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consecutiorerum

‘La bestia è l’azienda, non il fatto che abbia un padrone’*

Commento al quinto capitolo del Capitale

di Massimiliano Tomba**

Abstract: The first chapter of the third section of Capital, Volume 1, constitutes in many ways an Archimedean point of the entire work. In this chapter the many theoretical questions investigated in the first section are reconfigured from the perspective of the labor-process and valorization-process, acquiring a new political color. In my reconstruction, by putting the use-value at the center, I explore the diverse theoretical layers of this chapter in light of their political implication

steve johnson 757367 unsplash 300x205È opportuno partire dall’inizio. E quindi, ancora una volta, dalla merce e dal valore. Non però nella formulazione che troviamo nell’incipit del Capitale, ma dalle Glosse a Wagner del 1882, dove incontriamo un Marx maturo, che ha attraversato per intero il suo personale work in progress sulla nozione di «valore». In queste glosse, Marx afferma, contro Wagner, che nel Capitale non è partito da concetti e neppure dal concetto di «valore», e che non procede deduttivamente da un concetto all’altro, ma è partito dalla merce nella sua concretezza (Konkretum der Ware)[1]. Purtroppo questa pagina non è stata tradotta nell’edizione degli scritti inediti di Marx curata da Tronti, perché Tronti nelle Glosse fa un po’ di selezione e la salta. Ma qui Marx afferma una cosa importante: «Io non ho preso le mosse da concetti ma dalla merce nella sua concretezza». Credo che questa affermazione permetta alcune riflessione sulla sua natura non hegeliana e sul modo di argomentazione e di esposizione di Marx nel Capitale. Cosa significhi l’espressione «merce nella sua concretezza»? Significa un’accentuazione del valore d’uso della merce, un modo di procedere nettamente diverso da quello hegeliano, nonostante gli svariati tentativi di leggere i primi capitoli del Capitale assieme alla Scienza della Logica di Hegel. Si potrebbe dire, per usare un termine di Adorno, che Marx privilegia il «rudimento metalogico» del concetto o, in altre parole, invece di prendere le mosse dall’‘essere’, come fa Hegel per mettere in moto la prima triade di essere-nulla-divenire, Marx parte dal qualcosa (etwas) nella sua concretezza. In questo «rudimento metalogico» c’è un’insistenza sul non identico come ciò che eccede la concettualizzazione e la sua sussunzione all’identico, nel caso della merce, il valore. La differenza, per dirla in gergo filosofico, è che se nella Scienza della Logica Hegel parte dall’immediatamente indeterminato, da ciò che è privo di ogni determinazione, e questo permette ad Hegel di dare inizio alla catena deduttiva, Marx ha un incipit contrario: prende le mosse dalla concretezza della merce, da ciò che, nella sua non identità, si presenta come eccedenza rispetto al concetto.

Sono qui racchiuse delle implicazioni politiche che è bene evidenziare fin da subito. L’approccio materialista ha a che fare con i bisogni umani, gli oggetti d’uso che li soddisfano e il modo in cui essi si configurano storicamente. Questi possono essere materialmente sensibili o meno. Partire dal valore, considerando la merce mero Träger di valore, costituisce un’astrazione. «Sono tutte chiacchiere», replicava Marx a Wagner, «io non parto da ‘concetti’, quindi neppure dal ‘concetto di valore’, e non devo quindi in alcun modo ‘suddividere’ questo concetto» (Marx 1987, 368-369; trad. it. 1963, 175). Bisogna piuttosto sottolineare, come del resto fa Marx, il carattere d’uso dell’oggetto prodotto, la sua utilità in vista della soddisfazione di bisogni (Marx 1988, 50; trad. it. 1980, 68). Sono infatti gli oggetti d’uso, in ogni epoca e in ogni forma sociale, a rappresentare «il contenuto materiale della ricchezza» (Marx 1988, 50; trad. it. 68) che costituisce la base sulla quale considerare il contenuto storico della ricchezza per come essa si manifesta nei diversi modi di produzione, incluso quello capitalistico, dove si presenta come una «immane raccolta di merci (ungeheure Warensammlung)» (Marx 1988). Questa tensione tra il contenuto materiale della ricchezza e la sua forma storica è essenziale per mostrare anche e soprattutto la natura storica del modo di produzione capitalistico. E quindi la possibilità di una nuova forma sociale non fondata sul modo di produzione capitalistico.

