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Obama, un anno dopo l'insediamento

di Raffaele Sciortino

Alla fine del suo discorso sullo stato dell’Unione Obama, in un passaggio non privo di sincerità, ha dovuto riconoscere che a un anno dal suo insediamento presidenziale le sorti del paese ruotano sì ancora intorno al change ma che la sua realizzazione è divenuta problematica: “So che molti americani non sono più così sicuri del fatto che possiamo cambiare - o comunque che io posso farcela”. Dal discorso in effetti non emerge nessun cambiamento significativo realizzato. Non sul sistema sanitario e sulle emissioni di gas serra - la “minaccia” di misure punitive nei confronti del mercato si è dileguata, tira il fiato Forbes - non sulla finanza, non in politica estera e su Guantanamo, per stare ai temi principali in agenda: “the devastation remains”. Soprattutto la battaglia sulla sanità - ancora in corso ma oramai senza possibilità di un esito effettivamente avanzato, anche per le posizioni ultramoderate dello stesso partito democratico - ha inferto un serissimo colpo al programma obamiano, sia nello specifico sia per i risvolti politici complessivi.

Ora Obama cerca di rilanciare la sua agenda (anche se della green economy è rimasta la ripresa del nucleare e delle trivellazioni lungo le coste!). Ma lo smalto del presidente si è logorato: l’unico risultato effettivo che può rivendicare è quello di aver evitato il precipitare della crisi economica ma a costo di aver dovuto salvare “le stesse banche che hanno contribuito a causare questa crisi” riprendendo pari pari il programma di salvataggio dell’amministrazione Bush! Ciò non ha comunque impedito l’esplodere della disoccupazione e, se pure la crisi economica non dovesse esitare in un double dip (doppia recessione), non impedirà che quanto ci aspetta è semmai “una ripresa per le statistiche, e una recessione per le persone”, come ha riconosciuto il consigliere economico Larry Summers (La Stampa, 31 gennaio).


La questione si fa a questo punto stringente: se una vera svolta politica è possibile dipende sempre più direttamente da quale è il suo contenuto effettivo e in quali condizioni e rapporti di forza può farsi strada all’interno della società statunitense.

Sulla necessità di un riaggiustamento profondo Obama continua a non avere dubbi, consapevole della profondità di una crisi che richiama la necessità di “porre nuove basi per una crescita economica duratura… tentare qualcosa di nuovo”. Quello che però ha mancato di cogliere è che per una riforma del sistema è indispensabile far leva sull’urgenza del momento tenendo alta l’attenzione sulle condizioni drammatiche: la crisi economica esplosiva e i disastri delle guerre, che hanno permesso la sua vittoria elettorale.
Intervenendo a favore del sistema finanziario senza un effettivo scambio politico - il bail out statale delle banche è stato a senso unico e tutto a costo dei bilanci pubblici - Obama si è invece tolto da sé quella leva. E’ vero che oggi minaccia, vagamente, di agitare contro Wall Street la prospettiva di una regolamentazione finanziaria. Ma, come ha scritto Robert Reich sul suo blog, much of the game is over, ovvero è troppo tardi: tardi non per una qualche dose di regolamentazione, che potrebbe anche passare, ma certo per misure più radicali atte a intaccare effettivamente un meccanismo finanziario che ha oramai ampiamente superato la tradizionale divisione tra raccolta e speculazione ed è abilissimo a trovare scappatoie legali e procedurali ai tentativi anche minimi di regolazione. Ci vorrebbe almeno un segno di rottura degli equilibri nella squadra economica presidenziale, in cui sono piazzate tutte figure dell’alto establishment finanziario, il che però non sembra in vista; anzi Obama ha gettato tutto il suo peso sul piatto della riconferma di Bernanke alla Fed nonostante le ritrosie populiste di qualche senatore. Anche se qualche costo in più il sistema bancario statunitense dovesse alla fine pagarlo sul piano fiscale, il dato di fondo è che l’amministrazione Obama non può non pensare di affrontare la crisi insieme alla finanza e non, in certa misura, contro la finanza. Del resto, in che modo gli States controllano i flussi di valore globali se non attraverso di essa?

