Print Friendly, PDF & Email

Controversia su Marchionne, il liberismo e il centro-sinistra che verrà

Michele Boldrin vs Emiliano Brancaccio

Chi ha ragione tra la Fiom e Marchionne? Quali sono le cause del declino italiano? Come ha risposto alla crisi il governo Berlusconi? Quali politiche economiche dovrà mettere in campo un futuro ed eventuale governo di centro-sinistra? Un confronto a tutto campo – e senza esclusione di colpi – fra due economisti uniti dall’‘antitremontismo’ ma divisi su molte questioni di fondo. Una rappresentazione plastica delle ‘diverse opposizioni’ che si contrappongono alla destra italiana

MicroMega: Lo scorso 22 agosto sul Fatto Quotidiano Michele Boldrin scriveva che sul caso Fiat occorre «riflettere in termini concreti e non ideologicamente populisti come invece gli sciacalli della politica, da un lato e dall’altro, sembrano voler fare». «Sia a Melfi che a Pomigliano», si leggeva in quell’articolo intitolato «Ma io dico che Marchionne fa bene», «essa non ricatta nessuno: offre invece ai suoi dipendenti l’occasione per un rapporto di collaborazione basato su criteri altri da quelli che hanno (s)governato le relazioni industriali italiane dal primo dopoguerra ad oggi. Solo da tale nuova collaborazione può venire l’innovazione continua che costituisce la conditio sine qua non per prosperare. Rara eccezione nella storia secolare e peraltro poco encomiabile di questa impresa, il discorso Fiat è oggi un discorso di progresso e di crescita».

Sono tesi certamente molto distanti non solo da quelle della Fiom ma anche da quelle sostenute da larga parte della sinistra italiana. Professore, può precisare meglio in che modo secondo lei la strategia messa in atto dalla Fiat può rappresentare «un discorso di progresso e di crescita»?

Michele Boldrin:
Mi pare che la Fiat – per la prima volta da molto tempo a questa parte – stia cercando di comportarsi come un’impresa. Per impresa intendo un’impresa privata multinazionale che ha come punto di riferimento il mercato in cui opera, quello degli autoveicoli, a livello mondiale.

La Fiat ha messo in campo un piano imprenditoriale coerente. Io non sono uno specialista del settore e credo che per dare un giudizio serio e dettagliato su un piano del genere ci vogliano competenze tecniche molto specifiche. Quindi mi astengo dallo scendere nel dettaglio: non posso sapere se questo è un piano perfetto, se ce ne era uno migliore, se facendo ciò che dice di voler fare Fiat produrrà valore aggiunto, ricchezza, occupazione eccetera. Quello che posso vedere è che Fiat ha messo sul tavolo un progetto imprenditoriale chiaro, trasparente, per il quale è disposta ad assumersi dei rischi. Questo è ciò che un’impresa dovrebbe fare.

Per attuare il proprio piano Fiat non sta chiedendo sussidi (non in Italia, almeno, dove era pessima abitudine di Fiat e di tante imprese private farlo, con la complicità del mondo politico-sindacale). Sta alle altre parti accettare o non accettare l’offerta contrattuale che Fiat propone. Non è obbligatorio accettarla: la si può trovare inadeguata, inappropriata, perfino scandalosa. È una questione di punti di vista: c’è un aspetto di conflittualità in ogni tipo di relazione contrattuale e ce n’è uno, ovviamente, anche qui. E c’è anche un problema di collaborazione, di complementarità. Si tratta di scegliere quale premiare. Fiat ha assunto un atteggiamento trasparente su entrambi questi aspetti.

Il dibattito ideologico che si è scatenato in Italia sulla Costituzione, lo schiavismo eccetera, lo trovo francamente fuori luogo. Peggio: i «temi concreti» su cui tanto si discute in Italia e che sarebbero alla radice di questo nuovo schiavismo sono dati acquisiti nel resto del mondo e, in particolare, nell’industria automobilistica occidentale, ossia fra i concorrenti Fiat. Da questo io deduco che si stanno dando alla Fiat lezioni che, se dovessero essere accettate, la renderebbero mondialmente non competitiva e quindi destinata al fallimento. Se si vogliono dare consigli alla Fiat su come fare meglio il proprio lavoro, sarebbe appropriato insegnare alla Fiat come essere più innovatrice, più competitiva e quindi più forte sul mercato mondiale, perché solo così potrebbe creare occupazione addizionale ad alto valore aggiunto. Se qualcuno sa migliorare il piano industriale della Fiat, beh, si faccia avanti e lo dimostri! Io questo non lo so fare, quindi taccio. Se altri lo sanno fare, che parlino.

Marchionne in Italia è diventato per alcuni il simbolo del bene, per altri il simbolo del male. Per me non è il simbolo di niente: è uno che fa il manager. E lo fa con una prospettiva chiaramente internazionale, come è giusto che sia. L’impresa automobilistica non può operare entro l’angusta prospettiva di un mercato nazionale, domestico. Se lo fa muore. Di nuovo: se io fossi un tecnico del settore auto forse potrei avere delle competenze per poter dire a Marchionne: «No, ti sbagli, quel tipo di motore lì non è adatto a questa vettura per questa o quella ragione, non deve essere costruito in Polonia per questa o quella ragione». Ma non ho queste competenze. Come non credo che le abbia la stragrande maggioranza di tutti coloro che hanno sollevato questa campagna anti-Marchionne e neanche quelli che hanno sollevato l’altra, forse meno rumorosa ma altrettanto reale, pro-Marchionne. Ho chiesto a molti esperti del settore automobilistico che ne pensino e la risposta è uniforme: ragionevole, anche se forse non coraggioso abbastanza, dovrebbe concentrare di più la produzione, ma ha vincoli politici. Sono quindi perplesso di fronte alla natura tutta ideologica del dibattito italiano, un dibattito che sembra completamente disinteressarsi di ciò che un’impresa deve fare: produrre le proprie merci, vendere il proprio prodotto, generare occupazione e fare profitti.

Emiliano Brancaccio: Sostengo da tempo che la controversia su Marchionne buono/Marchionne cattivo esprime un modo naïf di affrontare la questione che purtroppo è molto diffuso nella sinistra italiana. Tuttavia, fatta questa premessa, credo che una documentata riflessione su Marchionne e sulla Fiat si possa e quindi si debba senz’altro fare.

A questo scopo, ricordo innanzitutto alcuni fatti. Per lo stabilimento di Pomigliano Marchionne aveva stilato una proposta di accordo fondata su 18 turni settimanali incluso il sabato notte, sul controllo biomeccanico di ogni singolo gesto dell’operaio (il cosiddetto «sistema Ergo-Uas»), sulla riduzione drastica delle pause e su una pesante restrizione del diritto di sciopero (definita fra l’altro «incostituzionale» da autorevoli giuslavoristi). Ora, questa proposta di accordo è stata contestata dalla Fiom Cgil, mentre è stata salutata con entusiasmo dalla Cisl, dalla Uil, da diversi esponenti del governo Berlusconi e anche da svariati economisti che per comodità di sintesi potremmo definire di ispirazione «liberista».

Al grido di 10, 100, 1000 Pomigliano, i sostenitori di questo accordo lo hanno addirittura presentato come un modello di riferimento da estendere a tutto il sistema nazionale di relazioni industriali.

Tuttavia nel momento in cui l’accordo è stato sottoposto a referendum aziendale, quasi il 40 per cento degli operai dello stabilimento di Pomigliano lo ha considerato inaccettabile, indegno e ha votato contro. Qualcuno, prima della consultazione, aveva dichiarato che a respingere l’accordo sarebbe stato solo un piccolo «drappello ideologico» presente fra gli operai. Ebbene, oggi sappiamo che il cosiddetto «drappello» ha sfiorato il 40 per cento. Quanto alla presunta «ideologia», va ricordato che parliamo di lavoratori che hanno votato nella piena consapevolezza del fatto che stanno rischiando il posto di lavoro, tra l’altro in una realtà territoriale nella quale reimpiegarsi è molto difficile.

Sappiamo che questo risultato ha rappresentato una sconfitta per Marchionne. Il motivo è che egli avrebbe avuto bisogno di un plebiscito per garantirsi la piena applicazione di un accordo che esige molto dai comportamenti di ogni singolo operaio.

Ma allora, una volta che il plebiscito non c’è stato, era lecito attendersi un passo indietro da parte della Fiat, un tentativo di «ricucitura». Così però non è stato. Anzi, da quel momento Marchionne ha alzato il tiro, è andato in tv, ha iniziato a esternare e ha calcato talmente la mano da risultare a un certo punto anche poco attendibile. Faccio un esempio tratto dalla famigerata intervista concessa a Fabio Fazio. In quell’occasione l’amministratore delegato di Fiat ha dichiarato che in termini di efficienza del mercato del lavoro l’Italia si collocherebbe al 118° posto su 139 paesi: non soltanto dietro la Francia, che è 60a, la Germania, che è 79 a, o la Spagna, che è 115 a; ma anche dietro paesi come il Senegal e il Mozambico… La classifica in questione è stata redatta dal World Economic Forum, una nota associazione di manager e di banchieri che si riunisce ogni anno a Davos, in Svizzera. Ecco, diciamo che i media italiani se la sono «bevuta» acriticamente. Bisognerebbe infatti sapere che questa classifica non riflette dati oggettivi. Essa rappresenta la mera risultante di una serie di interviste, peraltro limitate a un campione di soli imprenditori e dirigenti d’azienda. In sostanza ad ogni imprenditore intervistato si chiede di dare un voto all’efficienza del mercato del lavoro del suo paese.