Il Capitale è interamente innervato da tensioni che si configurano attorno al valore d’uso. Si tratta di seguire il percorso carsico del valore d’uso nell’intera trama del Capitale fino a vederlo riemergere nella «merce specifica (spezifische Ware)» (Marx 1988, 181; trad. it. 200) che il capitalista trova sul mercato: la forza-lavoro che esiste solo nella «corporeità vivente (lebendige Leiblichkeit)» (Marx 1988, 183; trad. it. 201; cfr. anche 182; trad. it. 200) del lavoratore. Meglio evidenziare subito il carattere non innocente di questa lettura. La tensione che attraversa il Capitale non si gioca a livello logico nel concetto di «valore» o di «lavoro astratto». Questo modo di leggere Marx con le lenti di Hegel, oltre a portare rapidamente alla noia, ha come unico esito quello di depoliticizzare Marx. La tensione si gioca piuttosto tra la corporeità vivente dei lavoratori e il lavoro morto impiegato dal capitale per aumentare la produttività del lavoro. E questo rapporto è storicamente determinato, cioè non può essere generalizzato in alcuna metafisica della tecnica. Ed è da questa prospettiva che intendo leggere il quinto capitolo del libro primo.

Nell’incipit del quinto capitolo Marx ci ricorda che le merci, come valori d’uso, sono «cose che servono alla soddisfazione di bisogni di una qualche specie» (Marx 1988, 192; trad. it. 211). Dopodiché ci dice anche che la produzione di valori d’uso, o beni, non cambia la propria natura generale per il fatto che essa avviene per il capitalista e sotto il suo controllo. In altre parole, il processo lavorativo deve essere considerato in un primo momento indipendentemente da ogni forma sociale determinata. E questo processo si svolge tra l’uomo e la natura, dove il primo «mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità […] per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita» (Marx 1988).

È interessante osservare che se il primo capitolo iniziava con la merce come oggetto esterno che soddisfa i bisogni umani di qualsiasi tipo, e quindi con il suo valore d’uso; il quinto capitolo inizia nuovamente con i valori d’uso, ma ora dal punto di vista del processo lavorativo finalizzato alla loro produzione. Credo sia possibile costruire un parallelo fra il primo e il quinto capitolo. Quando Marx ci dice che il processo lavorativo deve essere considerato in un primo momento indipendentemente da ogni forma sociale determinata, si potrebbe osservare che Marx sta delineando il processo lavorativo in termini metastorici, cioè indifferenti al modo specifico di produzione capitalistico. Ma questo non significa che il valore d’uso deve essere inteso come una invariante storica. Sappiamo infatti che la merce costituisce la forma sociale più semplice nella quale si rappresenta il prodotto del lavoro nella società attuale e che essa ha una doppia natura: valore e valore d’uso, dove quest’ultimo è il supporto (Träger) del primo. Ma c’è qualcosa di più, qualcosa che eccede questo dualismo: «Il prodotto del lavoro è oggetto d’uso (Gebrauchsgegenstand) in tutti gli stati della società, ma soltanto un’epoca, storicamente definita, dello svolgimento della società, quella che rappresenta il lavoro speso nella produzione d’una cosa d’uso come qualità ‘oggettiva’ di questa, cioè come valore di essa, è l’epoca che trasforma in merce il prodotto del lavoro» (Marx 1988, 76; trad. it. 94). È quindi possibile porre un’ulteriore distinzione storico-concettuale: ogni prodotto del lavoro ed ogni oggetto utile esistente in natura è un oggetto d’uso (Gebrauchsgegenstand), mentre invece il valore d’uso (Gebrauchswert) è la forma specificamente capitalistica assunta da un oggetto d’uso nel modo di produzione capitalistico. La merce, che è valore e valore d’uso, può anche avere un valore d’uso privo di ogni utilità o direttamente dannoso e nocivo. Ciò è possibile perché il fine della produzione capitalistica non è la soddisfazione dei bisogni umani ma la valorizzazione di valore, e la merce non è prodotta in quanto oggetto d’uso ma in quanto portatrice di valore. In altre parole il valore d’uso capitalistico modifica la natura dell’oggetto d’uso e dello stesso processo lavorativo.

Una prima conseguenza, a rigore, è che possiamo parlare di merce solo in un modo di produzione determinato, che è il modo di produzione capitalistico e non è possibile estendere il concetto di «merce» a forme di produzione non-capitalistiche, o volgarmente e impropriamente chiamate pre-capitalistiche. Una seconda implicazione è che quando la produzione diventa produzione di merce, assistiamo anche a una modificazione del valore d’uso dell’oggetto. Questo aspetto è stato molto spesso trascurato dalla letteratura. Meriterebbe invece qualche ulteriore riflessione.

