conoscenza dell’architetto, producendo quel qualcosa di estraneo ed ulteriore ad essa che è la casa, appare subordinata al suo scopo, giacché ogni processo che tende a un fine è inferiore, dipendendone, a quel fine medesimo. Mentre la επιστήμη θεωρητική, o anche φρόνησις, secondo la terminologia del Protrettico, è conoscenza non finalizzata ad un altro da sé, giacché è conoscere che trova in sé stesso la soddisfazione e la felicità del suo agire: un agire in cui enérgeia ed ergon, attività ed opera coincidono.

I frammenti del Protrettico già predispongono, sia pure con tracce significative di persistente platonismo, a quella che sarà la concezione più matura ed esplicita di Aristotele, come si deposita nella Metafisica, in particolare in Λ 9, con la dottrina della suprema teoresi contemplativa quale luogo massimo e fondativo dell’ontologia aristotelica. La realtà suprema è l’atto del pensare, senza materia e potenza alcuna, che, nella perfezione e libero da ogni alterità, pensa unicamente se stesso, e in questo atto di puro speculum è Intelligenza divina. «Se, dunque, l’intelligenza divina è ciò che c’è di più eccellente, pensa se stessa e il suo pensiero è pensiero di pensiero (νόησις νοήσεως)»59 (Metaph., 1074 b 32-35). Affrancata da ogni alterità, anche interiore, l’Intelligenza divina, non è diánoia, pensiero discorsivo, ma νους, pensiero intuitivo, dove pensiero ed oggetto di pensiero coincidono e si fanno trasparenti l’uno all’altro, senza residuo. «Dunque, non essendo diversi il pensiero e l’oggetto del pensiero, per queste cose che non hanno materia, coincideranno e l’Intelligenza divina sarà una cosa sola con l’oggetto del suo pensare»60.

In questa concezione del massimo di realtà ontologica come pensiero di pensiero ciò che va sottolineato non è solo la ritrascrizione in termini metafisici dell’ideale dell’uomo greco come αυτάρκεια, o indipendenza dal bisogno dell’altro, di cui aveva parlato Werner Jaeger nella sua Paideia. Ma soprattutto, sempre a conferma della trascrizione metafisica di un ideale di antropologia signorile, il tema di una ontologia che non implica in sé alcuna produzione, alcuna realizzazione di beni e di prodotti, perché il suo è un atto di consumo assoluto, che, nel suo conchiudersi immediato in sé, non è mezzo per altri scopi e fini. Al di sotto di tale massima realtà dell’Intelletto puro si colloca, quanto a grado di perfezione ontologica, la realtà naturale, perché tutti i suoi processi sono di tipo produttivo. La physis è infatti il portare all’essere dal non-essere, è il portare all’atto ciò che è solo in potenza. È, per definizione, la capacità di generare e produrre che dalla materia potenziale conduce al τέλος della forma compiuta. È il mondo del divenire, dove un alcunché che prima non era giunge ad essere attraverso una causa produttrice.

Ossia si può anche dire che la realtà dell’Intellegibile è la realtà dell’Es- sere, di ciò che non diviene e non trapassa in altro, perché è identico a sé nell’eternità, mentre la realtà della physis è quella del Poter-Essere, perché nella sua processualità ordinata finalisticamente è sempre implicita la possibilità che dalla potenza non si passi all’atto, cioè che nel fine come dover-essere, come futuro da realizzarsi, sia implicita la possibilità di una non realizzazione della forma finale o di una realizzazione in una forma diversa e inadeguata. In tal senso la physis, pur nella dimensione eterna e necessaria delle specie formali che danno forma alla materia sensibile e portano a pieno sviluppo il sinolo, è caratterizzata anche da contingenza, come luogo del poter non essere o dell’essere altrimenti.

La téchne umana è l’azione produttiva supplementare che opera a fianco della physis, cercando di saturarne la possibile contingenza, ma nello stesso tempo assumendola a proprio modello come matrice di forme e come paradigma del proprio agire finalistico. Solo che in tale parallelismo opera una differenza assai profonda. Giacché la physis possiede in sé il principio del proprio divenire e dunque in essa il passaggio dalla potenza all’atto avviene senza l’intervento di una causa esterna bensì per propria necessità e legalità interna. Laddove nella téchne umana, essendo il principio del movimento esterno alla produzione, si genera, per tale esteriorità, una complicazione e una maggiore articolazione del processo produttivo, che si esprime nella compiutezza della dottrina delle quattro cause e che, nello stesso tempo, rendendo meno semplice e lineare il raggiungimento del telos, espone la genesi artificiale a una contingenza maggiore di quella che connota la genesi naturale.

