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Trump, Putin, UE ed elezioni in Germania

di Fosco Giannini

1 Tutto un altro mondo edito1022CORRETTA.jpgLa vittoria militare della Russia, la “pace” di Trump con la strategia di guerra contro la Cina, la spinta bellica dell’Ue e le elezioni in Germania: lezioni per i comunisti italiani

Zeitgeist: con questo termine, nel “corpo” della filosofia romantico-idealistica tedesca tra il 18° e il 19° secolo, si indicava lo spirito dei tempi, cioè il clima politico, culturale, ideologico, tendente all’egemonia, di un’epoca. Vi è qualcosa che più di ogni altra, in questa fase, esprime l’attuale spirito dei tempi, del video pubblicato da Trump, sul proprio profilo “Truth”, Riviera di Gaza? Nell’orrendo clip musicale il genocidio israeliano su Gaza si trasforma in un trucido festival di danzatrici lascive quali esatte proiezioni del più bieco “appetito” maschile imperialista; le macerie senza fine di Gaza in grattacieli splendenti e riviere vacanziere per i ricchi americani. Con il popolo palestinese totalmente “fuori quadro” poiché espulso, come il popolo di Mosè dagli egizi, dalla propria terra e già vagante – nel film horror di Trump e Musk – in un nuovo deserto del Sinai.

Se la feroce volgarità di Riviera di Gaza è “Zeitgeist”, di quali sommovimenti profondi si fa paradigma, indicatore? Nell’ambito dell’uragano politico che scuote il pianeta (Trump-Putin-Unione europea, elezioni in Germania), essa è il segno dell’attuale metamorfosi in atto nel liberalismo nordamericano, che passa da una volontà di potenza imperialista “liberal” fondata sulla falsità del “libero scambio” mondiale, sulla verità dello “scambio diseguale” e adornata da orpelli pseudoumanistici “woke” (i “democratici”, che imperialisti rimangono anche nella loro postura di “estrema sinistra democratica” alla Ocasio-Cortez, paladina della guerra di Biden contro la Russia e a sostegno del palese fascismo ucraino, tanto palese da essere così definito persino da Trump), a una ancor più oscura e scarnificata volontà di potenza imperialista volta a una nuova accumulazione fondata sull’isolazionismo e sul protezionismo (i “repubblicani”), un “totalitarismo liberale” (così come magistralmente messo a fuoco dal compagno Alessandro Pascale nella sua opera omonima) che abbandona, irridendoli, gli “addobbi” ideologici umanitari per dedicarsi totalmente e seriamente alla definitiva guerra strategica contro il “nuovo mondo”, contro il multilateralismo crescente, contro la Cina.

E questa non è certo una nostra tesi, ma è di Dmitri Suslov, vicedirettore della Scuola Superiore di Economia russa ad affermarlo («Corriere della Sera», 23 febbraio 2025) quando decodifica il senso profondo dell’iniziativa di Trump volta a chiudere il conflitto russo-ucraino e la strategia Usa a lungo termine: “Trump vuol finire la guerra il prima possibile. In relazione al quadro internazionale complessivo gli Usa non hanno molto tempo. Sanno che stanno perdendo la competizione con la Cina, sotto ogni aspetto, militarmente e sull’intelligenza artificiale e vogliono mobilitare più risorse possibili contro Pechino, anche riducendo la presenza americana in Europa. L’Ucraina è un peso di cui sbarazzarsi e Trump è pronto a spingersi molto avanti, vedi la concessione di Kiev fuori dalla Nato. Ed è pronto, in quest’ottica generale, a sacrificare Zelensky, che non ha più, peraltro, nessuna legittimità”.

Dunque, l’impalcatura politica mondiale è sovvertita da una potente scossa sismica che alza la polvere dell’apparente indecifrabilità, e noi, comunisti e rivoluzionari, dobbiamo ordinare i pensieri.

