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Il risiko e il rischio

di Joseph Halevi

L'America che Obama ha ereditato da Bush può arrogarsi il diritto di decidere sui diritti umani nel mondo? No, l'attuale situazione in Iraq ed Afghanistan segnate a vita dalle storie di Abu Ghraib e Bagram e dalle innumerevoli vittime civili della guerra, la questione vergognosa e irrisolta di Guantanamo, alla fine l'approvazione del golpe in Honduras e la persistente accettazione della cancellazione da parte di Israele dei diritti civili, politici e nazionali dei palestinesi, testimoniano del fatto che nei confronti dei diritti umani nel mondo gli Usa non sono un paese kasher. Inoltre come metodo di pressione politica - come accade ora per il Tibet con la decisione di Obama di ricevere il Dalai Lama tre giorni dopo l'invio di 6,6 miliardi di dollari di armi a Taiwan - questa linea non può funzionare nei confronti della Cina. Come invece funzionava alla grande nei confronti dell'Urss la cui dipendenza alimentare dagli Usa era diventata endemica dopo le grandi crisi granarie del 1961-63. Il punto è che il capitalismo Usa necessita della Cina.

Ne consegue che le tensioni che si sviluppano tra i due paesi riflettono in gran parte il nodo della crisi globale e una problematica interna agli Stati uniti. Basti pensare a tutta la vicenda del conferimento a Pechino dello status di nazione più favorita durante la presidenza Clinton in tandem all'entrata della Cina nell'Organizzazione Mondiale del Commercio. Allora si abbinava dumping cinese e controllo del cambio e del flusso dei capitali all'assenza di diritti umani e dei lavoratori. Per aumentare la pressione venne gettata nel pentolone anche la vendita di armi a Taiwan, con l'aggiunta del peperoncino nordcoreano. Con lo spostamento dell'asse degli interessi capitalistici Usa verso l'outsourcing - e quindi verso un'economia nel cui circuito le importazioni entrano in maniera determinante ponendo quindi il problema del finanziamento di un deficit estero non eliminabile - è cambiata anche la natura della pressione sulla Cina. Non si tratta più di accusare Pechino di essere il vettore low cost a bassi salari della produzione di beni di consumo per il mercato Usa, né si tratta di chiedere alla Cina una maggiore liberalizzazione della sua bilancia dei pagamenti in conto capitale. La crisi asiatica dell 1997-98 mise fine a quest'ultima velleità, con Clinton che addirittura encomiò Pechino per aver mantenuto la stabilità fianziaria grazie ai suoi controlli.

Nei confronti della Cina l'amministrazione Obama non si discosta dalla concezione strategica elaborata alla fine degli anni Novanta presso la Rand Corporation da Zalmay Khalilzad, fino al 2009 ambasciatore Usa all'Onu dopo aver servito in Iraq (2005-2007) ed in Afghanistan (2003-2005). Il termine allora coniato da Khalilzad è congage, che significherebbe ingaggiare anche scontrandosi. L'idea è di forzare la Cina in uno schema compatibile con le mutevoli condizioni degli Usa. Sul piano economico la Cina dovrebbe continuare ad essere produttrice low cost in modo da permettere sia i profitti dell'economia di servizi e della distribuzione negli Usa, sia il consumo delle famiglie americane i cui redditi reali per occupato sono in calo da decenni. In tale contesto la Cina deve anche garantire il finanziamento del deficit Usa senza intralciare la politica monetaria di Washington. Deve inoltre affiancare gli Usa sia in Afghanistan che in Iran. Ogni volta che questo schema deraglia, Washington rilancia la pressione via Taiwan, diritti umani in Tibet (questi ultimi legittimi, ma non dal pulpito Usa) e cose simili - ma significativamente sulla repressione nello Xinjang musulmano la Casa bianca tace da sempre.

Oggi le equazioni economico geopolitiche Usa sono ancora più inconsistenti. La Cina dovrebbe aiutare la (non) ripresa statunitense rivalutando la sua moneta. Ad eccezione delle automobili, la produzione cinese di beni di consumo di massa e di input industriali è molte volte superiore qauella degli Usa, al punto che, in quei settori, Pechino ormai sorpassa Washington anche in termini procapite. Di quanto dovrebbe rivalutarsi lo yuan affinchè ridiventi conveniente localizzare la produzione nuovamente negli Stati uniti? Nemmeno una rivalutazione del 100 o 200% sarebbe sufficiente ad effettuare un tale mutamento strutturale lungo un arco di tempo assai lungo ma credibile. Nel frattempo si disarticolerebbero sia le relazioni produttive che di vendite, e i servizi finanziari ad esse connesse. Le discontinuità sarebbero insostenibili.

Lo stato autoritario e antioperaio cinese non è in osmosi con lo stato Usa, ma la produzione cinese è integrata al capitalismo statunitense e ciò si riproduce all'interno dell'America. Contraddizioni pesanti che gli Stati uniti non sanno affrontare e reagiscono brandendo delle clave in maniera inconsulta e senza coerenza. Ma con effetti pericolosi come quello di disarticolare la stessa base economica di Taiwan che oggi poggia interamente sulla Cina.

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