Ora, andrebbe tenuto presente che in ambito scientifico questo metodo di rilevazione viene considerato a dir poco rozzo. Ma soprattutto si tratta di un metodo che non trova giustificazioni, visto che esistono misure alternative più robuste. Sono anni che le università e le istituzioni internazionali compiono sforzi enormi per determinare indicatori il più possibile oggettivi. Uno di questi indicatori è l’Employment Protection Legislation (Epl). Si tratta di un indice calcolato dall’Ocse che misura il grado di protezione normativa e contrattuale dei lavoratori e implicitamente definisce anche il grado di flessibilità del mercato del lavoro. È un indice complicato, per molti versi impreciso, che richiede continue correzioni, ma almeno si basa su un’analisi oggettiva delle norme e dei contratti, e non dipende dal fatto che gli imprenditori intervistati il giorno dell’intervista si siano magari svegliati con la luna storta o di buon umore.

Se dunque guardiamo alle classifiche basate sull’Epl, noi scopriamo una realtà ben diversa da quella dipinta da Marchionne. In primo luogo l’Italia non si colloca affatto in coda bensì in una posizione intermedia tra le nazioni esaminate: stando ai dati 2008, in Europa essa rientra tra gli otto paesi più «flessibili», con un livello generale di protezione dei lavoratori che è inferiore a quello che per esempio si registra non solo in Grecia ma anche in Germania, in Francia, in Spagna, in Belgio, persino in Polonia. Inoltre va ricordato che nell’arco del decennio in cui sono stati approvati sia il pacchetto Treu che la legge Biagi, l’Italia ha realizzato un vero e proprio record, cioè ha fatto registrare la più pesante caduta dell’indice di protezione dei lavoratori tra tutti i paesi oggetto delle stime Ocse: tutti!

Diciamo allora che se Marchionne avesse preso l’Epl come riferimento, magari avrebbe offerto un quadro meno suggestivo da un punto di vista mediatico – e meno conforme ai suoi interessi – ma certamente più credibile, più aderente alla reale esperienza quotidiana dei lavoratori Fiat così come di milioni di lavoratori italiani.

Boldrin: Siamo finiti, come temevo, a dare i voti politici a Marchionne. Checché ne dica in apertura di intervento, il mio interlocutore si cimenta poi con il tema Marchionne cattivo vs Marchionne buono, gli dà un voto basso e gli spiega cosa fare sul piano politico, non industriale. Specificatamente dovrebbe «ricucire» modificando l’intero piano industriale Fiat perché a una certa percentuale di lavoratori attuali di Pomigliano quella proposta non piace. Su quest’ultimo punto ritorno fra un attimo, ma noto immediatamente l’incongruenza: qual è il criterio secondo cui Brancaccio dà a Marchionne un voto negativo? È un criterio politico-ideologico.

Brancaccio ha tirato in ballo la questione degli indici per spiegare a Marchionne che avrebbe dovuto citarne un altro nelle sue dichiarazioni. Io vorrei suggerire un indice nuovo e brutalmente obiettivo: quante aziende automobilistiche investono in Italia? Nessuna, a parte Fiat. Che sia per caso?

Fiat produce all’estero più della metà della sua produzione totale. È quindi un’impresa multinazionale. Questo può piacerci o meno, ma è un fatto. Solamente in Argentina e Brasile produce più macchine e autoveicoli industriali di quanti ne produca in Italia. Ora, in Italia Marchionne valuta le condizioni necessarie per stare sul mercato, per essere profittevole e offre un contratto che è assolutamente standard nel settore automobilistico mondiale. Non è niente di particolare: è quello che ad esempio si utilizza nelle fabbriche di Detroit da parecchi anni, dove non ha provocato la morte di nessuno. Ad avviso di alcuni le condizioni poste da Marchionne sono ispirate a una qualche sua «cattiveria antipopolare». Se così fosse Marchionne starebbe lasciando delle opportunità di profitto sul terreno. Evidentemente in Italia – date le attuali condizioni contrattuali, sindacali e legislative – investire per costruire impianti automobilistici gestiti secondo i criteri che la Fiom richiede è profittevole, ma Marchionne non lo capisce e non lo fa perché si è intestardito nel suo desiderio di peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori. C’è da aspettarsi, allora, che lo farà Volkswagen, che lo faranno Renault, Ford, General Motors, Toyota, Honda eccetera. Il mondo è pieno di imprese automobilistiche: vedo che si stanno distribuendo nel mondo per produrre veicoli là dove trovano delle condizioni appropriate che permettano loro di stare sul mercato. Se Brancaccio e la Fiom hanno ragione, mi attendo lo sbarco in Italia di una o più di queste imprese nei prossimi mesi. Al momento non vedo una fila di imprese come Honda, Toyota eccetera, che dicano: «Prendiamo noi Pomigliano! Veniamo noi a investire in Italia secondo le direttive degli esperti della Fiom Cgil!». Io, come indice della situazione, uso questi fatti, osservabili da tutti. Sul resto, sugli indici citati da Brancaccio, si può discutere, ma mi pare una discussione in perfetto «stile italiano» che non porta da nessuna parte, non arriva alla sostanza. E la sostanza è la seguente: esiste una maniera di produrre macchine nel mondo che è la stessa dal Polo Sud al Polo Nord: ciò che Marchionne e la Fiat stanno cercando di fare a Pomigliano, a Termini, a Mirafiori è mantenersi su quei livelli. Il fine è quello di riuscire a stare sul mercato, a non fallire, a non andare a chiedere sussidi pubblici, come hanno fatto fino a poco tempo fa.

Una parte del mondo politico e sindacale italiano – tanto a destra quanto a sinistra – non riesce a capire questi concetti elementari e chiede alla Fiat di utilizzare metodi di produzione diversi, con dietro l’implicita offerta di tornare a foraggiarla attraverso sussidi che gravano su tutti i contribuenti.

Questa è la vera questione sul terreno. La Fiat, in virtù di un suo disegno strategico, dice di no. E se fossi un contribuente italiano anche io direi senza tentennamenti di preferire una Fiat non sussidiata.

Brancaccio: Rilevo innanzitutto che Boldrin non se la sente di esprimere una valutazione sul confronto tra il rozzo indicatore del World Economic Forum citato da Marchionne e l’indice generale di protezione dei lavoratori calcolato dall’Ocse. Francamente mi pare un modo un po’ curioso di interpretare il celebre motto di Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere», che pure Boldrin mette in bella mostra sul suo sito web. Ad ogni modo, io ho riportato dei dati. Lascio ad altri il compito di fare discorsi ideologici o di formulare giudizi «morali» su Sergio Marchionne.

Del resto, quando Marchionne dice che gli conviene produrre negli Stati Uniti o in Brasile o in Polonia o in Serbia dice il vero. Per questo va preso sul serio quando minaccia di delocalizzare la produzione. In questo modo, del tutto indipendentemente dalle intenzioni, egli svolge un ruolo nel dumping salariale e dei diritti che da tempo imperversa a livello mondiale. Questo dumping con la crisi si è ulteriormente inasprito e guarda caso colpisce soprattutto i paesi come il nostro, caratterizzati da un minore grado di organizzazione interna dei capitali. Ma quando Marchionne calca la mano sul diritto di sciopero, sulle tre pause da dieci minuti piuttosto che sulle due da venti eccetera, a me pare si comporti da manager di un’azienda che da tempo si considera in piena crisi nella competizione europea, e che di conseguenza tende a intervenire solo sul costo del lavoro. Egli cioè si comporta da manager che probabilmente accentua lo scontro con i lavoratori anche per evitare di discutere delle inefficienze storiche della Fiat sul versante delle economie di scala, dei costi intermedi, della logistica, della capacità di competere nella fascia rilevante del mercato europeo.

Il comportamento di Marchionne è dunque sintomatico di una crisi strutturale del gruppo, che si trascina da molto tempo. Per questo non si tratta banalmente di «dare i voti» a Marchionne.

Piuttosto, il problema reale che si pone è di ordine politico, è un problema che chiama in causa il governo. Si tratta di aver ben presente che di fronte a una minaccia di delocalizzazione, sono molte le opzioni di cui la politica economica può disporre. Il governo può decidere di non fare niente, o può venire incontro alla richiesta delle imprese di abbattere le tutele dei lavoratori, oppure può dare dei sussidi alle aziende, o può ridurre il grado di apertura dei mercati limitando sia le possibilità di delocalizzazione sia le importazioni dall’estero, oppure ancora può attivare un programma di investimenti infrastrutturali intorno alle aziende e al limite può anche nazionalizzare. Può infine intervenire con un mix di alcune tra queste opzioni. Insomma, la storia e l’esperienza corrente di tanti paesi ci insegnano che le possibilità di intervento sono numerose.

Nel caso in questione noi sappiamo che il governo Berlusconi ha espressamente deciso di non fare niente, con la sola eccezione del pieno sostegno all’accordo su Pomigliano e del contributo continuo che sta dando per abbattere le tutele normative e contrattuali dei lavoratori. Per quello che ho letto, e per quello che sto sentendo adesso dal mio interlocutore, gli economisti «liberisti» sono perfettamente d’accordo con la posizione del governo Berlusconi.

A me invece questa linea non convince affatto. Mi piacerebbe quindi sapere come si comporterebbero le forze dell’opposizione se si trovassero ad avere responsabilità di governo, perché ad oggi la loro linea non mi sembra chiara.