Ad opera dell’arte sono prodotte tutte quelle cose la cui forma è presente nel pensiero dell’artefice. […] Ora il sano viene prodotto seguendo questo ragionamento: poiché la salute consiste in questa data cosa, se si vuole ottenere guarigione, è necessario che si realizzi questa data cosa, per esempio un certo equilibrio (delle funzioni del corpo), e ulteriormente, se si vuole realizzare questo equilibrio, occorre un certo calore; e, in questo modo, il medico continua a ragionare, procedendo fono a che non pervenga, da ultimo, a ciò che è in suo potere di produrre. Il movimento, poi, che a questo punto, viene effettuato dal medico, cioè il movimento che tende a risanare, si chiama produzione. Ne consegue che, in certo qual modo, la salute si genera dalla salute e la casa si genera dalla casa: s’intende quella materiale da quella immateriale (Metaph., 1032 b 1-13).61

Mentre la produzione naturale avviene per movimento interno, dettato dalla predisposizione della ύλη, della materia, e dalla cogenza del τέλος, la produzione artificiale avviene attraverso dianoia, attraverso ragionamento, ossia attraverso il pensiero che attinge la forma universale dell’artefatto, la quale poi trapassa ad essere calata nella materia. «Nelle generazioni e nei movimenti vi sono due momenti: il primo è dato dal pensiero, il secondo dalla produzione; il pensiero è quello che parte dal principio e dalla forma, mentre la produzione è quella parte dell’ultimo termine a cui perviene il pensiero»62 (Metaph., 1032 b 15-18).

In questo modo Aristotele poteva distinguere, sul piano ontologico e metafisico, tre diversi gradi di realtà, articolati rispettivamente secondo l’ambito della divina noésis noéseos, della phyle e della téchne umana. Ciascuno caratterizzato da una diversa funzione dell’Intellegibile. La prima, quale forma assolutamente priva di materia e specula di sé medesima, la seconda quale forma che dà forma in modo immanente alla materia dei sinoli naturali, la terza quale forma che, iniziale solo dell’umano, trapassa a dar forma agli artefatti. A tale degradare, sul piano metafisico e ontologico, della funzione dell’Intellegibile dal massimo di autosufficienza al massimo di esteriorità nella relazione con l’alterità della materia, corrispondono le articolazioni, sul piano gnoseologico, delle varie scienze. Le teoretiche, con la divisione in filosofia prima, matematica e fisica, a seconda o meno dell’immanenza dell’Intellegibile eterno alla materia, e le scienze pratiche e poietiche, a seconda che il fine del loro agire sia intrinseco al loro operare od esterno ad esso, considerando in tal caso l’operare delle téchnai.

Ciò che ne conseguiva era la chiara collocazione da parte di Aristotole della téchne al di fuori del mondo naturale e in una dimensione molto esposta alla contingenza, assai diversamente dalla concezione platonica della compenetrazione tra physis e téchne, dove, al di là della rilevanza assegnata al demiurgo nel Timeo, la téchne era intrinseca (almeno in certi dialoghi platonici) alla struttura essenziale della cosa. Su questa dislocazione del mondo della tecnica ad un mondo solo umano, con l’inferiorità che ne conseguiva rispetto al primato dell’attività contemplativa, Isnardi Parente ha scritto lucidamente, in riferimento a quanto già trapelava dall’Aristotele del Protrettico:

Aristotele si è preoccupato di rimuovere dalla produzione naturale ogni elemento di volontarietà e coscienza, e dalla φρονησις suprema cui questa mette capo ogni elemento di produttività. Nell’ordine degli esseri vi è, al di sopra dell’azione produttiva che deriva da pensiero, un’azione produttiva naturale che si pone come il modello di questa e in cui i processi si verificano in base a un ordine finalistico dato, senza l’intervento di alcuna operazione intelligente da parte di un produttore; al di sopra ancora della realtà naturale, i cui processi sono di tipo produttivo, una φρονήσις ch’è pura attuazione di teoresi e non tende all’effettuazione di alcun prodotto. Con ciò la διάνοια produttiva e la volontarietà, la προάιρεσις, escono del tutto dai piani superiori dell’essere per farsi esclusivamente pertinenti dell’attività umana.63

