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Gaza sarà la tomba del progetto sionista israeliano?

di Giacomo Marchetti

Palestina carro armato conquistato 599x300.jpgLa reazione israeliana all’operazione Diluvio d’Al-Aqsa, lanciata da Hamas ed appoggiata da tutte le forze della Resistenza palestinese, sta scatenando un conflitto su scala regionale dalle implicazioni internazionali e dagli esiti quanto mai incerti per Israele, proprio come fu nel 1948, nel 1967 e nel 1973.

La dirigenza israeliana che guida il nuovo Governo di Unità Nazionale e che sta attuando l’escalation, porta per intero sulle proprie spalle la responsabilità di un conflitto da cui potrebbe però uscire con le ossa rotte a livello interno, regionale e internazionale.

L’imperialismo euro-atlantico che in questi decenni – dalla firma degli Accordi di Oslo in poi – ha assecondato totalmente la politica dello Stato d’Israele è co-responsabile della situazione che si è creata, perché non ha neanche lontanamente prefigurato uno sbocco positivo alla questione palestinese, ma ha invece contribuito al suo “politicidio”, derubricandola a questione secondaria.

Ora influenti attori del mondo multipolare, come la Russia e la Cina, hanno rimesso sul tappeto l’ipotesi di una risoluzione comprendente la costituzione di uno Stato palestinese, secondo la formula dei “due Stati”.

La causa palestinese è oltretutto fortemente sostenuta dal nuovo “fronte del rifiuto” (Algeria, Iran, Iraq, Siria), pronto forse ad intervenire anche manu militari in questa nuova tappa del conflitto arabo-israeliano, a cominciare dall’Iran e dall’arco della forza della Resistenza della cosiddetta “Mezzaluna sciita”, Hezbollah in primis.

Il congelamento del processo di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Arabia Saudita e Israele, patrocinato dall’attuale amministrazione Biden, e le oceaniche manifestazioni nel mondo arabo-islamico o le pressioni di un’opinione pubblica per la stragrande maggioranza favorevole alla Palestina, stanno mettendo in seria difficoltà sia i paesi che avevano storicamente normalizzato i rapporti con l’entità sionista (Giordania ed Egitto), sia quelli che avevano iniziato a farlo con i cosiddetti Accordi d’Abramo (EAU, Bahrein, Marocco e Sudan), a partire dall’estate del 2020.

Ma se si allarga il campo a tutti i paesi del mondo mussulmano, e in generale al Tricontinente, la causa palestinese è diventata una nuova linea di frattura nel mondo multipolare, con i popoli hanno scelto chiaramente da quale parte della barricata stare.

La questione sta interessando anche l’Occidente, dove con grande difficoltà si cerca, anche restringendo gli spazi d’azione politica – Francia, Germania e Gran Bretagna in primis -, di silenziare in maniera comunque inefficace il sostegno alla causa palestinese.

Parigi, Londra e Berlino, sulle questioni internazionali, otterranno solo un’ancora maggiore polarizzazione sul fronte interno. E proprio mentre l’impasse del conflitto in Ucraina costringe a ridefinire il grado di impegno che si è disposti a profondere in una guerra che si vorrebbe combattere “fino all’ultimo ucraino”.

Questa “rottura” della passività e dello stato di letargia si è evidenziato anche nel nostro paese dove – fatto piuttosto interessante – manifestazioni apertamente antimperialiste e internazionaliste hanno attraversato le nostre città in un rinnovato spirito di identificazione con l’insurrezione palestinese, come ai tempi della Prima (1987-’93) e della Seconda Intifada (2000-2005).

Ma che ha le sue radici con la solidarietà che il Lungo ’68 italiano ha storicamente espresso con la causa palestinese.

Identificarsi con la lotta dei popoli oppressi, nel nostro Paese dagli Anni Cinquanta, è un tratto distintivo della cultura di classe e internazionalista, e in generale delle forze progressiste. Un legame mai reciso nonostante la sistematica volontà di smantellarlo da parte degli “eredi” politici del PCI e dei suoi corpi intermedi, e di chi a loro si è accodato.

