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La politica economica tra inflazione e stabilità finanziaria

di Marcello Spanò

siliconValleyBankIl fallimento di Silicon Valley Bank – la sedicesima più grande banca degli Stati Uniti – e le altre scosse telluriche del sistema finanziario a cui abbiamo assistito in questi giorni riportano all’attenzione il tema dell’instabilità finanziaria. Ancora non sappiamo se questi siano i primi anelli di una lunga catena o se il contagio verrà in qualche modo arginato. Ciò che possiamo constatare è che, ancora una volta, l’economia capitalistica ad alta intensità finanziaria in cui ci tocca in sorte vivere si conferma fragile e soggetta a rischi sistemici. Al posto di azzardare previsioni, pratica su cui gli economisti si esercitano ostinatamente e la maggior parte delle volte inutilmente, preferisco qui avanzare alcune considerazioni sugli elementi di novità che emergono da questi (primi?) fallimenti e sulle linee guida di politica economica che dovrebbero esserne tratte.

 

1. I safe assets non sono safe

La prima considerazione che mi sembra opportuno sottolineare è un paradosso: i titoli del debito pubblico, normalmente considerati un rifugio per il loro basso grado di rischiosità (safe assets) sono stati proprio quelli che hanno portato la SVB al fallimento.

Una quindicina d’anni fa, quando l’intero mondo della finanza franava a causa del crollo dei titoli derivati il cui profilo di rischio era del tutto opaco e la cui valutazione tecnicamente contorta era affidata ad esperti che di economia sapevano poco o nulla, gli investitori finanziari spostarono somme enormi di ricchezza sui titoli di Stato, considerati appunto un buon rifugio di fronte al panico e all’incertezza del momento.

A dispetto della teoria economica dominante che suonava l’allarme ad ogni aumento del debito pubblico, il mondo reale si buttava a capofitto nell’acquisto del debito pubblico nonostante l’aumento e senza che i tassi ne risentissero.

Oggi, invece, l’elemento destabilizzante risultano essere proprio i titoli del debito pubblico (e quelli obbligazionari in generale). Perché questo avviene? Teniamo conto innanzitutto che un titolo del debito pubblico è considerato sicuro perché, oltre a garantire al suo detentore di recuperare a scadenza tutto il capitale con l’interesse stipulato al momento della sua emissione, è emesso da un debitore, lo Stato, che non è soggetto a rischio di default, purché sia dotato di sovranità monetaria, come è il caso degli Stati Uniti. Il problema è che oggi è estremamente raro che la domanda di titoli di Stato provenga da individui o istituzioni che intendono conservarli fino alla scadenza. Il titolo viene invece acquistato con l’intenzione di rivenderlo sul mercato quando il suo prezzo aumenta, guadagnando la differenza. Da un anno a questa parte, con l’aumento rapido e – come si sta vedendo – non indolore dei tassi d’interesse, il valore di mercato dei titoli di stato è notevolmente diminuito. La SVB, banca delle imprese startup, a fronte di un’inondazione di depositi da parte dei suoi clienti (che aumentarono da 102 a 189 miliardi di dollari nel 2021), ha accumulato titoli presunti “safe” per coprirsi dal rischio di liquidità. L’aumento rapido dei tassi d’interesse a cui abbiamo assistito a partire dal 2022, ha generato, dal lato del passivo bancario, un ritiro generalizzato dei depositi da parte dei clienti e, dal lato dell’attivo, una perdita di valore di quei titoli che, nelle intenzioni della banca, avrebbero dovuto servire per recuperare sul mercato la liquidità necessaria a fronteggiare la restituzione dei depositi. Il risultato è che la banca si è ritrovata al contempo illiquida e insolvente, e a ben poco è valso il tentativo di capitalizzazione intrapreso mentre la nave stava affondando.