Ma dovrebbe, dunque, essere sufficientemente evidente, per ritornare in conclusione ad Heidegger e alla sua Frage der Technik, quanto la lettura heideggeriana anche della dottrina aristotelica delle quattro cause interpretata come dottrina dei «quattro modi dell’esser responsabile» e come teoria del «lasciar-avanzare nell’avvento»64, torni a rivelare una profonda distanza dal contenuto dei testi aristotelici e, insieme, una consolidata tendenza a forzare il loro significato a muovere dalla presupposta metafisica dell’Essere come Svelamento. La religione laica dell’Essere piega infatti l’interpretazione heideggeriana nel verso di una cancellazione della discontinuità ontologica che Aristotele ha posto invece tra physis e téchne e nel verso di una sottrazione e semplificazione del ruolo che l’artigiano aristotelico gioca nel mondo della poíesis. Per poter dire che la téchne greca ha la funzione di far accedere l’Essere alla presenza, di «lasciar-avanzare nell’avvento», deve implicitamente rimandare a una continuità tra piani ontologici, che nega il testo aristotelico, e, nello stesso tempo, deve ridurre la funzione determinante e il processo complesso di mediazione che Aristotele assegna all’artigiano in quanto causa efficiens.

Giacché è certamente vero che nella dottrina aristotelica (nella versione assai schematica che ne stiamo dando) scienze e tέchnai hanno un medesimo contenuto, costituito dai loro oggetti formali, ma, va sottolineato, queste forme hanno una dimensione ontologica profondamente diversa tra loro, che mette in rilievo tutta la specificità e l’artificialità dell’operare dell’artigiano. Se la forma conserva infatti il suo primato anche nel processo produttivo, nel senso che lo guida nel suo procedere, è l’artigiano che, a ben vedere, deve svolgere il complesso lavoro del suo ποιειν, agendo attraverso αφαιρέσις e πρόσθεσις: ossia, rispettivamente formazione mentale dell’eidos attraverso astrazione e sottrazione di materia prima, ed esteriorizzazione di quello stesso eidos, quale sua realizzazione fuori della mente in una materia in grado di recepirla, poi. In una complessità del ποιειν, da cui emerge in tutto il suo rilievo la funzione, non semplicemente trasmettitrice e facilitatrice dell’artigiano quanto al «lasciar-avanzare», come teorizza Heidegger, quanto invece capacità di conoscenza e definizione della forma e, nello stesso tempo, volontà attuativa e produttiva della pura essenza dell’oggetto nella realtà sensibile.

Del resto è proprio per tale rimozione della «artificialità» del ποιειν tecnico rispetto alla produzione naturale, nonché della discontinuità ontologica che si dà in Aristotele tra physis e téchne (unificate invece da Heidegger nel verso di una pro-duzione, di un portare alla presenza, comune), che il filosofo della differenza ontologica si abilita a prender congedo, anche qui, di ogni considerazione di carattere storico: ossia del complesso di relazioni sociali all’interno delle quali vive e prende senso la téchne greca. In tal senso già la gerarchia aristotelica delle scienze, in teoretiche, pratiche e poietiche, con l’ultimo grado assegnato alle scienze del produrre, per il loro avere il loro fine fuori di sé, implicava ovviamente, oltre la fondazione in ambito metafisico-ontologico, il riferimento alla valutazione dei lavori materiali e della produzione di artefatti nell’ambito della gerarchia dei valori e dei poteri della polis. Ma ancor più l’elaborazione della forma attraverso διάνοια nelle téchnai consentiva ad Aristotele, attraverso la distinzione tra αφαιρέσις e πρόσθεσις, di legittimare all’interno dello stesso ποιειν una gerarchia di funzioni per la quale non era il lavoratore manuale, il χειροτέχνης, che potesse avere la migliore conoscenza della forma che doveva incorporare nella materia, bensì il committente che di quella forma possedeva la conoscenza.