Ciò è avvenuto in un contesto in cui una parte non trascurabile del ceto politico della Prima Repubblica mostrava (con una certa lungimiranza) una relativa autonomia almeno rispetto alla politica medio-orientale, a differenza della totale subalternità ai diktat Usa-Nato-Ue di tutti gli esecutivi che si sono succeduti (compresi quelli di centro-sinistra) dalla fine del “mondo bipolare” in poi.

Un humus internazionalista in cui chi aveva fatto materialmente la Resistenza si identificava “naturalmente” con i popoli in lotta contro il colonialismo, nato con l’appoggio alla battaglia del FLN algerino (1954-62) (“La Battaglia d’Algeri” di Gillo Pontecorvo è forse la testimonianza più conosciuta).

Pproseguito poi con la lotta del popolo vietnamita, e successivamente dalle battaglie contro il colonialismo portoghese, fino alla campagna per la fine dell’apartheid in SudAfrica e al sostegno alla resistenza palestinese.

Una cultura internazionalista “congelata”, o quasi, per circa 30 anni, ma che ora fà di nuovo irruzione sulla scena politica del nostro paese, come un fiume carsico che riviene a galla, con una composizione di classe mutata – ne sono testimoni i tanti volti degli immigrati di seconda generazione visti nelle attuali mobilitazioni – e le contraddizioni che produce il modo di produzione capitalista, diventate sempre più esplosive.

Ora persino i fascisti sono diventati difensori assoluti della causa israeliana, benvoluti dalle comunità sioniste anche in Europa, che sembrano aver dimenticato in fretta chi sono i “padri politici” nel neofascismo contemporaneo (si pensi ai membri del RN in Francia). Il tutto per difendere quello che ritengono che sia un avamposto della “civiltà occidentale” (del “suprematismo bianco”) in “Medio-Oriente”.

In sintesi, la questione palestinese è tornata a essere un elemento di frattura geopolitica e di polarizzazione anche dentro i perimetri del mondo occidentale; ed è una questione di peso, che costringe a prendere posizione e porta a mobilitarsi. Un fattore insomma di dinamizzazione proprio mentre finisce lo stallo tra blocchi geo-politici.

 

La trappola di Gaza

La Striscia di Gaza potrebbe esser una trappola mortale per i progetti sionisti e Israele non potrà che realizzare, nell’ipotesi più ottimistica per lei, una parte molto relativa dei suoi obiettivi, nonostante la catastrofe umanitaria che ha già scatenato.

Le forze armate israeliane subiranno probabilmente ingenti perdite e si troveranno tra l’altro impegnate su differenti fronti; una situazione a cui la propria dottrina militare, il proprio esercito, i propri sistemi di difesa e la propria popolazione non sono preparati.

Israele finora difendeva manu militari i coloni illegali nella West Bank, assecondava la pulizia etnica a Gerusalemme, applicava la “punizione collettiva” a Gaza come ritorsione al lancio di razzi artigianali che non scalfivano più di tanto la sua sicurezza, costringendo invece gli abitanti della Striscia a vivere in una prigione a cielo aperto che credeva di controllare.

L’azione israeliana porterà un livello di delegittimazione internazionale difficilmente recuperabile, nonostante la propaganda di guerra che spacciano per informazione sul conflitto.

É stato così per tutti i contesti in cui una lotta di liberazione ha mostrato la differenza tra la ‘rappresentazione di potenza’ diffusa dai dominanti e la realtà dalla capacità di resistenza dimostrata dai dominati, aprendo profonde fratture anche nel cuore della metropoli imperialista.

Israele non si è data limiti di tempo per la durata dell’intervento via terra – ha mobilitato i 300 mila soldati, compreso i riservisti – con cui vorrebbe letteralmente annichilire le forze della Resistenza presenti nella Striscia (Hamas, ma anche Jihad Islamica, e le forze della sinistra rivoluzionaria, come il FPLP o le Brigate Al Aqsa), eliminare le infrastrutture che la rendono possibile – in particolare il sistema dei tunnel sotterranei che gli abitanti della Striscia chiamano Metro Gaza – e la liberazione degli oltre cento ostaggi che stanno già morendo sotto le bombe israeliane stesse.