Tutto il meccanismo di copertura contro il rischio di illiquidità messo in piedi dalla banca si è fondato sull’assunzione che i titoli di Stato avrebbero mantenuto stabile il loro valore. Effettivamente questo scenario poggiava su quanto si è osservato nel lungo quindicennio successivo alla crisi del 2007-08, caratterizzato da tassi d’interesse virtualmente nulli e prezzi stabili. Ma come avvertiva il vecchio Keynes, assumere che il futuro sarà uguale al passato e al presente è una delle tipiche tecniche di comportamento di chi si affida a una convenzione per rimuovere il problema dell’incertezza fondamentale sul futuro. E come scrive Lordon, “la qualità degli attivi senza rischio, o di attivi altamente liquidi, non è una proprietà essenziale intrinseca di certi titoli, bensì una caratteristica di circostanza, contingente… e reversibile.”[1] Il comportamento di SVP, per quanto finalizzato alla copertura contro un rischio, era comunque di tipo speculativo, nel senso che era fondato sulla scommessa dell’invariabilità dei prezzi degli stock obbligazionari. Scommessa persa.

 

2. Il conflitto fra reddito e ricchezza

L’innalzamento rapido dei tassi d’interesse voluto dalle banche centrali ci rivela un secondo paradosso: nel conflitto fra creditori e debitori, entrambi perdono, in quanto, se ai debitori pesa la perdita di reddito reale, ai creditori pesa la perdita di valore delle attività finanziarie.

I mutuatari, come è noto, hanno visto nell’ultimo anno impennarsi le rate dei mutui a tasso variabile, che insieme all’inflazione hanno determinato un assottigliarsi del reddito disponibile per le spese di sostentamento e della domanda dei consumi. Come si insegna nei corsi base di macroeconomia, l’aumento del tasso d’interesse disincentiva anche gli investimenti reali (anche se il costo dell’indebitamento non è l’unico tra i fattori che determinano la domanda di investimento, e secondo alcuni nemmeno il più importante). Qualche commentatore puntualizza che un aumento dell’interesse, in quanto comporta una redistribuzione del reddito dai debitori ai creditori, ha effetti non automaticamente determinabili sulla spesa complessiva. Tuttavia, dovrebbe essere abbastanza palese, data la diversa propensione al consumo, che l’impatto negativo del taglio di reddito dei debitori più che compensa quello positivo dell’incremento di reddito dei creditori.

Tutto questo riguarda però il lato del reddito, che è solo una parte della storia. Ma nelle economie altamente finanziarizzate, in cui i valori della ricchezza reale e gli attivi e passivi finanziari sono cresciuti nei decenni in misura sproporzionata rispetto alla crescita del reddito, il terremoto in grado di mettere a rischio la tenuta del sistema monetario e finanziario, con pesanti ricadute sulla sfera reale dell’economia, sembra provenire non dalle variazioni dei redditi, ma dalle variazioni del valore di mercato della ricchezza.

I percettori di reddito penalizzati da inflazione e tassi d’interesse in aumento, per quanto sofferenti, sopportano l’impoverimento con una certa elasticità e capacità di adattamento. Questa capacità di sopportazione è variabile a seconda del contesto culturale e politico: in alcuni paesi coloro che assistono all’assottigliarsi del loro reddito reale sono più combattivi (come in Francia), in altri più disorientati (come in Italia, dove da trent’anni al conflitto sociale preferiamo affidarci al santo o alla santa di turno, spostando di tanto in tanto il nostro capitale di fiducia verso un salvatore della patria nuovo di pacca). Al contrario, l’impatto di un crollo del valore delle azioni (come quello della crisi del 2007-08, o del 2001, o del 1987) o dei valori immobiliari (ancora 2007-08) o del valore delle obbligazioni (come quello del 2022-23), è molto più rapido e non ha bisogno di tempi di cottura particolarmente lunghi, poiché genera un disallineamento immediato tra attivi e passivi dei colossi finanziari cui affidiamo il valore della nostra ricchezza.

Le banche centrali sono tipicamente molto preoccupate delle conseguenze delle variazioni degli stock di ricchezza. Come sottolinea Steve Keen, fin dalla crisi del 1987, anno in cui il mercato azionario ha subìto il primo allarmante crollo dopo la deregulation dei mercati dei capitali finanziari, il salvataggio tempestivo ad opera delle banche centrali «incoraggiò le istituzioni finanziarie di tutto il mondo a passare da una bolla finanziata dal debito a un’altra, con il risultato che, per la maggior parte dei paesi OCSE, il debito privato è cresciuto a un ritmo decisamente più veloce del PIL» nei tre decenni precedenti la crisi del 2007-08.[2] A ulteriore conferma della priorità che le banche centrali attribuiscono alle variazioni degli stock rispetto alle variazioni dei redditi, l’economista italo canadese Mario Seccareccia ha evidenziato come le manovre di quantitative easing messe in atto dalle banche centrali a partire dalla crisi del 2007-08 hanno deliberatamente sacrificato le rendite da interesse (portando i tassi a livelli virtualmente nulli) con lo scopo di salvaguardare il valore di mercato degli stock.[3] Come hanno scritto recentemente Kelton e Wray, «[g]radualmente, i mercati si adattarono a bassi interessi persistenti. In questo nuovo ambiente, indebitarsi aveva senso. Detenere titoli a lungo termine aveva altrettanto senso. I mercati finanziari si gonfiarono. Gli individui si arricchirono.»[4]