Eppure la situazione è grave. Dopo aver perso l’informatica, la chimica, l’elettronica di consumo, l’elettromeccanica, praticamente anche l’aeronautica civile, noi qui stiamo davvero rischiando di perdere il settore automobilistico. Beninteso, possiamo anche metterci l’anima in pace e lasciar fare alle famigerate «forze spontanee» del mercato. Ma questa non mi sembra la soluzione più brillante, ammesso che realmente ci interessi il futuro – produttivo e non – del nostro paese. Quanto alle politiche che ho elencato, alcune di esse potrebbero costituire un’alternativa realistica alla totale latitanza del nostro governo. Nel dibattito da «basso impero» che imperversa nel nostro paese se ne discute poco, ma bisognerebbe tener presente che negli ultimi due anni sono state adottate ben 332 nuove misure protezionistiche a livello mondiale, delle quali 60 da parte della Russia, 23 da parte degli Stati Uniti, 20 da parte della Cina, 13 da parte della Corea del Sud, 12 da parte del Brasile e dell’India (dati della Commissione Europea). Si tratta di barriere doganali, vincoli agli investimenti all’estero e all’export, stimoli ai consumi e alle produzioni nazionali. Aggiungo che il settore automobilistico è stato fortemente interessato da queste iniziative, con 42 misure complessive. Ebbene, considerato per esempio che in Corea del Sud l’intera Unione Europea riesce a vendere non più di 30 mila vetture all’anno, forse sarebbe il caso di farci un pensiero.

Agli incalliti liberoscambisti che amano frequentare gli ambienti della sinistra vorrei anche ricordare che Paul Samuelson e Paul Krugman – entrambi premi Nobel ed esperti in particolar modo di economia internazionale – hanno sempre tenuto a precisare che i famigerati teoremi a favore del libero scambio perdono rilevanza in situazioni di disoccupazione. Questo significa che persino nell’ambito della teoria mainstream diventa difficile giustificare una politica di apertura indiscriminata dei mercati.

Boldrin: Quando qualcuno si prende la briga di andare a guardare il mio sito web e riprendere le citazioni che ci metto dovrebbe anche sforzarsi di capire quel che significano. A quanto pare il mio interlocutore possiede, o ritiene di possedere, delle soluzioni che risolverebbero i problemi della Fiat. È un’ottima notizia. Se davvero Brancaccio conosce il sistema che permetterà alla Fiat di costruire automobili in grado di sbaragliare la concorrenza di Honda, Toyota e compagnia bella sul mercato mondiale, credo che la Fiat sarà estremamente interessata a ingaggiarlo per servirsi dei suoi consigli e delle sue indicazioni. Però non mi pare che, concretamente, queste soluzioni siano venute fuori. Per il resto mi pare che il discorso sia tutto politico e tutto ideologico e a me non interessa.

A me interessa solo cercare di capire, nei limiti del possibile, cosa stia facendo la Fiat. E non perché abbia un particolare amore per la Fiat: non ho mai posseduto un’auto Fiat, non possiedo azioni Fiat, non ho alcuna particolare simpatia per l’azionista di controllo della Fiat, la famiglia Agnelli. Giudico semplicemente la Fiat come giudico qualsiasi altra impresa. La cosa giusta che un’impresa può e deve fare è stare sul mercato, crescere, fare profitti, offrire lavoro e non cercare sussidi. Fiat ritiene che il nuovo piano industriale le permetterà di fare tutto questo: saranno i fatti e la storia a dirci se aveva ragione. Chi avrà voglia di accettare i contratti proposti da Fiat li accetterà, chi non ne avrà voglia non li accetterà: non è obbligatorio, non c’è una pistola puntata sulla tempia di nessuno che impone di lavorare in Fiat. Le osservazioni e i dati di cui disponiamo ci dicono che evidentemente Marchionne qualcosa di decente per la Fiat l’ha fatto, almeno dal punto di vista del conto economico. Da quando c’è lui la situazione è migliorata molto. Quando verrà il momento saranno poi gli azionisti a decidere e a fare un bilancio più dettagliato e preciso.

Oggi la Fiat sta mandando un segnale preciso: sta dicendo che se non riesce a produrre in modo competitivo in Italia deve andare via. Cioè deve aumentare gli investimenti che sta facendo in Polonia, in Brasile, in Serbia e diminuire quelli in Italia. Mi sembra che si tratti di una scelta assolutamente legittima: se sta sbagliando pagherà i costi derivanti da questo errore di valutazione; se invece ha ragione passerà all’incasso. Punto. Fine.

Brancaccio ha elencato tutta una serie di proposte come il blocco dei movimenti dei capitali – nel senso sia finanziario che fisico – la monopolizzazione dell’industria nazionale tramite misure protezionistiche (che impediscano cioè ad altre imprese di vendere le proprie auto in Italia) o addirittura l’esproprio degli impianti Fiat. Tutto questo non c’entra nulla con la Fiat: è un programma di governo d’un partito che intende espropriare certi capitali, da un lato, e impedire il commercio con l’estero (almeno in certi settori) dall’altro. Ne prendo atto. A me sembra il prodotto d’una profonda confusione su come funziona il mondo.

Per fare un po’ di ordine in questa confusione è bene precisare innanzitutto che oggi ciò che conta non sono le macchine e gli impianti. Ciò che costa e conta è il know-how ingegneristico di progettazione, di disegno eccetera. Fiat subirebbe una perdita relativamente piccola se abbandonasse letteralmente gli impianti di Pomigliano, o di qualche altro sito italiano, per ricostruirli dal nulla in un altro paese. Quel che è veramente importante per un’impresa di questo tipo è il know-how, il personale altamente specializzato, le persone che le macchine inventano e disegnano, chi progetta i motori, chi studia i nuovi modelli, chi genera idee. Queste persone non è che possano essere trattenute sul suolo nazionale da una qualche misura protezionistica. Io, francamente, non conosco nemmeno la struttura dirigenziale e tecnica della Fiat, non so da chi sia composta; è probabile che ci sia dentro gente di tutte le nazionalità: indiani, polacchi, cinesi, inglesi eccetera. Non è che si possono mettere le idee che queste teste partoriscono in un barattolo e impedire che se ne vadano in giro. Dietro il discorso di Brancaccio c’è una visione primitiva di come funziona l’economia mondiale e di come funziona un’impresa automobilistica. È una visione antiquata, ottocentesca, tutta fondata sulla centralità del capitale fisico. A me questa strada del protezionismo che suggerisce Brancaccio pare un’opzione suicida. Ma del resto l’Italia ha praticato politiche economiche suicide per moltissimi anni, dunque non mi sorprende di sentirle anche in questa sede, di fronte a una situazione di grave crisi. La nostra produttività è al palo, la nostra industria manifatturiera e dei servizi in generale fa sempre più fatica a restare competitiva sul mercato mondiale, e cosa si propone? La nazionalizzazione delle imprese e la chiusura del commercio internazionale. Non so nemmeno come commentare simili affermazioni…

Brancaccio: Boldrin dice che quel che conta nelle produzioni ad alto valore aggiunto – e quindi anche nel settore automobilistico – è essenzialmente il know-how. Risulta anche a me che in genere le cose stiano così. Se però guardiamo al piano di Marchionne, scopriamo che esso si concentra in larga misura su questioni un po’ diverse, come i dieci minuti di pausa dei lavoratori o le operazioni biomeccaniche che il singolo operaio deve effettuare per reggere il ritmo della catena sulla quale si muovono le scocche, o il diritto di sciopero eccetera. Questo evidentemente dovrebbe darci qualche indizio su ciò che Marchionne ritiene importante per le determinanti dei costi e dell’efficienza aziendale. Quanto al discorso sul protezionismo, Boldrin vive negli Stati Uniti e può darsi che non sia al corrente del dibattito, ma quei dati e quell’elenco sono tratti da un rapporto della Commissione Europea di cui si sta ampiamente discutendo. La Commissione Europea ha rilevato che dagli Stati Uniti alla Cina, passando per la Corea del Sud, svariati paesi hanno adottato misure di carattere protezionistico finalizzate a vincolare gli investimenti all’estero, incentivare i consumi interni e tutelare le produzioni nazionali. Si tratta ormai di cose all’ordine del giorno in larga parte del mondo ed etichettarle come «chiacchiere» o residui di un’ideologia arcaica o provinciale mi sembra un esercizio retorico inutile. Che ci piaccia o no, questi sono i nodi e le questioni che dominano la discussione di politica economica internazionale.

Boldrin: Punto primo: mi pare francamente riduttivo – anzi, direi poco onesto intellettualmente – dire che per Marchionne tutto il problema risiede nei 10 minuti di pausa degli operai e in cose di questo genere. Che tutta la sua attenzione è concentrata lì. Questa è ovviamente la parte che interessa la Fiom, ed è infatti ciò attorno a cui hanno costruito la loro battaglia (secondo me con poca lungimiranza). Dire che il piano Marchionne si riduce alla soppressione di 10 minuti di pausa a Pomigliano è una cosa ridicola.

Punto secondo: certo che di protezionismo si discute a livello mondiale. Ma se ne discute con molta preoccupazione, come di un pericolo al quale stiamo andando incontro. Non certo per sostenere che queste misure protezionistiche possano rappresentare una reale soluzione alla crisi globale!

Brancaccio: Rilevo un vizio logico nell’argomentazione di Boldrin. Se davvero – come lui sostiene – le pause, i 10 minuti, il sistema Uas eccetera sono cose che la Fiat e Marchionne reputano del tutto secondarie, allora lo stesso Boldrin ci dovrebbe spiegare per quale motivo il confronto con il sindacato è andato in stallo già a partire dall’esame di quei punti.

Quanto al protezionismo, i dati e il dibattito internazionale al quale facevo riferimento dimostrano che della questione si può e si deve discutere. Il nostro provincialismo è rappresentato proprio dal nostro silenzio. Boldrin dice che se ne discute con «preoccupazione»? Io ho il sospetto che tra poco se ne discuterà con rassegnazione: la rassegnazione di chi si limita a subire quello che fanno gli altri senza fare nulla.