Innanzitutto, non alimentiamo il dubbio: la linea politica di Trump volta alla risoluzione del conflitto in Ucraina deriva essenzialmente dalla vittoria militare della Russia, dalla sconfitta dell’intero fronte politico, economico, militare, Usa-Nato-Gran Bretagna-Unione europea. Invano, gli Usa hanno investito circa 370 miliardi di dollari per piegare Mosca, l’Ue circa 200 e la Gran Bretagna 5. Non hanno raccolto che la sconfitta. Chiaro è che, preso poi atto della disfatta, Trump si orienti a ritirare gli Usa e la Nato da quel “fronte sbagliato”, a recuperare le forze e accumularle per l’obiettivo storico degli Usa: attaccare la Cina.

Emerge in questo contesto, tra gli osservatori politici internazionali subordinati al mainstream statunitense ed europeo, l’idea secondo la quale, sotto la pressione dell’amministrazione Trump “pacifista”, sotto la proposta di un nuovo partenariato economico tra Washington e Mosca, la Russia potrebbe rompere il fronte con Pechino.

Sentiamo cosa afferma, a proposito, il già citato consigliere del Cremlino Dmitri Suslov: “Trump vuole rafforzare l’egemonia americana, la dominanza del dollaro, minando la più forte e importante istituzione globale antiegemonica, i Brics. Questo va contro gli interessi della Russia, che nel consolidamento dell’Eurasia ha una delle principali priorità strategiche. Non permetteremo che i nostri rapporti con la Cina, l’Iran e la Corea del Nord vengano danneggiati. L’America resta il nostro avversario, non svenderemo le relazioni che hanno assicurato la nostra sopravvivenza negli ultimi tre anni. In nome di cosa, poi? Trump non sarà lì per sempre”.

Il protezionismo di Trump e la guerra dei dazi – vie economiche che non sono una novità storica, ma una costante del capitalismo – sono funzionali al rafforzamento degli Usa e prioritariamente, lungo una pausa di “pace”, dello stesso complesso militare-industriale nordamericano, in preparazione dell’agguato finale contro Pechino, passando per Taiwan. Lo stesso “patto di sangue” tra Trump e il quinto capitalismo americano (non solo Elon Musk, ma tutta Silicon Valley, più Amazon, più le intere filiere ultramiliardarie dell’Intelligenza Artificiale e delle criptovalute) depone a favore un nuovo imperialismo americano incline, assieme alla propria avanguardia produttiva, all’organizzazione di un capitalismo mondiale della sorveglianza, dell’“avatarizzazione” sul piano planetario dei suoi ceti dominanti e della “androizzazione” (le metropoli mondiali da trasformare in sterminati luoghi dell’effimero e della metamorfosi umana, Musk docet) del senso comune e dei popoli del mondo. Con la guerra finale contro la Cina quale motivazione di ogni nuovo, transitorio, passaggio politico, economico e militare.