In sintesi, nel confronto conflittuale fra creditori e debitori, riscopriamo in questi giorni che, in conseguenza dell’aumento dei tassi d’interesse, i debitori perdono reddito reale, mentre i creditori, sebbene guadagnino qualcosa in termini di reddito, perdono il valore delle loro attività finanziarie. Tra i due effetti, uno di reddito e uno di ricchezza, il primo è quello su cui più spesso si concentra l’attenzione degli economisti (oltre che di chi vive soprattutto dei risultati del proprio lavoro), il secondo però è quello che detta legge in finanza, dove un rialzo dei tassi d’interesse significa che per il creditore è il momento di vendere. Il primo è una mano che alza il fuoco della pentola a pressione, il secondo è una scimmia che salta sulla pentola e la rovescia per terra.

 

3. Mutamenti nello scenario internazionale

Una terza considerazione riguarda lo scenario internazionale in cui si inserisce il fallimento della SVB. Siamo in un contesto per certi aspetti simile a quello già vissuto tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni ottanta del novecento, caratterizzato da un’inflazione che è almeno in parte spinta dall’aumento dei costi delle fonti energetiche (meno negli Stati Uniti che in Europa), cui le banche centrali reagiscono con un’impennata dei tassi d’interesse con lo scopo di frenare la domanda e inibire gli adeguamenti dei salari ai prezzi. Tuttavia, oggi le conseguenze sembrano essere diverse: mentre nei primi anni ottanta le politiche restrittive provocarono crisi a catena soprattutto nei paesi in via di sviluppo indebitati con gli Stati Uniti, a partire dalla crisi del Messico del 1982, oggi – salvo smentite in arrivo nel prossimo futuro – le difficoltà sembrano manifestarsi soprattutto negli Stati Uniti e nei paesi occidentali.

Questo cambiamento non può non essere collegato con la trasformazione che il capitalismo a guida statunitense ha vissuto a partire dei primi anni ottanta. Gli Stati Uniti hanno sempre difeso gelosamente la centralità, su scala internazionale, del loro sistema finanziario nazionale, a partire dalla loro valuta. La supremazia politica e militare statunitense ha fatto sì che, fin dall’abbandono degli accordi di Bretton Woods, il circuito della moneta internazionale iniziasse, rifluisse e si rigenerasse nel sistema finanziario statunitense. Negli anni settanta, i fondi liquidi creati dal sistema bancario statunitense e accumulati dai paesi produttori di petrolio rifluivano verso le stesse banche statunitensi in forma di depositi (i petroldollari). Al contempo, gli Stati Uniti promuovevano una politica aggressiva del credito internazionale, che allargava ai governi dei paesi emergenti la platea dei debitori del sistema finanziario statunitense. Con la progressiva deregulation iniziata da Reagan, il sistema finanziario edificato sulla dipendenza dal debito non ha coinvolto soltanto i paesi in via di sviluppo, ma si è ramificato anche all’interno dei paesi ricchi e industrializzati, trasformandosi progressivamente da un sistema regolato e finalizzato prevalentemente allo svolgimento del processo produttivo a un sistema perlopiù speculativo, predatorio, tarato su obiettivi di rendimento di breve periodo e nutrito dalla crescita delle disuguaglianze di redditi.[5] L’architettura finanziaria che ha assicurato centralità al dollaro si è rivelata via via più fragile e soggetta a crolli di tipo strutturale. Per questa ragione, le crisi della finanza che inizialmente si palesavano come crisi del debito periferiche dei paesi in via di sviluppo, col passare del tempo non hanno risparmiato nemmeno le principali potenze occidentali.