MicroMega: Visto che ci stiamo spostando su questioni più di «sistema» potremmo approfittarne per un giudizio più generale – cioè oltre la semplice analisi del caso Fiat – della politica economica del governo Berlusconi. Quale bilancio è possibile fare della gestione della crisi da parte dell’esecutivo, e in primo luogo da parte del nostro ministro dell’Economia Giulio Tremonti? Quale valutazione possiamo dare della politica economica del centro-destra italiano?

Boldrin: Su Berlusconi e su Tremonti io ho già scritto tutto il male possibile. Non mi resta che ribadire anche in questa sede quei giudizi: la loro politica economica è pessima. Comunque nella politica economica italiana c’è una continuità che va oltre Berlusconi. Francamente non vedo molte differenze fra il governo Berlusconi e quello precedente. Qualche differenza c’è, ma gli aspetti comuni sono senz’altro preponderanti.

Il maggiore di questi aspetti comuni – il più preoccupante – è l’assenza di una reale consapevolezza della gravità della condizione economico-sociale del paese. La crisi italiana non è iniziata con il crollo di Wall Street, con i mutui ipotecari che andavano a male nel 2006-2007. La nostra crisi è iniziata da un punto di vista statistico più o meno nel 2000 e in termini reali ancora prima, io direi all’inizio degli anni Novanta. Di questo il paese non è consapevole: a destra, a sinistra e al centro, qualsiasi sia il colore politico preso in esame, c’è una totale sottovalutazione della gravità della situazione. Nessuno sembra comprendere l’urgenza di determinate riforme. La parola «riforme» in Italia è una parola molto usata e abusata, ma di riforme vere non si scorge traccia.

L’Italia è ormai un paese «in via di sottosviluppo». I segnali sono chiarissimi: socialmente, nella vita quotidiana, lo erano già negli anni Novanta (e forse anche negli anni Ottanta); ora lo sono anche nelle statistiche. Il dibattito sulle politiche economiche in Italia mi pare completamente distorto, mi ricorda quello dell’Argentina: la gente si rifiuta di vedere la realtà, si rifiuta di vedere che la produttività del lavoro non cresce da molti anni, che la preparazione dei nostri studenti è sempre più scadente, che l’intero sistema dei servizi pubblici sta collassando ed è ormai peggiore di quello greco e di quello portoghese. Il pil pro capite italiano oggi è inferiore a quello del 2000 del 3 per cento! Peggio di noi ha fatto un solo paese, Haiti!

In un sistema del genere non solo le imprese non investono ma le stesse energie migliori non vedono l’ora di fuggire. Evitiamo subito qualsiasi polemica antipatica: c’è una gran quantità di gioventù italiana dalle capacità straordinarie, con grandi motivazioni e un’ottima preparazione. Ma sono quegli stessi giovani che io vedo uscire dal paese a un tasso sempre crescente. E nel mondo in cui viviamo un paese riesce a rimanere sulla frontiera tecnologica e a evitare il declino solo se riesce a far cooperare al suo interno le energie migliori con la massa dei lavoratori. Se le persone altamente specializzate, quelle con grandi conoscenze e anche con rilevanti doti personali, tendono ad andarsene – non tutte, ma in una percentuale sempre più alta – allora quel paese perde per sempre il suo fattore produttivo più importante. Che, ripeto, non è costituito dalle macchine, dagli impianti, dai capannoni e dalle gru. Oggi ciò che conta nel mondo è il personale altamente qualificato: è la conoscenza che produce innovazione, crescita e ricchezza.

Questa è una realtà che era già vera ai miei tempi, all’inizio degli anni Ottanta, quando non eravamo poi in tanti ad andarcene. Oggi il fenomeno è diventato spaventoso. Io vado in giro per il mondo e trovo trentenni italiani di altissima qualificazione ovunque. Sono il termometro, il segnale inequivocabile che ci mostra come il sistema paese proprio non regga più. Di questo sia la sinistra che la destra mi sembrano completamente inconsapevoli.

Brancaccio:
Sappiamo bene che nel nostro paese le risorse umane e le capacità di tanti giovani qualificati non vengono adeguatamente valorizzate. Uno degli indicatori che evidenzia quanto sia «bloccata» la nostra società è il tasso di mobilità intergenerazionale, che misura ad esempio quante possibilità ha il figlio di un operaio di risalire la scala sociale, cioè di migliorare rispetto alla condizione della famiglia di origine. Sotto questo aspetto l’Italia si trova in una posizione disastrosa, agli ultimi posti tra i paesi industrializzati. Siamo di fronte a una cristallizzazione sociale che impedisce a tanti giovani meritevoli di trovare sbocchi all’altezza delle loro aspettative e delle loro capacità. Per sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni, faccio anche notare che nella classifica Ocse della mobilità sociale l’Italia è in coda assieme al Regno Unito e agli Stati Uniti. Dunque, per quanto possa apparire sorprendente, il paese del «sogno americano» è in realtà caratterizzato da bassissimi livelli di mobilità tra le generazioni.

Ma veniamo più nel dettaglio al governo Berlusconi. Il governo ci ha bombardato con la litania che abbiamo retto bene alla crisi, che siamo messi meglio degli altri paesi europei eccetera. Se andiamo a vedere i dati però è facile rendersi conto che non è così. Prendiamo le stime del Fondo monetario internazionale sui risultati di fine anno: in termini di crescita del prodotto interno lordo l’Italia ha fatto peggio di quasi tutti in Europa. Per quanto riguarda la disoccupazione, la Banca d’Italia ha stimato che adoperando criteri di calcolo il più possibile uniformi tra i paesi (e dunque conteggiando per esempio anche le ore di cassa integrazione, che rappresentano una specificità italiana) il nostro tasso di disoccupazione oltrepassa l’11 per cento. Esso quindi eguaglia quello francese e supera quello di Germania e Inghilterra. Faccio notare che dopo averli definiti dei «dati ansiogeni», Tremonti è stato costretto a tornare sui propri passi e ha riconosciuto che i numeri della Banca d’Italia sulla disoccupazione erano corretti.

A quel punto però – forse per cercare di diffondere un pochino di ottimismo – il ministro dell’Economia ha tirato fuori una tesi fantasiosa, che mi pare stia andando per la maggiore proprio tra gli economisti «liberisti». Secondo questa tesi, a fronte della crescita dei disoccupati ci sarebbero in realtà moltissimi posti di lavoro vacanti: basterebbe dunque favorire l’incontro tra gli uni e gli altri per ridurre significativamente il tasso di disoccupazione. In realtà i dati ci dicono una cosa diversa: il numero dei disoccupati cresce a tassi multipli rispetto al numero dei posti vacanti e quindi pensare che per ogni lavoratore rimasto a spasso ci sia un posto libero ad attenderlo – al di là degli ovvi problemi di riqualificazione che bisognerebbe affrontare – è evidentemente illusorio e, almeno per quanto riguarda il ministro Tremonti, anche un po’ da irresponsabili.

La verità dei fatti è che la crisi ha colpito l’Italia duramente e rischia di avere ripercussioni irreversibili sul nostro tessuto produttivo. I tassi di mortalità delle imprese sono estremamente alti. Moltissime imprese escono dal mercato e quelle che rimangono non si accorpano, non si centralizzano. Questo è uno dei problemi principali dell’Italia: il basso grado di organizzazione e di centralizzazione dei capitali.

In una situazione così drammatica il governo Berlusconi cosa fa? A me pare che la linea dell’esecutivo sia quella di sempre, fondata sulla pretesa di recuperare competitività tramite nuovi e ulteriori attacchi alle condizioni dei lavoratori. Pensiamo ad esempio al Collegato lavoro, recentemente approvato. Si tratta di un pacchetto di misure che tra l’altro prevede una sanatoria per i vecchi contratti precari illegittimi e una norma che in futuro costringerà i lavoratori precari a impugnare un contratto illegittimo entro 60 giorni dalla scadenza (con la chiara intenzione di rendere impossibile l’impugnazione, visto che dopo appena due mesi dalla fine del contratto di solito il lavoratore spera in un rinnovo e quindi non se la sente di fare causa). La versione originale del Collegato lavoro prevedeva addirittura che al momento della stipula del contratto – cioè nel momento di massima debolezza del lavoratore – l’impresa potesse costringerlo a firmare una rinuncia a impugnare davanti al giudice un eventuale licenziamento senza giusta causa. Di solito gli economisti «liberisti» salutano questi provvedimenti come dei veri e propri inni al merito, come degli esempi di modernità e di progresso nel nome della flessibilità. Poi però quando gli si chiede di fornire qualche evidenza reale sui presunti benefici di questi provvedimenti glissano, cambiano argomento. La verità è che questa politica economica rozza, primitiva, fondata sullo smantellamento dei diritti dei lavoratori, dura da anni. Essa ha contribuito sicuramente a deteriorare le condizioni di vita di tanti lavoratori, ma non ha minimamente scalfito gli enormi problemi strutturali che affliggono la nostra economia. Sarebbe ora di prenderne atto.

Boldrin: Contro Tremonti ho addirittura scritto un libro – di cui uscirà spero a gennaio una nuova edizione con un capitolo addizionale relativo all’ultima manovra finanziaria – che si intitola: Tremonti, istruzioni per il disuso. È del tutto evidente che questo governo racconta frottole quando dice che l’Italia è messa meglio degli altri paesi europei. Se mai è vero il contrario. Ce lo dicono tutti i dati. E proprio perché sono dati incontrovertibili mi pare addirittura superfluo sprecare tempo a elencarli per l’ennesima volta. Su quello anche con Brancaccio siamo d’accordo. Direi che è molto più interessante cercare di soffermarci sulle cause di tutto questo. Prima però vorrei fare due chiose a margine del discorso di Brancaccio. Per prima cosa io trovo sgradevoli questi continui riferimenti alle etichette, alle scatolette: gli economisti «liberisti», gli economisti «romanisti», gli economisti «interisti» eccetera. La gente ha nomi e cognomi, scrive dei saggi, degli articoli scientifici, fa delle affermazioni pubbliche: e allora citiamo le persone per nome e cognome, evitiamo di discutere per gruppi e categorie definite ad hoc non so sulla base di quale principio.