L’Unione europea: il doppio e brutale attacco portatole da Trump (esclusione da ogni trattativa sull’Ucraina e il 25% di dazi sulle sue merci verso gli Usa) ci parlano in verità della fatiscenza dell’Ue, del suo essere moneta senza Stato, della sua estrema esilità politica. Per motivi dai comunisti ben conosciuti: l’Ue non è nata sulla scorta di un oggettivo processo storico unitario tra popoli, Stati, economie, culture europee, ma è stata l’invenzione, tanto affrettata quanto mendace, del capitale transnazionale europeo, che nella fase successiva all’autodissoluzione dell’Unione Sovietica aveva l’estremo bisogno di dotarsi di un potere sovranazionale (l’Ue, appunto, con la Bce) in grado di garantirgli una nuova accumulazione capitalistica attraverso l’abbattimento, su scala continentale, dei salari, dei diritti e dello stato sociale. Avvenuto. Oggi siamo di fronte a un drammatico, per i popoli dell’Ue, paradosso: l’Ue è, assieme, un nano politico, un vuoto storico a perdere ma col carattere di un soggetto imperialista, in transizione quanto vogliamo, sanguinario. La guerra contro la Russia la vuole continuare solo l’Ue, incapace di comprendere l’immenso pericolo di sfidare, sul piano militare e senza gli Usa a fianco, un Paese imbattibile come la Russia. Da fonti certamente non filorusse (l’economista liberale Carlo Cottarelli) provengono dati quanto mai allarmanti: l’Ue ha già investito per il riarmo 574,5 miliardi di dollari, l’Europa allargata 730 e la Russia 462 (afferma Cottarelli: “l’Europa ha già investito per la guerra il 58% in più della Russia”). Un’impressionante svolta bellica europea (alla quale va aggiunta la “promessa”, da parte del vincitore liberalconservatore delle ultime elezioni in Germania, Friedrich Merz, di una spesa tedesca per il riarmo di 200 miliardi di euro: torna il militarismo classico tedesco, dopo quello giapponese sollecitato dagli Usa) che ci parla di una sorta di tragico processo di “compensazione” in atto nei poteri dell’Ue: non siamo in grado di costruire l’unità politica e morale dell’Ue e colmiamo allora questo vuoto attraverso l’unità militare e la pulsione “unificatrice” alla guerra. Non è così lontano il Marinetti futurista della “guerra come igiene del mondo”. Il soggetto storico “irrisolto” dell’Ue cerca se stesso in un nuovo imperialismo guerrafondaio, affidandosi, intanto, allo “scudo atomico francese”, proposto all’intera Ue da un Macron vicino alla propria fine politica e, proprio per questo, sempre più nevrotico, pericoloso e militarizzato.

In questo contesto, davvero risibile, macchiettistica (ma si ride per non piangere) è la postura del ceto politico dominante italiano unito, tra governo e opposizione. Sotto il ciclonico “effetto Trump” nessuno dei soggetti di questo unico ceto politico ci capisce più niente; nessuno, da Giorgia Meloni a Elly Schlein, sa più dove stare e come ricollocarsi, in egual misura sballottati tra il servilismo agli Usa e alla Nato e a quello verso Bruxelles. Tutti uniti, tuttavia, contro gli interessi del popolo italiano, che mai come ora (compito prioritario, strategico, dei comunisti) dovrebbe uscire dalle grinfie della Nato e dell’Ue.

Germania: le elezioni dello scorso 23 febbraio non hanno solo cambiato il Paese, ma hanno riservato grandi lezioni politiche per noi comunisti in Italia. I cristiano-democratici della Cdu, nonostante la grande mobilitazione “antifascista” che ha portato al voto l’84% degli aventi diritto, ha conseguito un risultato (28,5%) inferiore a quello atteso e dovrà pensare, per governare, a quel “campo largo”, precedentemente esperito a Berlino e che è già stato alla base della crisi politico-istituzionale che ha portato a queste ultime elezioni in Germania. In termini più profondi, la modesta vittoria della Cdu di Merz indica chiaramente che lo stato d’animo del popolo tedesco non è affatto incline a una stabilizzazione politica, ma che possono ribollire nel suo seno potenti pulsioni reazionarie ormai libere dai tabù antinazisti.

Peraltro, il crollo della socialdemocrazia tedesca (Spd), che col suo 16,5% consegue il più basso risultato della propria, lunga, storia, dice chiaramente che la socialdemocrazia liberista europea (la “terza via”, da Tony Blair sino al Pd italiano, passando per i socialisti spagnoli e greci) vive con ogni probabilità una fase di morte irreversibile che, nella polarizzazione politica in corso, non può avere un orizzonte strategico.

