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alternative

Contro l’idea della vittoria

di Alfonso Gianni

9788858123874.jpg"Deve essere sembrato a molti che in un convegno sulle prospettive del mondo di domani fosse almeno impertinente (…) chiedere la parola per ricordare ai convenuti che 'domani' il mondo, in quanto mondo culturale umano, può finire e che una qualsiasi risposta a come possa e debba essere “domani” il mondo comporta la domanda preliminare se 'domani' vi sarà un mondo e se oggi non vi sia il rischio che almeno certe forze cospirino alla sua fine”1

Con una modifica certamente non irrilevante, di parole e di senso, rispetto al sacro testo da cui è estrapolato,2 si potrebbe riproporre il celebre interrogativo: “Sentinella a che punto è la guerra?” e la risposta sarebbe “In stallo”. Naturalmente se si guarda il campo di battaglia. La pluriproclamata controffensiva ucraina ha dato scarsi e deboli segnali di sé e soprattutto nessun successo sostanzioso. D’altro canto l’avanzata russa si è fermata a consolidare le posizioni fin qui raggiunte. Naturalmente non tutte le narrazioni sono concordi, come sempre succede in tempo di guerra per ogni guerra. Il segretario della Nato Jens Stoltenberg non perde occasione di magnificare le possibilità di vittoria finale dell’Ucraina esaltando i passi in avanti fin qui fatti. In una visita improvvisata a Kiev lo scorso 28 settembre, parlando in una conferenza stampa congiunta con Volodymir Zelensky, ha affermato con enfasi che le forze ucraine starebbero “gradualmente guadagnando terreno … ogni metro che le forze ucraine guadagnano è un metro che la Russia perde”.3

Per la verità già le parole del segretario della Nato non danno l’impressione di una controavanzata rapida e travolgente. Nella stessa giornata il New York Times commenta la situazione bellica in tutt’altro modo. Facendo riferimento ai dati forniti dall’Institute for the Study of War4 l’autorevole quotidiano sostiene che nessuna delle due parti durante l’anno in corso avrebbe ottenuto i successi sperati. “La linea del fronte, dopo mesi di estenuanti combattimenti e pesanti perdite, rimane in gran parte invariata.” Intanto l’autunno è iniziato e da quelle parti l’inverno si palesa prima delle date canoniche. Quindi il terreno di battaglia si fa sempre più sdrucciolevole e infangato. Vi è chi sostiene che questa situazione finisca per favorire comunque la Russia, la quale non perderebbe nulla anche se non avanza. Può essere. Ma non si può sottovalutare il fatto che il mito della rapida e vincente “operazione speciale” è più che impallidito anche agli occhi della popolazione russa. Lo dimostrano l’indisponibilità a correre alle armi che, seppure in modo sotterraneo vista la pesante repressione che ne consegue, si sta diffondendo tra i giovani russi. Fenomeno che avviene anche in Ucraina, seppure dentro una guerra è praticamente impossibile fornire delle quantificazioni credibili di tali resistenze alla partecipazione attiva allo scontro militare.

 

I mutamenti di opinione sulla guerra e il suo esito

Nello stesso tempo l’Occidente, pur ovviamente con differenze tra Paese e Paese, si mostra meno pronto nelle forniture di armi che Zelensky chiede a ogni piè sospinto e anche Giorgia Meloni ha dovuto riconoscere di avere rilevato una certa “stanchezza” per quanto riguarda il sostegno all’Ucraina da parte dell’opinione pubblica del nostro Paese. Cosa peraltro segnalata anche in recenti sondaggi. Tra questi, come sempre non tutti concordi al dettaglio tra loro, ma univoci nel segnalare una linea di tendenza, si può prendere in considerazione quello della Swg del 2 ottobre che dall’indagine effettuata trae questa interessante e articolata conclusione: “In merito alla questione del sostegno militare all'Ucraina, le posizioni degli italiani risultano piuttosto divise. Un terzo preferirebbe interrompere le forniture belliche, ma è più ampia - il 47% - la quota di quelli che ritengono l'invio delle armi ancora necessario. Gran parte di questi, però, non supportano aiuti militari incondizionati. Auspicano piuttosto una parallela accelerazione del negoziato, mettendo in conto anche la possibilità che l'integrità territoriale dell'Ucraina alla fine non venga preservata nell'eventualità in cui gli Stati Uniti dovessero porre fine all'invio di armi, cosa di cui se ne sta parlando.”5 L’analisi delle risposte ottenute mette quindi in luce una maggiore articolazione delle posizioni degli intervistati, fermo restando, come dice la stessa titolazione con cui il centro di ricerca presenta gli esiti del sondaggio, che per il "Sì alle armi all'Ucraina" si pronuncia ormai solo la minoranza degli intervistati. Qualcuno potrebbe ritenere questo atteggiamento dovuto a una “stanchezza per assuefazione” rispetto alle notizie che giungono dal fronte della guerra. Può essere che sussista anche questa causa, ma non sarebbe in ogni caso il dato principale, stando allo stesso sondaggio. Proprio perché anche tra coloro che ritengono necessario l’invio di armi, vi sono quelli che vorrebbero che questo non fosse incondizionato, ovvero determinato senza obiezioni dalle richieste di Zelensky e, cosa ancora più importante, che l’invio di materiale bellico non ostacoli la possibile apertura di negoziati di pace. Per quanto contraddittoria possa apparire questa posizione, dal momento che il foraggiamento bellico in sé ostacola o quantomeno contrasta il fatidico primo passo verso la pace, essa appare più di buon senso di quelle della stragrande maggioranze dei governanti e delle élite dello schieramento euroatlantico.