Come abbiamo già accennato, le autorità di politica economica, a partire dalle banche centrali, non si sono impegnate a frenare la moltiplicazione dei titoli rappresentativi della ricchezza, né la loro crescita ipertrofica rispetto al prodotto sociale. Non si sono nemmeno impegnate a organizzare una riduzione generalizzata e ordinata dell’indebitamento privato, soprattutto a beneficio delle fasce sociali più deboli. Eppure le proposte in tal senso non sono mancate, come la proposta del “quantitative easing for the people[6], o semplicemente l’assorbimento del debito privato attraverso un intervento pubblico emancipato dal complesso d’impotenza derivato dall’ideologia del pareggio di bilancio.[7] Non sembra illogico, pertanto, inferire che il governo mondiale della moneta e del credito, presidiato dalle banche centrali, è finalizzato alla protezione del sistema finanziario a centralità statunitense, che a sua volta è edificato sulla dipendenza dal debito, da parte di debitori sia domestici che esteri.[8]

Vale la pena, a questo proposito, sottolineare come l’usuale epiteto di grande debitore mondiale attribuito agli Stati Uniti, con riferimento al loro debito netto verso l’estero, per quanto contabilmente corretto, tende a lasciare in ombra la loro posizione di difensori degli interessi dei creditori, vale a dire di un sistema del credito e della finanza internazionale sotto il loro pieno controllo strategico.

Etichettare come debitore un paese che dal secondo dopoguerra emette la valuta di riserva internazionale è fuorviante come considerare un debito le emissioni di liquidità di una banca centrale. Affermare che gli Stati Uniti si possono permettere di “finanziare” l’eccesso di domanda grazie al credito estero è fuorviante come sostenere che le banche erogano crediti solo in conseguenza di una prioritaria raccolta di depositi o i governi spendono solo in conseguenza della raccolta di tasse (o anticipando tasse future).[9] La potenza politica e militare degli Stati Uniti non è tanto finalizzata a garantire loro la possibilità di indebitarsi con l’estero, quanto piuttosto a preservare la centralità del loro sistema creditizio come quartier generale del capitale mondiale. L’arroccamento protezionistico degli Stati Uniti a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, prima con Trump e adesso con Biden, in particolare in occasione della guerra in Ucraina, non pare tanto interpretabile come il risultato di un debito estero insostenibile, né come la reazione all’acquisizione di azioni USA da parte di capitali accumulati dai paesi creditori netti.[10] Questi fenomeni sono piuttosto leggibili come un effetto, la cui causa risiede nella lenta ma progressiva emancipazione delle nuove potenze economiche, industriali e commerciali, Cina in testa, dall’egemonia del dollaro. La progressiva riduzione dello stock di titoli del debito pubblico statunitense (Treasury bills) detenuti come riserve dalla banca centrale cinese non è un aggiustamento di grandezze finanziarie cresciute fino a diventare quantitativamente troppo abbondanti, bensì un atto deliberato che le ha fatte diventare politicamente abbondanti, e che ha, di conseguenza, innescato quella riallocazione di asset finanziari che ha messo a rischio la centralizzazione del capitale in mani americane, alimentando la torsione protezionista statunitense, o friend shoring. Ridurre questo meccanismo a una questione di contrasto fra una superpotenza “debitrice” e i suoi creditori rischia, a mio parere, di favorire distorsioni prospettiche, se non proprio di indurre a confondere le cause con gli effetti.

 

4. I dilemmi della politica economica

In questi giorni le autorità di politica monetaria si stanno probabilmente accorgendo che risulta alquanto problematico riportare i tassi a valori che prima della crisi del 2007-08 erano considerati normali, dopo un quindicennio di quantitative easing permanente e tassi zero, che ha temporaneamente “risolto” la crisi attraverso un dopaggio sistematico dei valori dei titoli finanziari. L’interruzione della somministrazione di doping, in un sistema che non ha mai avuto motivo di ridurre il grado di indebitamento e di finanziarizzazione, può anche essere dettata da nobili intenzioni, ma non è priva di pericoli.