Il raddoppio dei voti di Alternative für Deutschland (Afd, ora secondo partito, al 20,7%, il 10,4% nel 2021), una cavalcata delle valchirie che drammaticamente ricorda quella, impetuosa, del Partito Nazional Socialista dei Lavoratori, è la vera novità del panorama politico tedesco. Il partito dell’arrogante e dichiaratamente reazionaria ma totalmente eterodossa Alice Weidel (lesbica, compagna di un’immigrata srilankese con due figli con residenza in Svizzera e, dunque, ancor più pericolosa poiché esterna a ogni caricatura fascista e invece espressione della nuova dialettica sociale) è l’unica forza, tuttora, in grado di raccogliere quel grande malessere del popolo tedesco già manifestatosi nella frustrazione di vedere la propria “grande nazione” legarsi alla “meschina” Unione europea e vistosamente cresciuto nella crisi dell’industria e dell’economia tedesca indotta dalle sanzioni euroamericane contro la Russia e alla conseguente, obbligata, rinuncia alle matrie prime (innanzitutto il gas) russe. Il pericolo Afd, con il suo vasto insediamento nell’est, ma anche con una sua grande crescita nell’ovest tedesco, si fa davvero segno incipiente del possibile e prossimo futuro reazionario di massa europeo, tra le spinte neoimperialiste e di guerra dell’Ue e la crisi su vasta scala del movimento antimperialista e anticapitalista dell’area Ue. Una rivoluzione passiva di gramsciana memoria, a lungo sedimentata e che ora sta affiorando, non solo in Germania ma in tanta parte dell’Ue, da Vienna a Parigi, da Roma a Madrid. Una crisi che chiede ai comunisti europei di intraprendere un’azione di lotta unitaria, dal carattere sovranazionale, contro il capitale transnazionale europeo unitosi nell’Ue e contro il movimento fascista europeo anche quale rilancio delle lotte comuniste nazionali. Esigenza ancora troppo poco sentita, e ancor meno praticata, dal movimento comunista dell’Ue ed europeo tout court.

Particolarmente significativi, per i comunisti italiani, possono essere I risultati elettorali, in Germania, sia di Die Linke di Heidi Reichinnek che di Bsw di Sara Wagenknecht.

La Linke, data in calo, al 6% circa e persino in odore di extraparlamentarismo, raggiunge un inaspettato 8,8%: ma come lo raggiunge? È importante capirlo, per noi comunisti, in Italia. Raccoglie 4 milioni e 356mila voti circa attraverso lotte sociali mirate come quella, vasta e potente, per la difesa delle abitazioni popolari e per le tariffe corrette degli affitti. Lotte sociali per la sanità pubblica, contro il caro vita e per il salario minimo, che si sono accompagnate a posizioni elettorali precise e concrete, come quella relativa a una forte tassazione dei miliardari tedeschi e alla riforma del debito pubblico (per il quale il leader di Cdu, Merz, ha proposto di “togliere il freno”) e per il quale la Linke ha detto “sì” a condizione che lo si tolga solo per la spesa sociale, per il welfare e non per la spesa militare. La leader della Linke ha concluso i suoi comizi elettorali di gennaio al grido “Alle barricate!” e che andasse alle barricate la Linke lo ha fatto vedere anche lungo tutta la fase politica preelettorale.

Il Bsw di Sara Wagenknecht non ottiene, invece, il successo sperato e col 4,9% non entra nel Bundestag. Quali problemi possono essersi manifestati? Quali sono le lezioni da trarre anche per noi comunisti italiani? Per chi scrive non ha pagato (ma tra noi si aprirà un dibattito e una ricerca) la commistione, entro la stessa proposta politica, di temi avanzati sul piano sociale e internazionale e di temi più tradizionalmente appartenenti alle forze di destra, come un ben più severo e accigliato controllo sull’immigrazione, posizione che sta conquistando opportunisticamente, perché “dovrebbe” pagare sul piano elettorale, le forze liberali e laburiste europee. E ciò a partire dalle posizioni assunte dalla stessa Cdu tedesca e, soprattutto, dal leader laburista inglese Keir Starmer, scatenato nella “promessa” di guerra contro la Russia e, appunto – di pari passo – ormai omologabile alle forze di estrema destra sulle questioni dell’immigrazione. Peraltro, un importante report della Deutsche Bank aveva dimostrato, già nella fase preelettorale tedesca, come per solo il 26% degli elettori fosse importante la questione immigrati, mentre per oltre un terzo molto più importante fosse la questione sociale generale, dal salario all’occupazione, e come per il 45% decisivo fosse il problema dell’economia.