Ma contrarietà o almeno dubbi di fondo emergono anche tra gli intellettuali, anche tra quelli che non avremmo potuto annoverare in uno schieramento tradizionalmente pacifista. Per restare nel nostro Paese vale la pena di ricordare quanto Massimo Cacciari risponde a una intervistatrice in modo molto netto: “L’idea che la contesa possa risolversi sul campo, con un sistema di vittorie e sconfitte stile Seconda guerra mondiale, è suicida”.6

 

Gli arsenali dell’occidente si stanno svuotando

Per Zelensky e chi vorrebbe sospingerlo alla vittoria il problema non è solo rappresentato da una opinione pubblica vacillante e da un crescendo di perplessità nei settori di intellettualità più informati e liberi di esprimere le loro opinioni, ma anche dallo svuotarsi degli arsenali di guerra che fin qui hanno sostenuto le forze ucraine. Malgrado l’enorme impegno finanziario in campo militare messo in atto da anni dai paesi occidentali. I 27 paesi della Ue stanno aumentando rapidamente i rispettivi bilanci nazionali della Difesa – ovviamente a scapito della spesa sociale – con maggiore intensità dopo lo scoppio della guerra, anche se è bene non dimenticare che la corsa al riarmo era cominciata ben prima. Complessivamente – stando alle stime dell’Agenzia per la difesa europea (Eda), basate su un rapporto del Servizio studi del Parlamento europeo (Eprs) - si prevede di raggiungere nel 2025 una spesa di 290 miliardi di euro in ambito UE, il che significa un incremento del 35,5% rispetto al 2021. Guardando ai dati più recenti forniti dall’Istituto di ricerca internazionale sulla pace di Stoccolma (Sipri) si vede che la spesa militare dei paesi membri della UE aveva raggiunto alla fine dell’anno scorso i 245,3 miliardi di euro, quindi con un aumento di oltre il 18% rispetto al 2020. L’Italia si colloca al terzo posto, dietro Germania e Francia. Anche noi sul podio, quindi, in questa gara scellerata. Se poi ci riferiamo al quadro mondiale sappiamo che la spesa militare nel 2022 ha raggiunto il record di 2.240 miliardi di dollari, quindi il 3,7% in più rispetto al 2021.7 Il che avviene mentre “Il debito aggiuntivo degli Stati viaggia oggi a un ritmo del 40% superiore alla media dei cinque anni precedenti la pandemia” come registra il rapporto di S&P Global Ratings.8

Ma un conto sono gli stanziamenti e le previsioni del loro incremento, un conto è lo stock di armamenti immediatamente disponibili, o meglio cedibili all’Ucraina. Qui cominciano ad emergere problemi di natura industriale, economica e politica.

 

Il sovranismo nazionalista affossa la “solidarietà”