Detto questo, vengo alla seconda notazione. Tremonti pare aver scoperto il principio del mismatch [ovvero il mancato incontro di domanda e offerta di lavoro] come spiegazione del fatto che la disoccupazione in Italia sia alta. Ovviamente, in questo caso specifico, Tremonti si sta inventando un’altra delle sue bugie: il problema italiano non è per niente un problema di mismatch. Il clamore pubblico attorno a questa idea si deve ad alcune dichiarazioni dell’economista americano di origini canadesi Narayana Kocherlakota, attuale presidente della Federal Reserve Bank di Minneapolis (e anche mio caro amico). Secondo lui la ragione della persistente alta disoccupazione americana – negli Stati Uniti siamo fermi al 9-10 per cento, e non si riesce a scendere – va ricercata nel carattere strutturale di questa recessione: la recessione ha ucciso alcune industrie e le ha uccise per sempre. Per esempio per l’industria delle costruzioni non c’è più domanda, e non ce ne sarà per molto tempo. I lavoratori che sono stati licenziati da quell’industria (e che dunque hanno competenze e specializzazioni relative a quel tipo di attività) ora cercano di trovare un’occupazione altrove, nei settori che sono in crescita, come quello dei servizi, in particolare il settore sanitario e dell’educazione. Questi settori, nella misura in cui crescono e domandano lavoro, domandano un lavoro ben diverso da quello del carpentiere, del muratore eccetera. Oltre a essere localizzati in zone molto diverse da quelle dove operavano le industrie delle costruzioni. Negli Stati Uniti la distribuzione territoriale della disoccupazione è estremamente disomogenea: la crisi si è fatta sentire pesantemente negli Stati del Sud-Ovest, come il Nevada, l’Arizona, e, nella parte orientale, in California, quegli Stati cioè dove la bolla edilizia era più consistente. In altre zone invece la situazione è molto migliore. Ecco che si presenta un problema di mismatch: c’è una disoccupazione extra – che può essere quantificata in circa 3 punti percentuali – rispetto a quella che dovrebbe esserci con questa fase del ciclo economico. Dovremmo essere al 7 per cento e invece siamo al 10.

Ma tutto questo discorso deve essere applicato alla situazione concreta degli Stati Uniti. Giulio Tremonti invece lo applica – del tutto a sproposito e in modo assolutamente strumentale – all’Italia.

Ma veniamo alle cause del declino italiano, che io giudico persino più grave di quanto faccia Brancaccio. Perché l’Italia ha una produttività così bassa? Perché in Italia non nascono nuove imprese? Perché le imprese straniere ad alto valore aggiunto non vengono a investire in Italia? Queste sono le vere domande da porsi. Se si pensa davvero – come sembrano suggerire gli interventi di Brancaccio – che la causa di questi fenomeni sia il fatto che in alcune occasioni governi tanto di sinistra quanto di destra hanno leggermente ridotto quelle che a mio avviso sono le eccessive rigidità della legislazione italiana sul lavoro, beh… se davvero si pensa questo lo si dica chiaramente!

A mio avviso le cause sono altre: mancanza di concorrenza vera sui mercati, eccessivo interventismo dello Stato nell’economia, sussidi dati a decine e centinaia di imprese parassitarie per molti anni, degrado progressivo del sistema educativo (da quello elementare sino all’università). A mio avviso queste sono le vere cause del declino. E in cima a tutte un settore pubblico, una macchina amministrativa che è la cosa più disastrosa mai vista sulla terra.

Brancaccio: Rilevo ancora una volta tanti aggettivi e poche questioni di merito, nel discorso di Boldrin. Sotto questo aspetto mi pare che egli incarni molte più abitudini retoriche «italiane» di quanto dica o pensi. Ad ogni modo, prendo atto del fastidio di Boldrin nei confronti di espressioni come «economisti liberisti». Faccio tuttavia notare che economisti come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi non si vergognano assolutamente di esser considerati «liberisti». Essi addirittura si dichiarano «liberisti» e «di sinistra». Per questo presumevo che Boldrin potesse agevolmente accettare la definzione. Se però Boldrin ritiene di non essere liberista, e magari nemmeno di sinistra, a me va benissimo.

Passando alla seconda questione, quella di Tremonti, mi fa piacere che Boldrin consideri l’espediente del nostro ministro dell’Economia una cosa priva di senso. Ma sulla discussione in corso negli Stati Uniti credo occorra una precisazione. Bisogna infatti ricordare che all’interno del dibattito americano gli economisti si dividono su una questione sostanziale: alcuni – come ad esempio Krugman – ritengono che per spiegare gli andamenti della disoccupazione e dei posti vacanti si debba tener conto degli effetti del crollo della domanda effettiva; altri economisti, di ispirazione liberista, ritengono invece che la caduta della domanda non conti. Personalmente credo che sotto questo aspetto la ragione stia decisamente dalla parte di Krugman.

Ma passiamo alla situazione italiana. Boldrin dice che in Italia l’indice generale di protezione del lavoro si sarebbe solo «leggermente ridotto». Ora, a meno che non si voglia fare a cazzotti con i dati dell’Ocse e con la realtà, si deve riconoscere che negli ultimi anni l’Italia ha fatto registrare il record di caduta dell’Epl: tra il 1996 e il 2008 rileviamo un crollo di 1,68 punti, a fronte per esempio di una riduzione di 0,97 in Germania, un livello pressoché stazionario in Spagna e addirittura un lieve aumento in Francia.

Per il resto Boldrin mi attribuisce un ragionamento invertendo le cause con gli effetti. Tra le principali determinanti del declino italiano vi è a mio parere un grado di organizzazione e di centralizzazione dei capitali relativamente basso. Anche per questo motivo il nostro si configura come un paese «periferico» dell’Unione monetaria, che non a caso ha pagato più di altri la liberalizzazione dei mercati europei. Di fronte a questi problemi tanto i governi di destra quanto quelli di centrosinistra hanno puntato sull’apparente «scorciatoia» della riduzione delle tutele dei lavoratori, del taglio del costo del lavoro, magari cercando di far declinare i salari relativi allo stesso ritmo di caduta della produttività relativa. Tutto ciò si è risolto nel fallimento che è sotto gli occhi di tutti.

Boldrin: Spero che ritorneremo sul discorso della «scarsa concentrazione dei capitali in Italia» perché francamente non mi è chiaro. Cosa intende esattamente Brancaccio per «scarsa concentrazione»? Quanto alle affermazioni sul fatto che siamo un «paese periferico» dell’Unione monetaria e che «abbiamo pagato più di altri la liberalizzazione dei mercati», qui c’è da fare una riflessione per così dire «pre-economica». Quando all’interno di un ragionamento economico io dico: «Tale evento ha una certa causa», è evidente che la cosa ha una rilevanza solo se queste cause hanno a che fare con l’azione umana e sono dunque modificabili. Il fatto che per esempio io non sia diventato un famosissimo giocatore di pallacanestro – come sognavo da ragazzino – è dovuto a caratteristiche naturali che non dipendevano in alcun modo dalla mia volontà: ero alto 1 metro e 80 ed ero anche decente da un punto di vista atletico, ma certo non ero Michael Jordan, e quindi ho dovuto rinunciare al mio sogno. È inutile lambiccarsi oltre sul perché. Ora, l’itinerario storico dell’Italia e la sua collocazione geografica costituiscono un dato di fatto immodificabile. Ma non credo che questi vincoli storico-naturalistici abbiano pesato sull’Italia più di quanto le rispettive «zavorre» storico-naturalistiche abbiano pesato su altri «paesi periferici» come Spagna o Irlanda. Non me la sento di associare a questo le cause del declino italiano.

Quanto poi all’affermazione secondo la quale l’Italia ha pagato di più la liberalizzazione del mercato interno, cioè la creazione del mercato unico europeo, l’abolizione delle barriere sui movimenti di beni, persone e capitali e l’introduzione dell’euro, caso mai questa è una conseguenza della crisi. Ci sono tanti modi, tanti segnali attraverso i quali possiamo capire che un uomo è malato: l’alta temperatura, le tonsille ingrossate, il pallore sul volto, ma sono tutti sintomi che non vanno confusi con le cause della malattia.

Infine, il mio interlocutore continua a insistere sul discorso del mercato del lavoro: si fa presto a far registrare il record nella riduzione della protezione (pessima parola che forse sarebbe meglio sostituire con «rigidità»): basta partire dai livelli più alti. Quando ce l’hai più alta di tutti e sei completamente fuori misura, qualsiasi riduzione, anche minima, farà sembrare che stai riducendo più di tutti. Ciò che conta sono le posizioni assolute, cioè quanto è rigido un mercato del lavoro rispetto a un altro.

E comunque, anche su questo punto, occorre capirsi facendo piazza pulita di alcune ambiguità. In Italia ci sono due mercati del lavoro: uno assurdamente rigido e perfettamente protetto, ma ingessato; l’altro assolutamente selvaggio. L’esistenza del secondo è dovuta al primo. Il secondo è il triste prodotto del primo. I protetti, anzi i superprotetti dall’impiego pubblico e di una certa parte dell’industria privata, generano costi di impresa e costi aggregati di sistema che possono essere sostenuti e compensati solo grazie a quei poveracci del mercato selvaggio. Solo grazie allo sfruttamento – qui sì che occorre usare una parola pesante! – di tutti coloro che sono costretti a subire una posizione di estrema debolezza sul mercato del lavoro.