La lotta contro l’imperialismo “trumpiano”, per l’uscita dalla Nato e dall’Ue, a fianco dei Brics e in difesa dei concreti interessi operai e delle masse lavoratrici appaiono sempre più essere, e non è una legge rivelata, le questioni decisive per il rilancio di una conseguente opzione comunista in Italia.

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Enea Bontempi
Thursday, 06 March 2025 21:38
Nei prossimi dieci anni ci saranno tuoni e fulmini, ossia grandi tempeste: la previsione sgorga con un’evidenza inoppugnabile dalla famosa “degnità” vichiana: «Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose». Del resto, la borghesia internazionale non sembra affatto interessata, nella sua maggioranza ormai apertamente bonapartista, guerrafondaia e (sempre meno cripto-)fascista, a ripristinare un regime liberaldemocratico accantonando il progetto di quella svolta oligarchica e reazionaria che essa sta realizzando da un trentennio e di cui il trumpismo, sia pure come controparte dialettica, è il modello internazionale. In realtà, attardarsi a coltivare le interpretazioni esposte in questo articolo significa o sperare in una sconfitta del populismo bonapartista senza una lotta reale o vagheggiare un impossibile ritorno ad un passato ormai remoto in cui le ‘forme belle’ della dittatura della borghesia si sposavano, all’insegna del compromesso socialdemocratico e riformista, con un clima di relativa pace sociale e di relativo miglioramento delle condizioni del proletariato. Le classi dominanti italiane, ad esempio, non possono tornare al periodo “costituzionale”, alla “centralità del parlamento”, alle riforme e alle concessioni, perché non esistono più i margini economici con cui il combinato disposto del saggio medio di profitto e dello sfruttamento imperialistico permetteva di prolungare quel periodo. Da ciò nasce la crisi che attanaglia il sistema capital-imperialista e lo spinge irresistibilmente, in un’unica soluzione o “a pezzi”, verso la catastrofe bellica, come nel grande romanzo di Émile Zola, «La bestia umana», suggerisce la scena, ripresa da Rosa Luxemburg per il suo valore descrittivo ed esplicativo rispetto ad una crisi storica, della lotta all’ultimo sangue tra il macchinista e il fuochista, che si svolge nella locomotiva di un convoglio ferroviario il quale, privo di controllo, è lanciato alla massima velocità verso l’inevitabile disastro. Quello che si prospetta dinanzi a noi è pertanto un futuro senza avvenire, che non prevede un nuovo periodo di sviluppo progressivo del capitalismo monopolistico, giacché è ormai dimostrato, sia a livello teorico sia a livello empirico, che questo sistema economico e sociale non può mantenersi senza ricorrere alla trasformazione reazionaria di tutte le istituzioni politiche, alla distruzione dello Stato di diritto, alle guerre di aggressione e di rapina. Dal canto loro, il proletariato e le grandi masse lavoratrici non sono disposti a tornare nel putrido pantano della politica trasformista dei vecchi partiti borghesi e socialdemocratici, pantano da cui, come conferma la crescente astensione elettorale, si allontanano sempre di più. La conclusione che discende da queste considerazioni è che la lotta contro il populismo bonapartista e contro il fascismo non può essere efficace se si basa sulle fallimentari politiche socialdemocratiche, ottusamente riproposte anche in questo articolo; parimenti, non è possibile condurre la lotta per gli interessi di classe, contro l’Unione Europea, l’imperialismo americano e la NATO, imbellettando le opposizioni
piccolo-borghesi e spingendo i lavoratori sul terreno del nazionalismo borghese per strappare misere concessioni. Solo il proletariato unito, autoctono e immigrato, può assolvere il compito di una lotta conseguente e dirompente contro l’offensiva capitalistica, la reazione politica e le guerre imperialiste. Solo il proletariato, unito in un partito che sia comunista, rivoluzionario e marxista-leninista, può liberare il paese da ogni governo borghese e piccolo-borghese, aprendo la via ad un nuovo e superiore ordinamento sociale. Chi non capisce questa verità e non ne trae tutte le conseguenze è soltanto una mosca cocchiera che fa il gioco (non di una “borghesia di sinistra” che non esiste più ma) della borghesia ‘tout court’.
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