Sul versante economico-politico un esempio clamoroso di quanti siano gli inciampi in cui incorre il fronte pro ucraino è costituito dal recente ricatto cui l’Ungheria sta sottoponendo la Ue. Orban vuole sbloccare 13 miliardi di euro. Lo ha rivelato il Financial Times9 che – citando tre funzionari anonimi informati – ha spiegato come la decisione dovrebbe così ottenere in cambio il sostegno di Budapest per un aumento del bilancio dell’Unione europea e un’assistenza finanziaria significativa all’Ucraina. Si tratta di fondi che erano stati congelati dalla UE lo scorso dicembre per via di preoccupazioni – più che fondate - sullo stato di diritto ungherese. La cifra ammontava a 22 miliardi di euro di fondi per la coesione a cui si aggiungono 5,8 miliardi del Pnrr ungherese, a causa del braccio di ferro tra Bruxelles e Budapest. Un caso emblematico e rivelatore di un mercimonio fra diritti civili e aiuti militari. Ma non è l’unico. La solidarietà nei confronti dell’Ucraina ha dovuto patire le tensioni derivanti da quella che è stata chiamata una (quasi) guerra del grano. Lo scorso aprile l’UE aveva deciso di limitare le importazioni di cereali dall’Ucraina per difendere il mercato interno di Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Slovacchia, i cui produttori interni avrebbero potuto subire un danno economico e commerciale. La misura era stata prorogata al 15 settembre. Proprio in quella scadenza Orban ha dichiarato l’intenzione del suo Paese di prorogare unilateralmente le restrizioni all’import di diversi cereali, grano in testa, provenienti dall’Ucraina. Il governo polacco ha voluto immediatamente gareggiare con Orban minacciando il veto all’ingresso dell’Ucraina nella UE se le restrizioni all’import di cereali ucraini non fossero state rinnovate da tutta l’Europa. Sono note le proteste dei contadini polacchi contro l’import di grano ucraino e naturalmente i governanti polacchi attesi al voto del 15 ottobre – quando si fronteggeranno la coalizione Destra Unita ultra conservatrice e sovranista di Jaroslaw Kaczyński e il centrodestra di Donald Tusk, ex premier ed ex presidente del Consiglio europeo - non potevano mostrarsi insensibili al grido di dolore che si sollevava dalle campagne. I governi dei paesi dell’est europeo che sono voluti apparire, come il governo polacco, i più decisi nell’appoggio all’Ucraina non ci hanno messo molto di fronte al miraggio dei voti a cambiare sensibilmente la loro posizione, creando ovvie preoccupazioni in Zelensky. L’Ucraina dal canto suo non è rimasta con le mani in mano promuovendo una denuncia nei confronti di Polonia, Ungheria e Slovacchia. Ultimamente pare che le relazioni ucraino-polacche siano in via di miglioramento, ma il contrasto la dice lunga su come il principio della solidarietà sia incompatibile con il sovranismo nazionalista, ancor più che nella storia passata del continente europeo, e quanto sia del tutto fasulla la descrizione della guerra come uno scontro di civiltà o come il limes che separa il mondo delle democrazie da quello delle autocrazie.

Intanto negli Usa è sempre più al calor bianco lo scontro tra repubblicani e democratici. Questo ha portato, su iniziativa della destra del Gop (il Grand Old Party) alla dismissione dello speaker della Camera Kevin McCarthy – ed è la prima volta che succede nella storia statunitense -, quindi, dopo un accordo in extremis per evitare lo shutdown, ovvero la paralisi amministrativa del Paese, al blocco dei finanziamenti all’Ucraina per 6,2 miliardi di dollari.

 

Il fondo del barile

Se guardiamo la questione dal punto di vista della disponibilità immediata di armamenti e munizioni da inviare all’Ucraina, sorgono problemi di carenza, persino inaspettati, ma che ci danno la misura della quantità di armamenti già ora impiegati e distrutti nella guerra in corso. L’ammiraglio Rob Bauer, responsabile militare della Nato, ha sottolineato che il problema più urgente è quello dell’industria militare, soprattutto per ciò che riguarda le munizioni per l’artiglieria: “Vediamo il fondo del barile” è la sua sconsolata ammissione. In venti mesi l’Ucraina ha ricevuto e sparato quasi due milioni di cannonate. Cosicché, secondo i comandanti delle varie forze armate, rimangono solo le “riserve minime” quelle di cui non ci si può privare perché servono a una ipotetica sicurezza nazionale. Nuovi approvvigionamenti di armi non saranno pronti prima della fine del 2026, malgrado che gli emissari del Pentagono, in primo luogo, siano andati a cercarle in giro per il mondo. Chi ha gli arsenali pieni non li vuole toccare, come, almeno finora, la Corea del Sud da sempre ossessionata da un possibile attacco da parte di Pyongyang, o come l’Egitto che vuole mantenersi in una condizione di neutralità rispetto al conflitto in atto. Vi è poi il costo assai elevato dei missili terra-aria, reclamati a gran voce da Zelensky anche in occasione del recente summit di Granada.10 Quelli donati dall’Italia e dalla Francia costano 2,5 milioni di euro l’uno. Gli ucraini ne hanno già usati a decine per contrastare i droni russi, dal costo di gran lunga inferiore. Sui missili a lungo raggio – dal costo di 3,5 milioni di euro a esemplare – vi sono dubbi che possano venire usati direttamente contro il territorio della Federazione russa, con le conseguenze facilmente immaginabili e non desiderabili dagli stessi Usa. Almeno finora. Il capo dell’aviazione francese, quindi di un paese che certo non disdegna l’interventismo armato, scuote la testa: “Dopo due anni adesso la questione va discussa in modo diverso perché non possiamo dare, dare, dare e vedere i nostri sistemi azzerarsi per l’Ucraina”. Insomma il sostegno all’Ucraina costa e pesa troppo. Si ripropone il problema già comparso per gli Usa, i quali – si è detto – sono in grado di aprire qualunque fronte di guerra, ma se la mitica vittoria non giunge subito, non hanno poi, neppure loro, le risorse economiche per mantenere a lungo lo sforzo bellico.11