Se le autorità responsabili della politica economica restano fedeli alle linee guida consegnate loro dalla teoria economica dominante, che assegna alle banche centrali il compito di garantire la stabilità dei prezzi, allora il dilemma, che presumibilmente diventerà più cogente nei prossimi mesi, è una scelta fra due direzioni, entrambe pericolose. Da un lato, le banche centrali possono cogliere l’occasione dell’inflazione, resuscitata dalla tomba dopo quarant’anni, per interrompere e ridurre le misure straordinarie di iniezione di liquidità che hanno gonfiato i valori dei titoli finanziari (il controllo dei quali, a differenza dei prezzi dei beni, non è mai stato un’ossessione delle banche centrali). Il tentativo venne già messo in atto nel 2019, anche se non c’era l’inflazione a fornire un pretesto, ma fu interrotto sul nascere dalla pandemia che richiese una ripresa ancora più massiccia delle emissioni di liquidità. Tuttavia, ogni tentativo di ridurre il farmaco che ha tenuto in piedi il sistema economico a guida finanziaria comporta il rischio di alimentare una nuova pesante crisi bancaria seguita da recessione, o detto in altro modo, di far riemergere la crisi che con il dopaggio è stata soltanto rinviata.

La seconda strada a disposizione delle banche centrali è quella di mantenere i tassi bassi e stabili e immettere dosi di liquidità sufficienti ad evitare crolli finanziari. Il pericolo è che questa strada tutela gli speculatori che avrebbero la garanzia di poter scaricare sulla collettività, anziché sul proprio portafoglio, le perdite causate dalle loro decisioni d’investimento finanziario. Inoltre, questa linea di politica monetaria, che abbiamo definito dopante, potrebbe portare a perdere il controllo di patologie che sono ormai diventate endemiche nelle nostre economie, come una dinamica vivace di accrescimento della ricchezza finanziaria e reale sproporzionata rispetto alla crescita della produzione e la moltiplicazione delle attività finanziarie alimentate dal debito. Un intreccio crescente di attivi e passivi finanziari è in grado di subordinare l’economia reale alle logiche dell’alta finanza, con la conseguenza di scollegare la creazione di credito e moneta dalla sfera della produzione reale o, per usare le parole di Keynes, di far sì che la speculazione predomini sull’intraprendenza.

I problemi dell’inflazione e della stabilità finanziaria, invece, potrebbero trovare una soluzione più adeguata se si riuscissero a rimettere in discussione i fondamenti teorici che ispirano l’azione delle autorità preposte al governo dell’economia. Personalmente sono d’accordo con quanti ritengono che il compito di affidare il controllo dell’inflazione vada tolto alle banche centrali e affidato alla politica fiscale. Il controllo dell’inflazione, però, non deve essere interpretato univocamente come freno alla domanda aggregata. Nei paesi come l’Italia, caratterizzati da alta disoccupazione, bassa domanda domestica e un’inflazione spinta dall’aumento di costi energetici, la strategia dovrebbe, piuttosto, puntare sull’abbattimento radicale di tasse tipicamente inflazionistiche e regressive come l’imposta sul valore aggiunto. Un aumento del disavanzo pubblico generato da una riduzione dell’IVA o da qualsiasi misura che riduca il costo dei beni energetici per i consumatori e le imprese avrebbe un effetto immediato di contrasto all’inflazione, di difesa del potere d’acquisto, e quindi dei livelli reali di domanda e prodotto interno lordo. Al contrario di quanto predicano i custodi della teoria economica dominante, il disavanzo pubblico non sarebbe altro che una conseguenza dell’aumento dei prezzi (un adeguamento endogeno della quantità di moneta circolante) e non la causa.

In assenza di disponibilità della BCE a coprire un maggior disavanzo fiscale con opportune emissioni di moneta accomodanti, è possibile ricorrere a strumenti di moneta fiscale, che non creano debito in euro.[11] Inutile dire che entrambe le manovre – abbattimento dell’IVA con disavanzo pubblico o con moneta fiscale – oggi non hanno alcun diritto di cittadinanza né tra i partiti di governo, né tra quelli di opposizione, né tra le istituzioni italiane, né tra quelle europee che in ultima istanza eterodirigono le nostre politiche economiche.