E chi si è scelto di mettere in posizione di estrema debolezza? Ovviamente, come sempre succede, gli ultimi arrivati: i giovani e le donne, cioè tutti coloro che sono entrati nel mercato del lavoro dopo che si erano alzate le paratie e chiusi i boccaporti. Questi outsider sono stati costretti a sobbarcarsi il peso degli insider per tenere in piedi il sistema, che altrimenti sarebbe crollato.

L’esempio più plateale di questo meccanismo patologico è l’università. L’università italiana è un perfetto mostro a due teste, e le teste rappresentano due tipologie di persone collocate a estremi opposti. Da una parte ci sono i garantiti, i professori cosiddetti «di ruolo», ordinari e associati, e i ricercatori confermati che sono dentro al sistema da tempo. Tutti questi sono intoccabili, illicenziabili e guadagnano delle cifre considerevoli anche rispetto agli standard internazionali. Sia chiaro, non perché guadagnino tanto in assoluto, quanto per gli scarsi obblighi cui quello stipendio è legato – ore di insegnamento, produzione scientifica effettiva eccetera: lo stipendio universitario è completamente determinato dall’anzianità e dal ruolo. Con il risultato che una buona metà dei professori italiani riesce anche a dedicarsi ad altre attività extra-accademiche per arrotondare lo stipendio. Il peso poi dell’effettivo funzionamento dell’università – cioè della necessità di far funzionare i corsi, seguire gli studenti, fare gli esami – ricade sui nuovi arrivati, sui cosiddetti precari, privi non solo di qualsiasi garanzia ma anche di qualsiasi prospettiva di crescita professionale. O, al più, su quei ricercatori che sono arrivati quando le paratie erano state alzate e le promozioni facili non erano più possibili.

L’università italiana è come un microcosmo che riproduce tutti i vizi di fondo del mercato del lavoro italiano. In Italia non esiste un «lavoratore medio» che nella realtà concreta si può riconoscere più o meno nei dati delle statistiche: esistono due tipologie molto distanti fra loro che le «medie» hanno molta difficoltà a descrivere.

Brancaccio:
Partiamo dal discorso sulla «centralizzazione» dei capitali (che è cosa un po’ diversa dalla «concentrazione»). Non so se Boldrin ne sia al corrente, ma qui in Italia è in corso da tempo una discussione sull’opportunità di sottoporre a critica il vecchio slogan: «Piccolo è bello». Questo slogan esprime un’idea che in Italia è stata molto in voga fino a qualche anno fa. Si tratta del convincimento secondo cui le piccole dimensioni d’impresa costituirebbero un fattore virtuoso, in grado di garantire alle imprese italiane la flessibilità necessaria per competere sui mercati e per reagire meglio a eventuali contraccolpi esterni. Questi ragionamenti sono anche serviti a fornire una giustificazione – una «copertura ideologica», potremmo dire – per tutti coloro che da questo capitalismo nazionale polverizzato e frazionato sono riusciti a lucrare ampi margini di consenso, magari con l’aiuto di qualche strizzatina d’occhio nei confronti dell’evasione fiscale, del sommerso e di altri fenomeni opachi che tipicamente contraddistinguono il nostro tessuto produttivo. Sappiamo benissimo che in Italia queste politiche lassiste sono state largamente perseguite. A giusta ragione, qualcuno ritiene che forse oggi stiamo pagando le conseguenze di scelte così poco lungimiranti.

Su questo confesso che vorrei capire meglio l’opinione di Boldrin. Lui, insieme ad altri colleghi, ha criticato con molta insistenza Giulio Tremonti. Ebbene, noi sappiamo che il mondo della piccola e della piccolissima impresa costituisce l’ossatura principale del bacino di voti della Lega Nord, il partito del quale Tremonti è di fatto il principale punto di riferimento e garante all’interno del governo Berlusconi. La questione dell’assetto dei capitali, del loro grado di organizzazione e centralizzazione, è dunque una questione rilevante sia dal punto di vista della storia economica di questo paese – al fine di comprendere le cause del ritardo strutturale che ci troviamo ad affrontare oggi – sia con riferimento alle prospettive politiche future, ovvero alle strategie che devono essere messe in atto per la costruzione di un progetto di alternativa. Insomma, a me pare un po’ superficiale prendersela con un singolo esponente politico senza indagare criticamente sugli interessi di cui egli si fa portatore.

Veniamo all’indice Epl. Innanzitutto mi pare sia stato chiarito che non si può dire che per l’Italia il suo valore si sia «leggermente ridotto»… Possiamo certamente dire che partivamo da livelli alti, ma a questo punto mi viene da domandare: quando lo mettiamo il pavimento? Dove collochiamo la soglia oltre la quale non si può più scendere? E soprattutto, perché mai si dovrebbero ridurre ulteriormente le tutele? Chi ne trarrebbe reale beneficio? Non i lavoratori, visto tra l’altro che la ricerca economica nega l’esistenza di un legame significativo tra aumento della precarietà e riduzione dei tassi di disoccupazione.

Per quanto riguarda la divisione in due del mercato del lavoro, della quale ha parlato Boldrin, l’esempio dell’università mi pare un’esemplificazione un po’ elitaria. Alcuni economisti sono soliti utilizzare esempi a loro molto vicini ma che poi riguardano solo parzialmente la grande maggioranza dei cittadini. Intendiamoci: io non penso bene dell’università italiana. Quelli che sono rimasti in Italia pagano sulla propria pelle la crisi dell’università, le sue storture interne e i tagli che subisce, e forse sanno meglio dei grilli parlanti d’Oltreoceano a cosa va incontro chi oggi tenta di fare seriamente ricerca in questo paese.

Detto ciò, credo sia necessario affrontare il discorso con uno sguardo più generale. Quando si dice che il mercato del lavoro è «duale», presumo che ci si riferisca al famigerato articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che Boldrin immagino reputerà nefando. Ma questo articolo, di fatto, non è più in grado di impedire i licenziamenti individuali. Con l’attuale legislazione i licenziamenti ormai sono facili o superflui. In effetti, persino i licenziamenti collettivi e per ristrutturazioni in Italia non incontrano più ostacoli rilevanti. Basti pensare agli effetti delle nuove norme sulla cessione di ramo d’azienda, tra l’altro ancora non pienamente contemplate dagli indici Ocse.

Boldrin: Credo che il discorso sull’università sia importante non solo perché rappresenta bene, con estrema capacità esemplificativa, le patologie di sistema diffuse ovunque, ma anche perché l’università è uno dei fattori alla base della crisi italiana e in particolare di una cosa che giustamente prima ricordava Brancaccio – e che io condivido pienamente – ovvero la vergognosa posizione dell’Italia nelle classifiche sulla mobilità sociale. Assieme agli Stati Uniti e all’Inghilterra, l’Italia è il fanalino di coda del mondo occidentale. Solo che gli Stati Uniti sono dei nuovi arrivati in quella brutta posizione (per quanto farebbero bene a preoccuparsi seriamente per questo declassamento). L’Italia invece è lì da tempo, potremmo dire da sempre, assieme all’Inghilterra, che è una società estremamente classista e rigida, con scarsissima mobilità sociale.

L’università gioca un ruolo fondamentale in questa assenza di mobilità sociale, come gioca un ruolo fondamentale nell’incapacità dell’Italia di produrre innovazione e crescita in questi ultimi vent’anni. Ecco perché secondo me si tratta di un tema assolutamente centrale.

La questione del «piccolo è bello». Il mio interlocutore sembra voler portare il dibattito verso una specie di lite «destra-sinistra». Io non ho nessun problema a dire tutto il male possibile dell’attuale centro-destra italiano, ma questo non risolve i problemi.

L’Italia ha una struttura industriale in cui la percentuale di imprese medio-piccole – cioè di imprese con meno di 500, 100 e addirittura 50 dipendenti – è particolarmente alta rispetto a paesi come per esempio la Francia o la Germania. Questo è un dato strutturale che ha accompagnato lo sviluppo economico italiano sin dal XVIII secolo. Fa parte di un’eredità storica dalle radici profondissime. Associarlo al dibattito politico attuale mi sembra un’operazione, come dire, stiracchiata. Non ci piace? Preferiremmo aver ricevuto in eredità la Silicon Valley? Senz’altro. Ma la Silicon Valley purtroppo non ce l’abbiamo. Io devo formulare progetti di politica economica a partire da quello che ho e non da quello che mi piacerebbe avere. Che quella struttura di imprese sia stata e sia tuttora un bacino elettorale per certe forze politiche è verissimo, ma è vero anche l’opposto: e cioè che quella struttura di imprese ha «prodotto» quelle forze politiche. Non è che prima sono nate le forze politiche e poi è stato creato e mantenuto un certo sistema di piccole imprese. Basta conoscere un pelo di storia italiana per sapere che è vero l’opposto. La piccola impresa parcellizzata del manifatturiero italiano – specialmente nella zona da cui vengo io, il Nord-Est, ma anche nel Centro Italia – è un dato storico che precede la Repubblica italiana e quindi ovviamente anche le forze come la Democrazia cristiana, Forza Italia, la Lega o il Pdl.