 

Guerra chiama guerra

Tuttavia guerra chiama guerra. Lo testimonia per l’ennesima volta la tragica vicenda degli armeni del Nagorko-Karabakh, che i suoi abitanti avevano chiamato “Repubblica di Artsakh”, benché priva di riconoscimento internazionale. Dopo un lungo periodo di affamamento, grazie al blocco del corridoio di Lachin che consentiva rifornimenti, l’Azerbaigian ha potuto muovere l’offensiva finale senza incontrare resistenza, costringendo 100mila armeni ad abbandonare il territorio e rifugiarsi in Armenia. La comunità internazionale ha assistito passiva a questo esodo, preceduto dalle solite violenze, nell’ottica di una pulizia etnica che il popolo armeno ha già conosciuto nella sua storia con il genocidio operato dai turchi nei primi anni del Novecento. D’altro canto l’Azerbaigian tiene ottimi rapporti con l’Occidente e la UE in particolare, che rifornisce di petrolio e gas, magari importato dalla Russia (a proposito dell’elusione delle sanzioni economiche). Mentre i buoni rapporti tra Armenia e Russia si erano negli ultimi tempi offuscati per il tentativo della prima di migliorare quelli con gli Usa e la UE. Il popolo armeno appare ancora una volta vittima delle estremizzazioni nazionalistiche, sullo sfondo della frammentazione dell’ex Unione sovietica.

Nello stesso tempo si è alzata la tensione nel quadro balcanico, in particolare tra Serbia e Kosovo, mentre la situazione mediorientale è in continua ebollizione.

Il conflitto russo - ucraino non può semplicemente essere aggiunto agli altri quasi sessanta12 che costituiscono il mosaico di quella guerra mondiale a pezzetti, così definita da Papa Francesco. Per la sua collocazione interna alla geografia del vecchio continente, per le dimensioni delle forze in esso direttamente impiegate, soprattutto per il suo carattere più volte sottolineato di essere una guerra “per procura”, ovvero che dietro i due contendenti si nascondono, ma neppure troppo, altre forze geopoliticamente ancora più importanti, per il grumo di interessi che mette in gioco e che sono tali già ora di sconvolgere gli assetti economici e politici del mondo intero, questo conflitto assume una dimensione e un’importanza mondiali, in misura nettamente superiore rispetto alle altre guerre che abbiamo incontrato lungo i decenni che ci separano dal 1945, quello che si suole chiamare il “dopoguerra”, terminologia che oggi ci appare quanto mai impropria.

 

Lo “stallo” non può durare a lungo

Per tutti questi motivi, è evidente che la condizione di “stallo” non può essere mantenuta all’infinito, ma neppure molto a lungo. Anche in ambienti Nato circola oramai la convinzione che il prolungarsi dei tempi dello scontro può avvantaggiare solo la Russia. John Raine, analista dell’International Institute for Strategic Studies (Iiss), un think tank britannico molto ascoltato in sede Nato, parlando delle prospettive dell’Ucraina lo dice esplicitamente: “La sua finestra per un’azione decisiva si sta restringendo”.13 Dallo “stallo” si può uscire solo in due modi: o imponendo il “cessate il fuoco” e avviando una seria trattativa di pace con la presenza e la partecipazione attiva di autorevoli soggetti terzi oppure lo stallo verrà superato da un salto di qualità in negativo delle modalità della guerra, ovvero con l’impiego di armi nucleari. La famosa teoria avanzata da Von Clausewitz per cui un conflitto può chiudersi quando viene meno il “centro di gravità” di uno o di entrambi i belligeranti, appare assai, se non del tutto, irrealistica di fronte alla possibilità di utilizzare mezzi bellici con un potenziale distruttivo praticamente definitivo, quale potrebbe essere il ricorso a testate nucleari. E in ogni caso il più elementare principio di precauzione sconsiglia fermamente di arrivare a quel punto. Invece si parla con insistenza di armi nucleari tattiche, la cui diversità da quelle strategiche appare assai labile, per non dire indeterminata. Vladimir Putin ha recentemente affermato l’intenzione della Russia di uscire dal Trattato internazionale per il bando contro gli esperimenti nucleari. Un Trattato che gli Stati Uniti hanno firmato, ma mai ratificato. Perciò Putin si sente autorizzato a dire che non sta facendo altro che adottare la stessa strategia degli Usa. Ha quindi fatto riferimento all’ utilizzo di supermissili non intercettabili e quindi della messa in campo di “nuove armi nucleari avanzate”. E’ difficile credere che se queste minacce venissero messe in atto Usa e Nato starebbero a guardare e viceversa. Per questo ha più di una ragione il premio Nobel per la Fisica, Giorgio Parisi, nell’insistere sull’importanza del rispetto e della implementazione dei trattati che prevedono il disarmo.14