La “dottrina Dahiya”, elaborata nel 2006 da Gadi Eisenkot (anziano capo di stato maggiore israeliano ed ora osservatore nella “cabina di guerra” di Tel Aviv), teorizza l’uso di una forza sproporzionata al fine di raggiungere i propri obiettivi, compreso colpire un’intera zona civile per eliminare alcuni obiettivi militari.

Il nome della dottrina deriva dal quartiere della periferia meridionale di Beirut in cui si trovava la direzione di Hezbollah durante la guerra dell’estate del 2006, ultimo tentativo di incursione “in profondità” di Israele in un territorio esterno, che si è risolto però con una clamorosa sconfitta.

 

Altro che uso “chirurgico” della violenza

Proprio il caso libanese dimostra che l’offensiva terrestre può risolversi in un fiasco, specie – come in questo caso – in un ambiente urbano estremamente popolato dove il combattimento casa per casa, dall’assedio di Fallujah in Iraq, può annullare o quasi la superiorità tecnologica dell’occupante.

Gaza non ha più colonie israeliane al suo interno dall’estate del 2005, quando Tel Aviv decise di smantellarne 21, mantenendo però il controllo delle frontiere terrestri, aeree e marittime.

Dal 2006 Israele lancia ciclicamente operazioni su Gaza, ed è con la cacciata di Fatah e la presa del potere di Hamas dalla Striscia, nell’estate del 2007, che è stato messo in atto un blocco israelo-egiziano continuato fino a oggi.

Nel 2008, 2012, 2014, 2021, Israele ha lanciato operazioni militari contro la Striscia senza però riuscire a sradicare la Resistenza palestinese o indebolirne le capacità, come peraltro ha dimostrato l’operazione Diluvio di Al-Aqsa.

Neanche la fine della costruzione della nuova barriera attorno a Gaza, che si estendeva per 65 km, costata 1,1 miliardi di dollari, dopo tre anni di lavori (terminati nel 2021), ha limitato le capacità offensive della Resistenza, ma ha anzi offerto un obiettivo con cui l’insurrezione palestinese si è identificata.

I vertici dell’esercito (IDF) pensavano che con i “bombardamenti a tappeto” e il tiro al piccione nei confronti dei manifestanti quando si avvicinavano ai confini israeliani – come è avvenuto con la “Marcia per il ritorno” nel maggio 2018, in occasione dell’anniversario della Nakba del 1948 – il problema della Striscia fosse stato risolto, sopratutto dopo l’installazione del sistema di protezione di difesa missilistico nel 2011, con cui si pensava di intercettare tutti i razzi lanciati dalla Striscia, così come dal Libano.

Ma il mix di asservimento economico – Israele controlla il rifornimento di elettricità, acqua e in parte cibo -, chiusura ermetica (con l’eccezione di due valichi verso Israele ed Egitto), e azione militare punitiva, non ha impedito di colpire Israele in profondità, segno inequivocabile del fallimento di una strategia puramente militare, dettata da orientamento politico “suprematista”.

Come scrivevano i compagni in Israele, ai tempi, i suoi abitanti avrebbero potuto scegliere tra il sionismo e la pace, ma hanno preso la decisione sbagliata, avevano già fatto i pieds-noir in Algeria, che crearono l’OAS in ostilità con la soluzione che stava mettendo in campo De Gaulle; o l’estrema destra sudafricana, che non voleva superare l’era dell’apartheid giunta al capolinea.

Con la volontà di risolvere militarmente la situazione, Israele ha decretato il suo ennesimo fallimento strategico ed il suo suicidio.

 

Gaza sarà la tomba del sionismo

É quello che analisti ed esperti cercano di dire in maniera meno assertiva e magari “in punta di penna”, e che la parte più cosciente della comunità internazionale sta cercando di far capire a Tel Aviv, ma – per ora – senza convincerla.

L’avventurismo bellicista delle classi dirigenti occidentali – Israele compresa – ci sta trascinando verso l’ennesimo salto di qualità della “Terza Guerra Mondiali a pezzi”.

Abbiamo sotto gli occhi la dimostrazione che non ci può essere pace in Medio-Oriente senza la soddisfazione di una parte consistente delle aspirazioni palestinesi, che vanno perciò sostenute senza se e senza ma.

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