Se dunque io devo andare a individuare dei fattori di crisi con l’obiettivo di porvi rimedio, cercherò di puntare gli occhi su quelle cose che, attraverso gli strumenti della politica economica, sono in grado di cambiare. Se no è come continuare a rimproverarsi di non aver ricevuto da madre natura il fisico di Michael Jordan. La questione del mercato del lavoro. No, non è vero, non è solo l’articolo 18: c’è un intero combinato disposto, come amano dire i legulei italiani, fatto di giurisprudenza del lavoro, regolamenti amministrativi, meccanismi contrattuali eccetera, che rendono una fetta del mercato del lavoro italiano estremamente rigida. Prendiamo ad esempio la pubblica amministrazione. Si può assumere su questo tema una prospettiva brunettiana – «brunettiana» qui si riferisce a Renato Brunetta, che se ne va in giro istericamente per trasmissioni televisive, con un tasso di presenzialismo almeno pari a quello della frustrazione accumulata negli anni, ripetendo che sono tutti dei mascalzoni, fannulloni eccetera. Come se fosse una questione di tipo caratterial-culturale. Come se nella pubblica amministrazione fossimo di fronte a un problema «morale» e non invece a una questione legata a come è organizzato, regolato e amministrato il lavoro.

Nel settore pubblico italiano si è dei perfetti intoccabili. La produttività è al minimo. Chiunque abbia un po’ di esperienza con l’amministrazione italiana, in particolare con l’amministrazione ministeriale, sa benissimo che in quei posti non si fa quasi nulla in rapporto a ciò che si potrebbe/dovrebbe fare. E questo non perché questi tre milioni e rotti di dipendenti pubblici siano tutti dei cattivoni tremendi, che odiano il mondo e gli altri esseri umani, e quindi si fanno assumere apposta al ministero della Pubblica istruzione e nei provveditorati per boicottare dall’interno la macchina statale e magari distruggere pure le suppellettili. Semplicemente non hanno alcun incentivo a lavorare. E quando vengono spinti a lavorare si tende a chiedere loro di fare cose inutili seguendo procedure insensate e antiquate. Il loro stipendio non dipende dalle loro performance finali e quindi fanno quello che viene spontaneo a tutti fare: chiacchierano, vanno a far la spesa, leggono il giornale, lavoricchiano, si fanno compagnia, socializzano, organizzano la festicciola per il collega tal dei tali che compie gli anni eccetera.

Questa è la realtà, ed è uno dei grandi punti deboli dell’economia italiana perché spendiamo una percentuale simile a Svezia o Germania in cambio di servizi pubblici che il mondo intero considera paragonabili a quelli dell’Egitto, quando va bene.

Brancaccio: A me pare che Boldrin consideri la struttura del capitalismo italiano come un dato esogeno, come una specie di destino ineluttabile. Ma l’assoluta prevalenza nazionale delle piccole dimensioni d’impresa costituisce anche il frutto di una particolare linea di indirizzo politico. Quando si fa un certo tipo di politica della tassazione, quando si chiude un occhio – e talvolta pure tutti e due – sull’evasione fiscale, quando si porta avanti una politica pluriennale di compressione dei salari e di smantellamento della regolamentazione del mercato del lavoro, è chiaro che si incide in modo significativo sull’evoluzione del tessuto produttivo e sul grado di organizzazione e di centralizzazione dei capitali. In molti casi si sono fatti sopravvivere pezzi di capitalismo inefficienti a colpi di prebende fiscali, demolizione del sindacato, illegalità diffusa. Una politica economica alternativa, tesa a guidare il processo di riorganizzazione dei capitali, avrebbe attivato meccanismi evolutivi ben diversi.

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, Boldrin insiste con l’idea che è troppo «rigido». Io mi attengo ai dati dell’Ocse sull’indice generale di protezione dei lavoratori. Essi ci dicono che il mercato del lavoro italiano non è affatto rigido: è sicuramente meno rigido rispetto ad altri 12 paesi europei, tra cui la Germania, la Francia, la Spagna.

Infine, il capitolo della pubblica amministrazione. Sappiamo che ci sono dei nullafacenti e che ciò costituisce un problema nazionale. Chiunque abbia a cuore le sorti della cosa pubblica, chiunque abbia senso dello Stato, deve porsi l’obiettivo di svuotare le sacche di rendita e di parassitismo all’interno degli apparati statali, ovviamente a partire da quelle dirigenze che tipicamente danno il cattivo esempio. Ma chi potrebbe non essere d’accordo con questa petizione di principio? In quanto tale la lotta ai cosiddetti «fannulloni» è un proclama banale. Il problema vero è capire quali strategie di politica economica si adottano per combattere questi fenomeni. Per esempio, Brunetta ha dichiarato che attraverso il blocco delle assunzioni e il blocco del turnover noi ci troveremo nel giro di cinque anni con 300 mila lavoratori della pubblica amministrazione in meno. A suo avviso, il problema dei nullafacenti sarà risolto con grande facilità grazie a questa semplice «cura dimagrante».

Ma la realtà è molto più complicata. Basti ricordare che la nostra pubblica amministrazione già presenta una età media dei dipendenti tra le più alte in ambito europeo. Con il blocco del turnover l’età media continuerà a salire. Ora, pur con le dovute eccezioni, noi sappiamo che i lavoratori pubblici più anziani sono mediamente meno qualificati e meno motivati dei giovani assunti. Questi ultimi in genere hanno maggior dimestichezza con le innovazioni tecnologiche e in molti casi si sono appena laureati. La qualificazione, intesa come capacità di partecipare a una nuova e più efficiente organizzazione del lavoro, è un elemento importantissimo, perché il funzionamento interno di un ambiente di lavoro non dipende rozzamente dal fatto che i dipendenti siano zelanti, ma soprattutto dal fatto che siano capaci. Ed ancora, per dire le cose senza ipocrisie, va ricordato che una quota non trascurabile di lavoratori pubblici di età più elevata è anche il prodotto di numerose assunzioni clientelari del passato. È questa una prassi che ha per lungo tempo contaminato la storia politica di questo paese e in varie circostanze ha vanificato gli sforzi per il rilancio della macchina statale.

Per questi motivi, con il blocco del turnover, la produttività della pubblica amministrazione non sembra affatto destinata ad aumentare. L’idea di Brunetta, secondo il quale questi tagli saranno compensati da una crescita della produttività individuale pari al 2 per cento l’anno, appare infondata. È una previsione che ha in testa lui, ma sarei curioso di sapere come pensa di sostenerla.

Boldrin:
Brancaccio continua a ripetere che l’Italia ha una rigidità del mercato del lavoro più bassa di altri paesi europei. Non è vero! Secondo i dati dell’Ocse l’Italia fa registrare indici di rigidità fra i più alti in Europa e fra i paesi membri dell’Ocse. In particolare per i licenziamenti collettivi: rispetto a una media di 2,48 (l’ultima rilevazione disponibile risale al 2008), l’indice dell’Italia è 4,88; molto più alto ad esempio della Germania, che fa registrare un 3,75. A me risulta che 3,75 sia un numero più basso di 4,88! Tutta la riduzione dell’indice Epl che Brancaccio continua a menzionare è dovuta all’introduzione dei contratti non a tempo indeterminato. Ma in Italia più dell’80 per cento dei dipendenti sono a tempo indeterminato, quindi se si vuole misurare la rigidità effettiva occorre pesare adeguatamente le varie componenti. Questo non implica che tutti i problemi italiani vengano dal mercato del lavoro, ci mancherebbe. Implica però che non si può sempre fare propaganda con i numeri.

Ma andiamo avanti. La centralizzazione dei capitali. Cosa sta dicendo il mio interlocutore, che la causa della crisi italiana risiede in un capitalismo poco concentrato? Forse sì, forse no. A priori non lo so e dubito che sia una risposta anche solo coerente, oltre che fattualmente corretta. Sia l’economia industriale che la storia dello sviluppo dei paesi mi dicono che la concentrazione industriale è un punto di arrivo, non è mai un punto di partenza, per un’industria. Se guardo le industrie più innovative del mondo negli ultimi 30 anni (ma se facciamo 100 anni, non cambia nulla, anzi) le industrie con un’alta crescita della produttività, dove la gente guadagna bene, dove si crea occupazione, cosa osservo? Osservo che le imprese innovative nascono piccole e diventano grandi quando hanno successo. È inutile ripetere, in maniera distorcente, slogan nati in altri contesti, in altri paesi. «Small is beautiful», «Piccolo è bello», fu coniato negli anni Settanta in California, attorno agli start up legati ai computer, al software. Queste cose sono poi diventate realtà tutt’altro che piccole come Microsoft!

Bisogna cercare di evitare gli slogan e guardare ai fatti. La vera questione da porsi è: cos’è che ha impedito alle nostre imprese di avere successo e quindi di diventare più grandi? Questo è il punto! Potrebbe essere parte della spiegazione il fatto che in Italia abbiamo sempre avuto un forte intervento statale che ha protetto i grandi gruppi drenando verso di essi risorse e proteggendo le loro rendite, così da impedire alle piccole realtà di crescere e di svilupparsi? Io sospetto di sì, i dati mi suggeriscono di sì. Cosa deduco da ciò? Che non è bene intervenire con l’azione governativa nella struttura industriale premiando chi è già grande, come è sempre stato fatto in Italia. In Italia le grandi imprese hanno sempre avuto un enorme potere sia in termini di mercato che nella capacità di attrazione delle risorse pubbliche. Sopra a tutti ci sono sempre state l’Eni, la Fiat, la Pirelli, la Montedison eccetera. È ora di finirla.

MicroMega:
Nonostante il fallimento della maggioranza uscita vincitrice dalle elezioni del 2008 che è sotto gli occhi di tutti, nonostante la totale assenza di uno straccio di politica economica degna di tale nome, dall’altra parte stenta ancora a profilarsi un’alternativa credibile. La destra ha costruito il proprio successo con poche parole d’ordine semplici, chiare e ad alto impatto evocativo: «tagliare le tasse», «cacciare gli immigrati clandestini» eccetera. Al centro-sinistra sembrano mancare analoghe «bandiere», analoghi «martelli della propaganda», capaci di penetrare in profondità nell’opinione pubblica, fra la gente comune, per aggregare consensi attorno a un progetto strategico, a un’«idea di società diversa». Parole d’ordine chiare, popolari (non populiste) ed efficaci. Vorreste indicare tre proposte che secondo voi il centro-sinistra dovrebbe fare proprie? Tre proposte che siano anche dei «martelli» in grado di contrapporsi alla propaganda della destra con analoga efficacia?