 

Alla pace non c’è alternativa: su cosa si può basare

Quindi alla pace non c’è alternativa, per quanto difficile sia la strada per poterci arrivare. Certamente non basta un “cessate il fuoco” a tempo indefinito che congeli la situazione al punto in cui si trova nel momento che esso viene decretato. Sarebbe la spesso citata “soluzione coreana”. Ma questa poteva stare in piedi e sopravvivere al passare del tempo perché si collocava in un mondo diviso in blocchi, ciascuno dei quali trovava un suo tornaconto nel mantenimento dello status quo in quella parte del mondo. Oggi il quadro mondiale è del tutto diverso, assai più confuso e instabile. Per cui il “cessate il fuoco” non è che il primo passo, assolutamente indispensabile per giungere a una conferenza di pace internazionale. Se però i due contendenti vengono lasciati a se stessi, è altamente improbabile se non impossibile, come sostiene uno studioso autorevole quale Lucio Caracciolo15, arrivare a una soluzione di pace che abbia la speranza di giungere a una stabilizzazione in quell’area. Una soluzione del genere per avere qualche probabilità di riuscita dovrebbe partire dal presupposto che le ragioni degli uni e degli altri vengano effettivamente prese in considerazione. E che ciascuno rinunci a qualche cosa dei propri progetti e del proprio territorio. Ad esempio una soluzione che preveda la Crimea all’interno della Federazione russa, che stabilisca una condizione di autonomia, pur all’interno dell’Ucraina, per le regioni del Donbass con garanzie da parte di un’autorità internazionale per la salvaguardia delle minoranze di ogni tipo, linguistiche, etniche, potrebbe essere considerata come un’ipotesi su cui lavorare. Naturalmente questo richiederebbe all’Ucraina la rinuncia a qualunque pretesa di ingresso nella Nato, lasciando per ora impregiudicata la sua possibilità di entrare a fare parte dell’Unione europea. A quest’ultimo riguardo, se da un lato Pedro Sanchez, incaricato di formare il governo spagnolo, ha dichiarato a Granada che il suo Paese è del tutto a favore di un ingresso dell’Ucraina nella UE, da altre parti la cosa non pare suscitare grandi entusiasmi. Il motivo è semplice: secondo uno studio commissionato dalla segreteria del Consiglio europeo e pubblicato il 5 ottobre sul Financial Times, l’ingresso dell’Ucraina (oltre a quello di Moldavia, Georgia e altri sei Stati balcanici) comporterebbe delle ripercussioni sul bilancio europeo, perché gli Stati membri dovrebbero pagare di più ricevendo di meno, mentre la parte più consistente andrebbe all’Ucraina. Alcuni hanno stimato che su 96,5 miliardi di euro di sussidi all’agricoltura, gli attuali Stati membri riceverebbero il 20% in meno.16 E, come abbiamo già visto, la solidarietà si affievolisce di molto quando sono in gioco interessi economici, per giunta trasformabili anche in consensi elettorali.

 

Il problema di un soggetto “terzo” in un processo di pace

Il problema è che qualunque piano di pace richiede, per potere essere concluso e attuato, la presenza fattiva di soggetti terzi dotati di sufficiente autorità e credibilità. Ed è questo il punto dolente. Perché l’Onu, perennemente in attesa di una riforma che non a caso non arriva, non pare dotato né di energia né di autorevolezza per giocare un simile ruolo. La Turchia ha troppo le mani in pasta nella zona, oltre che essere membro della Nato, è una delle parti in causa nel conflitto, quindi non può essere considerata come una forza dotata dei caratteri di terzietà indispensabili. La Cina in quanto tale e da sola neppure, visto che dietro il conflitto russo-ucraino è sempre più evidente il confronto strategico tra Usa e il Dragone. Un conflitto che bisogna assolutamente evitare che si trasformi in una guerra vera e propria. Secondo la previsione dell’ultracentenario Kissinger e non solo, questo potrebbe avvenire entro dieci anni, con tutte le conseguenze catastrofiche che ciò comporterebbe. L’Unione europea non può neppure essere presa in considerazione per una simile funzione visto il ruolo non solo passivo ma servile assunto nei confronti di Usa e Nato.