Per quanto riguarda le banche centrali, se fossero liberate dall’onere di controllare i prezzi dei beni, potrebbero finalmente concentrarsi sull’obiettivo della stabilità finanziaria. Mantenere i tassi d’interesse bassi e stabili e usare il ruolo di prestatori di ultima istanza in caso di crisi di illiquidità per prevenire contagi e fallimenti a catena è una condizione necessaria ma non sufficiente a garantire stabilità. Le banche centrali dovrebbero anche presiedere a una riorganizzazione dell’intera struttura del sistema finanziario, in cooperazione con altre istituzioni regolatrici nazionali e internazionali.

Certo, una supervisione non sonnecchiante sarebbe già un passo avanti, ma va detto che l’approccio microeconomico oggi prevalente al problema dell’instabilità, che insiste nel sorvegliare il rischio di insolvenza di singoli istituti bancari con stress test e regole farraginose sui requisiti di capitale passa di fianco al vero problema, che non è l’insolvenza ma l’illiquidità; non il rischio della singola banca, ma il rischio sistemico. Le proposte, più o meno radicali, di riforme strutturali e di deleverage del sistema finanziario non mancano. Oltre a quelle già accennate sopra (QE for the people), possiamo ricordare quelle degli Économistes atterrés francesi, che auspicano una mutazione della struttura del sistema bancario in un sistema “de-privatizzato”, sempre decentrato in istituti dotati di autonomia decisionale, ma con una separazione ermetica di funzioni fra istituti diversi, nonché forti limitazioni del campo di azione, degli strumenti finanziari utilizzabili e dei rischi (soprattutto quelli di natura speculativa).[12] Proposte non dissimili sono stata avanzate negli stessi anni dalla New Economics Foundation, con sede a Londra.[13]

Tutte queste eresie avrebbero una maggiore legittimità, o almeno potrebbero essere discusse senza smorfie di orrore, se si riconoscesse il fallimento del pensiero macroeconomico dominante cristallizzato nei manuali, nei corsi base di economia e anche nella stragrande maggioranza dei corsi più avanzati e specialistici. Anche oggi, come negli anni trenta del novecento, viviamo «in uno di quei momenti della vicenda umana nei quali si può essere salvati solo dalla soluzione di un problema intellettuale.»[14]


Note
[1] Lordon, L’effarante passivité de la «re-régulation financière», in Les Economistes atterrés,  Changer d’économie! Nos propositions pour 2012, LLL, 2011, p.232.
[2] S. Keen, The global financial crisis, credit crunches and deleveraging, Journal of Australian Political Economy, 64, 22 – 36, 2009.
[3] M. Seccareccia, “Which Vested Interests Do Central Banks Really Serve? Understanding Central Bank Policy Since the Global Financial Crisis.” Journal of Economic Issues 51 (2), 2017, 341–50.
[4] S. Kelton e L. R. Wray, Magical Monetary Thinking at the Fed Killed SVB, 2023. https://open.substack.com/pub/stephaniekelton/p/magical-thinking-monetary-thinking?utm_source=direct&utm_campaign=post&utm_medium=web
[5] W. Hutton, Europa vs. Usa, Fazi Editore, 2004, capitolo 6.
[6] S. Jourdan, “EUROPE: 19 economists call on the ECB to make ‘QE for the people’ in a letter to the Financial Times”, 2015. https://basicincome.org/news/2015/03/europe-quantitative-easing-for-people/
[7] W. Mitchell, “Private deleveraging requires fiscal support”, http://bilbo.economicoutlook.net/blog/?p=115452, 2010.
[8] R. Desai e M.Hudson, Beyond the dollar creditocracy: a geopolitical economy, Valdai papers, 116, 2021. https://valdaiclub.com/a/valdai-papers/valdai-papers-116/
[9] L.R. Wray “Alternative path to Modern Money Theory.” Real-World Economics Review 89, 2019, 5 – 22.
[10] Quest’ultima tesi è argomentata nel libro di E. Brancaccio, R. Giammetti e S. Lucarelli, La guerra capitalista, Mimesis, 2022.
[11] B. Bossone, M. Cattaneo, E. Grazzini e S. Sylos Labini (a cura di), Per una moneta fiscale gratuita, Ebook di Micromega, 2015. https://download.kataweb.it/micromega/monetafiscalegratuita.pdf
[12] Si veda il teso di F. Lordon, già menzionato (nota 1).
[13] Si veda anche L. Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011.
[14] J. M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, a cura di G. Lunghini, Bollati Boringhieri, 1991, p. 7.

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