Ma c’è un’ulteriore implicazione. Avendo accollato sul groppone del bilancio statale i titoli svalutati e permesso a banche e fondi speculativi di rimacinare profitti grazie al meccanismo del carry trade sul dollaro in calo, Tesoro e Federal Reserve non solo stanno così ponendo le basi per una nuova bolla speculativa ma inaspriscono i rapporti economici internazionali imponendo nei fatti ai paesi asiatici e in particolare alla Cina di continuare a finanziare il debito Usa in crescita esponenziale. Non è estranea a questo nodo l’offensiva diplomatica lanciata contro Pechino contemporaneamente su più piani nell’ultima settimana: vendita di armi a Taiwan, affaire Google sicuramente concordato da questa azienda col dipartimento di Stato,  pressioni dirette per sanzioni all’Iran, annunciato incontro col Dalai Lama, pressioni per la rivalutazione dello yuan, minacce di ritorsioni protezionistiche a difesa del lavoro americano. Al di là dei fattori geostrategici in gioco, l’obiettivo è di alzare la posta chiarendo senza mezzi termini cosa si intende a Washington quando si parla della Cina come di un possibile “stakeholder responsabile”. Ora, quanto più l’amministrazione si consegna nelle mani dei banchieri, tanto più deve e dovrà seguire questo corso di “collisione controllata” - a Washington lo chiamano engagement - con Pechino e l’Asia Orientale, anche per sventare in anticipo ogni tentativo da parte del triangolo Pechino-Tokio-Seul di integrazione regionale dei mercati asiatici come risposta alla crisi globale e alla dipendenza dai mercati occidentali di sbocco. A Pechino il messaggio è stato prontamente interpretato: cercano di farci pagare la crisi. Al momento - un momento che non si sa quanto durerà - a nessuno dei due contendenti conviene arrivare ad uno strappo né dobbiamo pensare a una dinamica simile al vecchio bipolarismo date le condizioni del tutte diverse. Ma è evidente che a misura che il change si fa evanescente sul piano dei contenuti la politica statunitense tenderà ad assumere un tono sempre più anticinese o per lo meno oscillerà alla grande tra aperture e sfide anche in funzione di cattura di un consenso interno che sta venendo meno da altri lati.
Del resto, anche se dovesse proseguire senza grossi attriti, cosa difficile, questo peculiare deficit spending pagato in ultima istanza dai lavoratori asiatici, non sarebbe per questo garantito l’obiettivo di riavviare la ripresa e con essa l’occupazione - che è sempre più il problema per l’amministrazione. L’incredibile massa di liquidità spesa per salvare le banche too big too fail non si è riversata in investimenti produttivi mentre le prospettive non sono rosee per la spesa sociale. Il punto è che ad essersi seriamente incrinato è il meccanismo della finanziarizzazione della domanda in Occidente alimentata dai circuiti del debito: quella Bretton Woods II alla base della globalizzazione neoliberista che dagli anni Ottanta ha integrato la Cina nel mercato mondiale. E non saranno certo gli incentivi fiscali alle piccole imprese, oltretutto senza alcuna seria redistribuzione dei redditi e aumento delle tasse per i ricchi, a risolvere il problema che è di un modello economico complessivo. Di nuovo: come “tentare qualcosa di nuovo”?

Con la crisi la guerra ha rappresentato l’altra faglia di rottura che ha portato Obama alla presidenza. E anche su questo terreno, a fronte di uno sfoggio di retorica iniziale del resto ridimensionata con la rivendicazione del just war nel discorso per il nobel, non si registrano discontinuità importanti. La vicenda del surge in Afghanistan col raddoppio in un anno delle truppe - ma vedi anche Iran, Israele, Iraq, Colombia, Haiti ecc. - la dice lunga non solo sulla forza del complesso militare-industriale ma più in generale su quanto la geopolitica di Washington sia oramai una palla al piede per ogni riforma del sistema anche davanti a riaggiustamenti che paiono a tutti inaggirabili. Nè Obama ha davanti la prospettiva, come fu per Nixon nel ‘72, di un significativo riallineamento internazionale che alleggerisca le difficoltà attuali. Al contrario, la dottrina della counter-insurgency divenuta ufficiale al Pentagono con la recentissima Quadrennial Defense Review 2010 - sulla scorta dell’elaborazione di think tanks democratici quale il CNAS le cui teste d’uovo hanno riempito i posti lasciati vacanti dai neocons - va nel senso di riconfermare con rinnovate tattiche di impiego (special forces) e l’individuazione dei nuovi terreni di conflitto (guerre ibride, cyberspazio, cataclismi naturali e climatici, ecc.) gli impegni militari lungo la periferia attorno alla Cina e anzi di recuperare le posizioni perse in America Latina. La legge di bilancio appena presentata dall’amministrazione dà il supporto finanziario a tutto ciò senza alcuna riduzione delle spese per la difesa.