Eppure qualcosa sta cambiando nel mondo. Sempre secondo Raine l’esito del conflitto “potrebbe non essere determinato dalla potenza militare o dagli eventi interni alla Russia, ma piuttosto dal ritmo delle tendenze geopolitiche estranee al conflitto”.17

Innanzitutto non va sottovalutata l’azione intrapresa dal Vaticano per volontà di Papa Francesco. Il viaggio attraverso il mondo, toccando i paesi direttamente o indirettamente interessati al conflitto, condotto dal Cardinale Matteo Zuppi, è stata l’unica iniziativa di pace che finora sia stata esplicitamente assunta. Aspettarsi da questa la soluzione sul piano diplomatico sarebbe del tutto fuori luogo e misura. Ma interrare i semi della pace è già non poca cosa di fronte al quadro desolante che ci circonda. Non siamo nella situazione di vent’anni fa dove un potente movimento per la pace, definito dal New York Times la “seconda potenza mondiale, riempiva di manifestazioni tutte le città del mondo. Senza però riuscire a impedire la guerra in Iraq. Ma il nervosismo evidente manifestato da parte ucraina, ove si è giunti ad accusare papa Francesco di putinismo, dimostra pur qualche cosa, cioè che quella iniziativa di pace ha lasciato un segno incancellabile, alla quale eventuali iniziative speriamo prossime possono fare riferimento. Come al solito, per riprendere la nota storiella, non è dal numero delle divisioni che si misura la forza e l’influenza di un Papa, specialmente se particolarmente attivo come quello attuale.

 

Il convegno di Johannesburg dei BRICS

Indubbiamente il fatto di maggiore rilevanza sullo scenario mondiale è stata la riunione dei BRICS (ovvero di Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica) tenutasi a Johannesburg tra il 22 e il 24 agosto 2023. Erano presenti al tavolo del vertice, il quindicesimo da quando il gruppo prese formalmente corpo nel 2009, i leaders dei citati paesi, con l’ovvia eccezione di Putin, che ha partecipato in videoconferenza, facendosi sostituire in presenza dal ministro degli esteri Sergej Lavrov. Senza spandere eccessivo ottimismo si può definire questa riunione e il documento che è stato deliberato come il passo più concreto fin qui fatto verso una ridefinizione dell’ordine mondiale nel segno del multipolarismo. Un “multipolarismo centrifugo” secondo la definizione coniata da Adam Tooze.18

Vedremo cosa succederà da qui al prossimo vertice previsto a Kazan in Russia per l’ottobre del 2024. Intanto la decisione più importante è stata senza dubbio quella di un allargamento del numero dei paesi membri. Dal primo gennaio del prossimo anno ne entreranno a fare parte sei nuovi: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Etiopia, Iran e Argentina, anche se sulla decisione finale di quest’ultima pesa l’incertezza dell’esito delle elezioni generali il cui primo turno è fissato per il 22 ottobre prossimo e uno dei favoriti è l’ultraliberista Javier Milei che potrebbe non confermare l’adesione. Sono già 23 i Paesi in lista di attesa per fare parte della partita. Comunque già oggi i cinque membri dei Brics rappresentano circa 3miliardi e 200 milioni di persone (per fare un confronto la popolazione, dei paesi del G7 non raggiunge il miliardo) e con i nuovi ingressi di gennaio i Brics comprenderanno il 46% della popolazione mondiale. Con le nuove adesioni il Pil – strumento rozzo, quindi ingannevole, non dimentichiamolo, ma non ancora sostituito nelle statistiche internazionali – dei Brics salirà al 36%, pur restando basso il Pil pro-capite, inferiore a quello di ciascun paese del G7. Per quanto riguarda le risorse, indispensabili per il moderno capitalismo globale, tanto per i combustibili fossili, quanto per quelli provenienti da fonti rinnovabili, tanto per le terre rare quanto per i materiali critici, i Brics non temono confronti, soprattutto in prospettiva di altri futuri allargamenti. Sul piano finanziario, pur avendo per ora accantonato l’ambiziosa prospettiva di una moneta unica interamente sostitutiva del dollaro negli scambi internazionali – riprendendo quindi il vecchio sogno keynesiano del Bancor –, i Brics si propongono di far fare nuovi passi in avanti, non solo dichiarati ma concreti, spingendo il processo di de-dollarizzazione, considerato irreversibile tanto dal presidente cinese Xi Jinping che da Vladimir Putin. Si parla della creazione di un nuovo sistema di pagamenti alternativo allo Swift (il cosiddetto Brics pay) e all’utilizzo di monete nazionali negli scambi fra gli Stati, come del resto aveva già proposto il presidente brasiliano Lula nella sua visita in Cina di qualche mese fa. Il tutto potrebbe avvenire grazie all’azione della banca dei Brics, la New Development Bank, fondata nel 2014 e ora presieduta da Dilma Roussef, con sede a Shanghai. In prospettiva uno strumento innovativo che si porrebbe in alternativa alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale. Non a caso Biden si è recentemente espresso in favore di una riforma nel funzionamento di questi pilastri della globalizzazione capitalistica e del dominio del dollaro.