Boldrin:
Punto 1: la pubblica amministrazione. Occorre ristrutturare il settore pubblico da cima a fondo, introducendo criteri di tipo privatistico-manageriale nella gestione. Sarebbe una cosa estremamente semplice da fare: si comincia dal direttore generale, e si stabiliscono dei criteri di produttività, delle misure obiettive di produttività. Questi stessi criteri il signor direttore li applicherà alla valutazione dei suoi vicedirettori, i quali a loro volta li applicheranno ai sottoposti e così via. Se un dirigente non soddisfa criteri ragionevoli di produttività, si cerca un altro lavoro. Va assolutamente smantellata la protezione legislativa di cui godono gli apparati centrali dello Stato.

Punto 2: sistema scolastico. Va completamente rifatto. Io sono dell’opinione – lo dico in modo volutamente brutale – che sia necessario abolire il ministero della Pubblica istruzione per trasformarlo in un’Agenzia di controllo di qualità. Occorre prendere i soldi che oggi spendiamo per l’istruzione e metterli in mano alle famiglie e agli studenti (se maggiorenni) sotto forma di «buoni scuola» e «buoni università», mentre gli insegnanti di scuola elementare, media, superiore, fino all’università debbono organizzarsi in libere cooperative. Io sono assolutamente convinto che il problema degli incentivi nell’educazione si risolve solo così: dando agli insegnanti gli incentivi per decidere cosa insegnare e come, e prevedendo criteri oggettivi per legare la retribuzione al merito. Chiunque lavori in quel settore sa che all’interno di una scuola, di un liceo, di un dipartimento si conosce perfettamente chi lavora e chi non lavora, chi produce e chi non produce. Se la distribuzione delle risorse e dei compensi fosse gestita cooperativamente fra i 20, 30, 50, 60, 70 docenti presenti in una scuola, in proporzione al lavoro effettivamente svolto, credo andremmo incontro a una «rivoluzione del merito» capace di costituire un volano di crescita anche in molti altri settori.

Il terzo punto è un po’ più complicato, ma in Italia occorre assolutamente mettere mano al sistema fiscale. Va rifatto, va semplificato, va ridotta la pressione fiscale e vanno costruiti sistemi per ridurre l’evasione. Su quest’ultimo aspetto vorrei però sfatare un mito molto in voga, e cioè che la soluzione per i nostri problemi di finanza pubblica possa essere trovata nell’eliminazione dell’evasione fiscale. L’evasione fiscale va combattuta, e combattuta con enorme determinazione. Ma realisticamente – l’esperienza di altri paesi lo dimostra – non può essere del tutto eliminata. Va combattuta e ridotta per ragioni di giustizia sociale e di legalità, non perché possa miracolosamente guarire il nostro deficit e il nostro debito. Non perseguiamo gli omicidi perché così siamo più ricchi; li perseguiamo per ragioni di giustizia e di convivenza civile. Lo stesso vale per l’evasione fiscale, perché il meglio che possiamo aspettarci di ricavare da un perseguimento appropriato dell’evasione fiscale in Italia, in termini di cifre, non sono i fantomatici 60 miliardi all’anno – con i quali tutti continuano a riempirsi la bocca, incluso il Pd – ma sono circa 10, 12 miliardi. Se riuscissimo ad avere un’amministrazione fiscale dello Stato efficiente come quella svedese – e già questo mi sembra un obiettivo ambizioso – la cifra che potremmo recuperare è di quell’ordine lì.

Quanto poi al merito delle proposte sul fisco, io sono per una tassazione del reddito molto più bassa, e una tassazione dei consumi e dei patrimoni molto più alta. Bisogna spostare il carico dalle imposte dirette a quelle indirette e sul patrimonio. E naturalmente diminuire sostanzialmente questo carico.

Brancaccio:
A proposito di «propaganda» dei numeri, visto che c’è ancora chi insiste con la vecchia cantilena ideologica secondo cui avremmo problemi di «rigidità» del mercato del lavoro, non posso che invitare il lettore a visionare sul sito dell’Ocse l’indice generale di protezione dei lavoratori. Verificherà che siamo diventati l’ottavo paese più «flessibile» d’Europa e che dunque su quel versante abbiamo già dato. Per il resto, mi pare che il nostro moderatore abbia posto una domanda non solo «tecnica», ma anche «politica», cioè attenta alle problematiche del consenso, finalizzata a capire quale aggregazione di forze sociali possa essere in grado di dare «gambe» concrete alle idee che noi possiamo formulare in astratto. Ora, a me sembra che i dati sui flussi elettorali ci dicono che da tempo i partiti «eredi» della tradizione del movimento operaio – fra i quali va considerato evidentemente anche il Pd – subiscono una continua emorragia di consensi che interessa in primo luogo i lavoratori subordinati. Questi ultimi da tempo si spostano verso destra, votano in numero crescente le leghe e i partiti populisti. Io credo che una credibile strategia politica per il centro-sinistra debba partire da questo problema, non da altri. Ma a me pare ovvio che per iniziare ad affrontare realisticamente la questione bisognerebbe in primo luogo tagliare i ponti con chi ancora propone strategie variamente ispirate al liberismo, alla terza via di Tony Blair, e magari invoca una minore progressività dell’imposizione fiscale a vantaggio di chi guadagna oltre i 75 mila euro…

Se lo scopo è lanciare un segnale politico preciso ai lavoratori credo occorra in primo luogo rimediare alle iniquità che si sono accumulate in questi anni, a partire dai versanti del fisco e dei diritti.

Bisognerebbe innanzitutto diminuire il carico delle imposte sui redditi bassi e medio-bassi, per i quali il peso del fisco è ormai elevatissimo e insostenibile. In secondo luogo, bisognerebbe rimettere mano al diritto del lavoro, che in questi anni è stato «bucherellato» da ogni parte, ridotto a brandelli. Si dovrebbe ripristinare la centralità del contratto a tempo indeterminato, rafforzare il contratto collettivo e fissare dei minimi salariali per legge, che possano crescere con la contrattazione. Bisognerebbe infine intervenire sul versante dell’erogazione dei servizi pubblici e della produzione pubblica di beni collettivi. Sono gli ambiti in cui il mercato sistematicamente fallisce: l’istruzione, la ricerca scientifica, la sanità, l’assistenza, le infrastrutture materiali e immateriali, i trasporti, l’ambiente e il territorio, la tutela del patrimonio culturale. Le cronache di ogni giorno segnalano che in questi settori ci troviamo di fronte a una vera e propria capitolazione dello Stato e al rischio concreto di un’onda di privatizzazioni che potrebbe generare molti danni, sociali ed economici. Nell’ambito della produzione pubblica di beni e servizi c’è tanto da fare per razionalizzare, per contrastare sprechi e privilegi. Ma la lotta agli sprechi è stata troppo spesso confusa con lo smantellamento del sistema pubblico. L’azione di risanamento dovrebbe invece essere accompagnata da una nuova logica di rilancio. Dopo anni di ripieghi, la parola d’ordine dovrebbe esser quella di «investire» nel pubblico.

Naturalmente, per risultare coerenti e praticabili queste proposte dovrebbero esser collocate in uno scenario più ampio, in un quadro più generale di politica economica. A questo proposito io credo sia giunto il tempo di elaborare un autonomo punto di vista del «lavoro» nel dibattito internazionale tra liberoscambisti e protezionisti. Bisognerebbe iniziare a ragionare sull’esigenza di interrompere il dumping salariale, la «guerra mondiale» tra lavoratori in atto. Per questo motivo, non possiamo più avere un’apertura dei mercati dei capitali e delle merci indiscriminata. L’apertura dovrebbe essere in qualche misura condizionata al rispetto di determinati «standard del lavoro». In particolare, bisognerebbe limitare i movimenti di capitali e di merci da e verso quei paesi che, attraverso compressioni della spesa interna e dei salari in rapporto alla produttività, si situassero in una posizione di sistematico surplus con l’estero. A questo riguardo, il moderatore ci ha sollecitati a esprimere concetti chiari, che possano fungere da «martelli» nel dibattito politico. A titolo di esempio, ci ha anche ricordato che da tempo le destre conquistano consensi dichiarando di esser pronte ad «arrestare gli immigrati». Ebbene, io credo che a sinistra sarebbe ora di costruire una proposta di politica economica ben più civile e razionale di quelle indicate dalle destre, ma che esprima una forza attrattiva uguale e contraria: la sinistra deve tornare a contemplare la possibilità, laddove necessario, di «arrestare i capitali».

Beninteso, la linea di politica economica che ho cercato qui di tratteggiare prende spunto da esperienze che risalgono a un’epoca in cui le rappresentanze politiche e sociali del lavoro erano molto più forti e consapevoli di quanto non siano oggi. Tuttavia è evidente che la crisi mondiale ha sparigliato le carte della politica economica, e ha reso praticabile quel che appena pochi mesi fa era assolutamente impensabile. A mio avviso, alcuni tasselli della strategia alla quale ho fatto cenno potrebbero incontrare un terreno politico favorevole se il «motore esterno» del commercio internazionale continuasse ad arrancare, e se diventasse quindi necessario sostituirlo almeno in parte con un motore dello sviluppo attivato «dall’interno» dei confini, europei o nazionali. Allo stato dei fatti, in uno scenario internazionale altamente scoordinato e conflittuale, si tratta di un’eventualità tutt’altro che remota.

Add comment

Submit