Allo stato, da qualunque parte la si guardi, la presidenza Obama è dunque oggi meno forte e credibile. La sua sfida, durante la campagna presidenziale e con la vittoria alle presidenziali, è stata quella di approntare una exit strategy dal bushismo in grado di rilanciare il primato statunitense su basi economiche e sociali diverse, nuove ancorché non di rottura. Stante l’insostenibilità complessiva del corso precedente sulla sua elezione c’è stata, detto rozzamente, una convergenza di due spinte differenti. Da un lato, la reazione dal basso di una parte della società statunitense, dalla composizione e con istanze peraltro non omogenee, che si è espressa in termini elettorali su di un terreno peraltro dissodato dalla mobilitazione non global e no war degli anni passati. Dall’altro, la presa d’atto da parte dell’élite economica e militare che, pena il declino, un cambiamento di strategia complessiva si impone alla politica americana e che tutto sommato il nuovo presidente, programmaticamente post-partisan, non solo dà garanzie di sostanziale continuità ma può servire a rivitalizzare l’american dream all’interno nonché ridare fiato ad una discreditata politica estera. Obama sta o cade con la capacità di tenere insieme questa duplice spinta: deve piegare la prima alle esigenze della seconda, chiaro, ma al tempo stesso ha bisogno di energie reali nella società volte al cambiamento. Per questo ha rappresentato da subito una transizione “trattenuta”, un equilibrio costitutivamente precario tra l’insostenibilità attuale del modello statunitense e l’irrinunciabile pretesa alla leadership globale, quella pretesa che gli fa scrivere ai 13 milioni di sostenitori della mailing list OrganizingForAmerica: “I will never accept second place for the United States of America”. La vaghezza del change promesso è stata la cifra di questa scommessa. Le incoerenze, le oscillazioni, i passi indietro evidenziati durante l’ultimo anno ne rappresentano il costo in una situazione che non ammette più vaghezze. A pagare lo scotto, così, è stata la stessa base obamiana che, in parte delusa in parte demotivata, non ha fatto il salto verso forme più incisive e organizzate e rivendicazioni dai contorni meno sfocati. Disomogenea nella sua composizione sociale, si è rivelata essere ancora in gran parte un fenomeno reattivo ed elettorale - peraltro senza alcuna possibilità di configurare un nuovo blocco newdealista - solo l’abbozzo grezzo di qualcosa tutto da costruire.
Ma se Obama ha dato un notevole contributo al de-potenziamento del movement, non ha risolto nessuno dei problemi in cui si ritorce la superpotenza statunitense. Qui ha davvero “fallito”: non è riuscito a convincere l’apparato di potere come sia nel suo stesso interesse cedere qualcosa all’interno per rilanciare la capacità di mobilitazione nazional-sociale nella contesa globale. Il sistema non è in grado di attuare neanche la più blanda delle autoriforme se non si sente minacciato da più radicali espropriazioni!
Il quadro adesso si presenta confuso, col rischio di una navigazione a vista mentre la destra sociale e politica rialza la testa sui temi classici delle tasse e del deficit (il Wall Street Journal parla oramai del debito statale come di una minaccia alla sicurezza nazionale. Confusi saranno anche i passaggi di polarizzazione e conflitto. Non è una nota esclusivamente americana. Le élites globali non sanno bene che fare e incrociano le dita. Il primo colpo della crisi globale è stato forte ma le sue conseguenze profonde non sono ancora del tutto evidenti né le reazioni sociali sono state esplosive. Diffuse sono ancora le speranze, tra la gente comune, di un ritorno alla “normalità” che fu. Il secondo colpo, se e quando arriverà, sarà anche un double dip della coscienza sociale.

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