L’iniziativa sul piano finanziario dei Brics, con l’evocazione di una nuova moneta per gli scambi internazionali, è quindi motivo di preoccupazione nel quadro euro-atlantico. C’è chi cerca di nasconderla sotto lo scherno e la derisione, giungendo in alcuni casi a manifestare un non troppo mascherato razzismo nei confronti del Sud del mondo. La stampa di destra italiana non ha perso l’occasione per distinguersi in questa pessima campagna. Anche giornali solitamente misurati, come il Sole 24 Ore, che di solito non hanno bisogno di ricorrere a frasi sguaiate e ad argomenti offensivi, in questa occasione hanno mostrato una indicativa caduta di stile.19 In fondo è stato lo stesso metodo con cui si è cercato di mettere alla berlina le iniziative prese da Lula, ivi compresa quella di porsi da mediatore nei i contrasti – che pure esistono, si pensi alla ipotetica via del cotone contrapposta a quella, già reale, della seta, o alle questioni di confine – tra Cina e India.

 

I Brics come opportunità per la pace

Il documento in 94 punti licenziato a Johannesburg va oltre, ponendo il tema di un ruolo di intermediazione per porre fine alla guerra in Ucraina, e all’impegno di risolvere pacificamente conflittualità o problemi in altre zone del mondo, come sul tema del nucleare iraniano e sulla situazione mediorientale. Ecco dunque delinearsi nuove possibilità, nuovi riferimenti geopolitici che permettono di allargare il quadro, in coerenza con la dimensione mondiale che il conflitto russo-ucraino, senza il peso sulle ali che le vecchie istituzioni internazionali post seconda guerra mondiale dimostrano con la loro inazione.

Chi invece dimostra di comprendere la crescita d’importanza del Sud del Mondo è come al solito Papa Francesco, anche per quanto riguarda la organizzazione interna alla Chiesa. Si pensi alla recente nomina di 21 nuovi cardinali, 18 dei quali, avendo meno di 80 anni, entrerebbero in Conclave quando si presenterà la necessità di eleggere un nuovo Papa. Si può anche osservare che in questo modo la composizione del Conclave avrebbe una maggioranza di tipo “bergogliana”. Ma quello che conta rilevare è la diffusa provenienza geografica dei cardinali, una sorta di globalizzazione del collegio: nel 2013 al Conclave erano 48 i paesi rappresentati, oggi sono 68. Mentre è diminuita la percentuale degli europei, è cresciuta quella proveniente dal Global South (Centro e Sud America, Asia, Oceania, Africa), che raggiunge quasi la metà del Conclave, il 49% invece del 36,5% precedente,.

E’ evidente che esistono delle criticità in tutto ciò. I Paesi del Brics sono ben lontani dall’avere una qualche analogia tra loro per ciò che concerne gli assetti politici, istituzionali e sociali. Tra questi c’è certamente la questione dei diritti umani e civili che nessuno intende né dimenticare o nascondere. Soprattutto non si può inventarsi una omogeneità che non c’è. Era così anche per il Movimento dei Paesi non allineati che cominciò a prendere forma nella Conferenza di Bandung del 1955. Il loro legame era costituito dalla lotta anticolonialista, insomma il Terzo Mondo che si rivoltava contro il primo rifiutando di porsi pedissequamente sotto l’egida del secondo, ovvero del campo socialista, secondo la nota suddivisione del globo delineata dai comunisti cinesi.

La complessità della situazione globale, la non breve e burrascosa fase di transizione egemonica mondiale da Ovest a Est, che dovrebbe mettere fine al cosiddetto secolo americano e nello stesso tempo evitare di sostituire una unipolarità con un’altra, ci impone di non confondere il quadro internazionale e i comportamenti dei singoli Paesi sulla scena internazionale con il loro quadro interno. Affermare che non siamo di fronte allo scontro fra civiltà e nemmeno a quello tra democrazia e autocrazia, non ci deve fare perdere di vista tanto i guasti per la società di un sistema autocratico, quanto quelli che derivano dai processi di dissoluzione della democrazia fin troppo evidenti nei paesi a capitalismo maturo, di cui il nostro fa parte. Ma ci deve fare capire che affrontare concretamente il problema della pace richiede una visione politica globale.