E sono due le arti che comandano sulla materia e la conoscono: l’una è quella che ne fa uso pratico, l’altra fa parte delle attività costruttive ed è l’architettonica. Perciò anche l’arte che ne fa uso pratico è, in certo senso, architettonica; ma la differenza è nel fatto che l’architettonica ha competenza della forma, mentre l’altra, in quanto attività costruttiva, ha competenza della materia. Il nocchiero, ad esempio, conosce quale sia la forma del timone e la controlla; il costruttore, invece, sa da qual legno e da quali movimenti il timone potrà venir fuori. Nelle cose artificiali, dunque, siamo noi a trar fuori la materia per raggiungere il fine dell’opera; nelle cose naturali, invece, la materia già esiste (Phys., II, 194 b).65

Ma era ben difficile che il pastore dell’Essere, il filosofo di Messkirch, potesse mettere a tema questa articolazione interna alla prassi aristotelica, giacché questo avrebbe significato per lui trovare un possibile luogo del senso in una relazione sociale e in una determinata configurazione storica.

Cosa che per principio gli era vietata, visto il suo obbligarsi a ricercare senso esistenziale e storico, ben al di là del mondo degli enti, solo e incondizionatamente nella relazione tra Essere ed Esserci. Ma rimanendo in tal modo insensibile a quella gerarchia che si dava nella téchne aristotelica, e che di lì condizionerà l’intera storia della tecnica occidentale, tra colui che possedeva il logos e colui che aveva le mani nella materia sensibile dell’oggetto. Varrà dunque concludere con le parole di Margherita Isnardi Parente:

Aristotele […] non ripone il vero, autentico ποιεν nell’esecuzione, nel ‘fare’ in senso strettamente fisico. Al limite di questa posizione c’è la considerazione dello schiavo come ‘strumento animato’; ma pur ponendosi a un livello superiore a quello dello schiavo, anche il χειροτέχνης non è, in senso proprio il produttore, ma solo l’esecutore materiale della produzione, che è già tutta contenuta essenzialmente nel sapere di chi la dirige, l’esecuzione non essendo che un corollario del ragionamento produttivo in cui il vero atto di produzione risiede.66


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Note
1 Calogero (1967; 1999).
2 Heidegger (1991).
3 Testo fondamentale per lo studio del significato di τέχνη nel mondo greco è quello di Löbl (1997; 2003). Ma cfr. anche il datato ma utile Schaerer (1930). E ancor prima le ricerche dello studioso francese che alla fine dell’800 ha inaugurato gli studi sulla τέχνη nel mondo greco, Espinas (1890; 1893).
4 Heidegger (1991).
5 Diels-Kranz (21 B 18). 6 Espinas (1897).
6 La dottrina della verità senza la dottrina della città
7 Cornford (2002, 65).
8 Cornford (2002, 55).
9 Cornford (2002, 58).
10 Heidegger (1991, 9).
11 Heidegger (1991, 9).
12 Calogero (1967, 33-61).
13 Calogero (1967, 131-6).
14 Calogero (1967, 189).
15 «L’eleatismo – scrive G. Cambiano – costituisce una frattura netta nel corso di questo processo, opponendosi radicalmente alle tecniche […]. La teoria dell’essere, elaborata da Parmenide, equivaleva a porre un veto alle tecniche, relegandole nell’apparenza e nell’impossibilità. Una teoria dell’essere concepito come immutabile e immobile, non divisibile, tenuto fermo e compatto dalla necessità, non rendeva certo possibile un approccio ai problemi dell’operare e del produrre e anzi eliminava gli strumenti concettuali appropriati per effettuarlo» Cambiano (1991, 20).
16 Vegetti (1976, 435-6).
17 «Perciò io non ho davvero ritenuto che ad essa occorresse un nuovo postulato alla stregua delle cose inesperibili ed inespicabili, per le quali è necessario, se qualcuno si accinga a parlarne, servirsi di un postulato, ad esempio le cose celesti o sotterranee: se qualcuno pronunciasse giudizi intorno ad esse e alla loro condizione, né a lui stesso che parla né a chi lo ascolta sarebbe chiaro, se essi siano veri o no. Non vi è infatti alcun punto di riferimento grazie al quale sopraggiungere la certezza» Vegetti (1976, 161).
18 «Ma non troverai misura alcuna, né numero né peso, la quale valga come punto di riferimento per un’esatta conoscenza se non la sensazione del corpo» (ivi, 170).
19 Su Alcmeone cfr. Introduzione a Opere di Ippocrate, Vegetti (1976, 31-4).
20 «V’è infatti nell’uomo il salato, l’amaro, il dolce, l’acido, l’astringente, l’insipido, e mille altre cose dotate di proprietà diversissime sia per quantità sia per forza. Ed esse mescolate e contemperate l’un l’altra né sono evidenti né causano dolori all’uomo; quando però una di esse sia separata e permanga come sostanza a sé stante, allora diviene evidente e causa dolori all’uomo» Vegetti (1976, 176).
21 Diodoro Siculo, I, 8, 7, cit. in Cambiano (1991, 47).
22 Cambiano (1991, 47).
23 «Che cosa dice infatti Democrito? Che sostanze infinite di numero, indivisibili e senza differenze, e inoltre prive di qualità sensibili e inalterabili, si muovono nel vuoto in cui sono disseminate; e quando si avvicinano tra loro o si incontrano o si intrecciano, si formano delle aggregazioni di cui l’una si presenta come acqua, l’altra come fuoco, l’altra come pianta, l’altra come uomo. E tutto costituiscono le “forme indivisibili”, com’egli le chiama, e non esiste null’altro che queste: perché non vi è generazione dal non essere ma neanche dagli esseri potrebbe nascere nulla poiché non possono, per la loro solidità, né subire alcunché né trasformarsi: onde né il colore può provenire da ciò che non ha colore, né la natura o l’anima da ciò che è privo di qualità inalterabile» (Plutarco, Adversus Colotem, 8,1110 F).
24 Cambiano (1991, 48).
25 Heidegger (1991, 10).
26 Platone (1970, vol. I, 318).
27 Platone (1970, vol. I).
28 Vernant (1997, 47-8).
29 Platone (1970, vol. I, 322).
30 Platone (1970, vol. I, 322).
31 Platone (1970, vol. 1,322).
32 Heinemann (1961, 116).
33 Espinas (1893, 34-5). Su questo tema cfr. anche Espinas (1890; 1891). Ma su questo tema cfr. ancora Balansard (2006, 41-9).
34 Aristotele (1991, 22-23).
35 Tannery (1882, 66-8).
36 Vitruvio, De architectura, Libro VII, cit. in Espinas (1893, 501).
37 Diog. Laert., Vite dei filosofi, IX, 51, cit. in Untersteiner (1996, 35).
38 Sesto Empirico, Contro i logici, 1. 60, cit. in Maso, Franco (1995, 79).
39 «πάντων χρημάτων μέτρον εστίν άνθρωπος, των μέν όντων ως έστιν, των δε ουκ όντων ως ουκ έστιν» (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 60). Qui si accetta la traduzione di Mario Untersteiner, in Untersteiner (1996, 65).
40 Sext. Emp., Schizzi pirroniani, I, 218, cit. in Untersteiner (1996, 83).
41 Platone (1970, vol. II., 261).
42 Heidegger (1991, 10).
43 Per una accurata analisi, su un piano lessicale e terminologico, del concetto di téchne nell’opera platonica cfr. Balansard (2001); cfr. anche Balansard (èd., 2003).
44 Cambiano (1991, 74-5).
45 Isnardi Parente (1996, 17).
46 Platone (1970, vol. I, 405).
47 Vegetti (1979, 60).
48 Calogero (1967, 124).
49 Cambiano (1991, 194-5).
50 Platone (1970, vol. II, 459).
51 Platone (1970, vol. II, 204).
52 Platone (1970, vol. II, 462).
53 Isnardi Parente (1966, 45).
54 Platone (1970, vol. I, 322).
55 Platone (1966, vol. II, 991).
56 Platone (1966, vol. II, 476).
57 Isnardi Parente (1966, 18).
58 Protrettico, framm. 5 cit. in Isnardi Parente (1966, 88).
59 Aristotele (1978, 250).
60 Aristotele (1978, 250).
61 Aristotele (1978, 532-3).
62 Aristotele (1978, 533).
63 Isnardi Parente (1966, 92).
64 Heidegger (1991, 8).
65 Aristotele (1968, 34-5).

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