Note
1 Ernesto De Martino, “Il problema della fine del mondo” in Paolo Prini (a cura di), Il mondo di domani, Abete, Roma 1964, ora anche in Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2019, p. 69
2 “Sentinella, quanto resta della notte?” (Isaia 21, 11)
3 Così riferisce l’agenzia Reuters: https://mail.google.com/mail/u/0/?tab=rm#search/beschi/FMfcgzGtxTBWgSVKGFBbWnwwlsvKvhhT?projector=1
4 Un think tank con sede a Washington negli Stati Uniti, fondato nel maggio 2007 da Kimberly Kagan, che fornisce ricerche, studi, analisi e rapporti in ambito militare e in materia di affari esteri.
5 https://tg.la7.it/sondaggi/sondaggio-swg-s%C3%AC-alle-armi-allucraina-solo-per-il-47-degli-italiani-02-10-2023-195031#:~:text=In%20merito%20alla%20questione%20del,invio%20delle%20armi%20ancora%20necessario.
6 Claudia Morgoglione “Combattiamo il disordine globale” (intervista a Massimo Cacciari) in la Repubblica del 5 ottobre 2023
7 Vedi Nicola1 Borzi, “L’euro-riarmo vola: nel 2025 la spesa a 290 mld (+35%)” in il Fatto Quotidiano del 19 settembre 2023
8 Riportato da Eugenio Occorsio “Il debito globale alle stelle” in Affari&Finanza live, 20 marzo 2023
9 https://www.ft.com/content/d4452485-8132-427f-abb4-475b634f6883
10 Il vertice a Granada, il 5 ottobre 2023, ha riunito quasi 50 leader europei, che compongono la Cpe (comunità politica europea, istituita nell’ottobre 2022) cercando di trovare una nuova strategia geopolitica alle porte dell'Europa, ma che fa fatica a trovare soluzioni definitive sulla sicurezza del continente. La terza edizione della Comunità politica europea è stata presentata dai leader Ue, con Macron in testa, come un’opportunità per mediare la pace tra Armenia e Azerbaigian in guerra e allentare le tensioni nei Balcani, oltre al tentativo di risolvere il conflitto tra Russia ed Ucraina. Come si è visto con scarsi o nulli successi. Il giorno dopo vi è stata anche una riunione informale del Consiglio europeo
11 Vedi Gianluca Di Feo, “Arsenali vuoti e costi elevati. La difesa a oltranza di Kiev manda in crisi i Paesi Nato” in la Repubblica del 6 ottobre 2023
12 Prima dell’estate del 2023, secondo l’Armed Conflict Location&Event Date Project (Aclet) i conflitti bellici in atto nel mondo ammontavano a 59. Altre fonti forniscono dati ancora maggiori. E’ evidente che tutto dipende da che cosa si intende per guerra, ossia quale sia la dimensione che il conflitto deve avere per meritare una così pessima nomea.
13 John Raine, “Zelenskyy’s race against geopolitics,” Iiss online, 5th october 2023 https://www.iiss.org/online-analysis/online-analysis/2023/10/zelenskyys-race-against-geopolitics/
14 Così si è espresso il premio Nobel nel corso di un incontro-dibattito “Fermiamo le lancette del Doomsday Clock” tenutosi a Roma il 5 ottobre, organizzato da Alternative per il Socialismo, dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, da Europe for peace e da un gruppo di ambasciatori e generali italiani a riposo. La registrazione video-audio dell’intero incontro si può trovare cliccando sul seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=adjQSLimDeU
15 Lucio Caracciolo, “Perché la pace Russia-Ucraina non è possibile” in La Stampa del 1° settembre 2023
16 Vedi Paolo Garimberti, “Se Putin vince la guerra” in la Repubblica del 6 ottobre 2023
17 Cit. alla nota 13
18 Vedi Adam Tooze, Shutdown. How covid shook the world’s economy, 2021, nella traduzione italiana: L’anno del rinoceronte grigio. La catastrofe che avremmo dovuto prevedere, Feltrinelli, Milano 2021, pp. 392, euro 22,00
19 Ad esempio si può citare Alberto Forchielli e Fabio Scacciardini “Quella pazza idea di una valuta unica per i Paesi Brics” in Il Sole 24 Ore del 6 ottobre 2023, che si conclude con la seguente frase: “Insomma la Madre di Tutte le Speculazioni farebbe deragliare in poco tempo la politica monetaria degli untorelli, arrivati dal Sud del mondo con l’ambizione di spiantare il dollaro”.

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