Nelle aggiunte del 1871 e del 1872 al primo libro del Capitale, aggiunte perché fatte in previsione della seconda edizione, Marx pone un problema cruciale: vuole distinguere con maggiore rigore, rispetto a quanto non abbia fatto nella prima edizione, tra forme di produzione capitalistiche e forme di produzione non capitalistiche. In queste ultime, per delineare un comune denominatore, la produzione avviene per il consumo e quindi in vista del valore d’uso. È quanto avviene nella famiglia patriarcale e nelle comunità asiatiche antiche, dove il carattere sociale del lavoro è dato dal suo essere funzione dei bisogni della comunità. In queste forme si produce per soddisfare bisogni e la natura sociale del lavoro deriva dall’essere il lavoro una funzione dei bisogni della comunità. Viceversa, nel modo di produzione capitalistico, che è un modo di produzione di merci stricto sensu, le merci non vengono prodotte per il consumo della comunità. Anzi, nella produzione di merci si può addirittura parlare di un’indifferenza rispetto ai bisogni da soddisfare. La natura sociale del lavoro non è più data dal fine sociale di una produzione in vista dei bisogni della comunità; piuttosto le merci socializzano fra loro, cioè si scambiano, in quanto concrezioni di lavoro umano uguale. I singoli lavori avvengono indipendentemente l’uno dall’altro, e la natura sociale del lavoro appare perciò solo quando le merci si scambiano fra loro. È il cuore del loro feticismo. Ma la questione da porre sta oltre il feticismo: se il modo di produzione capitalistico si determina con merci che si scambiano in quanto concrezioni di lavoro umano uguale, il problema è individuare dove avviene questa omogeneizzazione di lavori diversi. Dove è che ha luogo l’astrazione in forza della quale tutti questi lavori valgono, indipendentemente l’uno dall’altro, come lavoro umano uguale?

Si sente spesso ripetere che la risposta sta nel lavoro astratto. Salvo poi impantanarsi in diversi problemi relativi alla natura del lavoro astratto. La natura astratta del lavoro può essere spiegata nel processo produttivo degli oggetti d’uso. In questo modo il lavoro astratto diventa pura erogazione di eguale energia psico-fisica umana. Oppure, può essere spiegata nella circolazione a partire da ciò che resta del lavoro quando, nello scambio tra merci diverse, si fa astrazione della qualità specifica del lavoro. In altre parole, quando merci diverse o oggetti d’uso diversi vengono scambiati, viene fatta astrazione del loro valore d’uso specifico e quindi, nell’atto pratico dello scambio, ha luogo l’astrazione. Ma se così fosse, si aprirebbero problemi notevoli: da quando gli uomini hanno incominciato a scambiarsi oggetti d’uso, cioè fin dal baratto, noi avremmo lavoro astratto, perché appunto l’astrazione avrebbe luogo nello scambio e con essa anche il valore come condizione di possibilità dello scambio. E se abbiamo valore abbiamo anche la sua forma fenomenica, cioè il valore di scambio. A questo punto abbiamo «valore», «valore di scambio», «merce», «lavoro astratto»… cioè abbiamo fondamentalmente tutte le categorie del modo di produzione capitalistico, che vengono in tal modo eternizzate fino alle forme primitive di scambio. È una via fondamentalmente sbagliata.

Credo invece che una buona risposta stia nel quinto capitolo, ovvero nel processo di valorizzazione. Credo che solo nel processo di valorizzazione Marx riesca a rendere conto di quella inversione che caratterizza il modo di produzione capitalistico, cioè dell’indifferenza rispetto ai bisogni ed ai valori d’uso. Parafrasando Marx: il capitalista non produce gli stivali per amore degli stivali ma produce gli stivali per valorizzare valore. Gli stivali servono come supporti di valore di scambio. Questo è interessante anche perché, a partire da questa inversione, ha luogo una radicale metamorfosi del valore d’uso. E, ancora di più, assieme a questa metamorfosi del valore d’uso si dà anche un radicale cambiamento antropologico della natura dei bisogni. La socialità ha ora la forma dell’indifferenza e la produzione, in quanto non finalizzata ai bisogni, diventa una produzione indefinita, illimitata di valori d’uso, che porta anche ad un mutamento radicale della natura del bisogno. Da qui segue una nuova antropologia, relativa a un soggetto dai bisogni indefiniti e illimitati. Da questo punto di vista il capitalismo si presenta come un mutamento antropologico paragonabile forse soltanto a quello avvenuto in termini storici o geologici con il Neolitico. Da questa prospettiva la concezione, ancora liberale, dei bisogni indotti andrebbe emendata.

Ancora una volta. Nel modo di produzione capitalistico cambia tutto. Ma, se cambia tutto, niente cambia. È utile tornare al valore intrinsecamente capitalistico del valore d’uso nel processo lavorativo, e quindi al quinto capitolo: «I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavorativa umana, ma sono anche indici di rapporti sociali nel cui quadro viene compiuto il lavoro» (Marx 1988, 195; trad. it. 214). Qui il particolare valore d’uso dei mezzi di lavoro è indice dei rapporti sociali nei quali viene compiuto il lavoro. Questo significa che questo valore d’uso non è indifferente rispetto alla varietà dei modi di produzione. Piuttosto, questo valore d’uso, in quanto indice di un rapporto sociale, mostra la natura di un modo di produzione. Si tratta di un valore d’uso particolare perché è il valore d’uso dei mezzi di lavoro. Esso soddisfa sì un bisogno, ma, nel modo di produzione capitalistico, non un bisogno immediatamente umano, bensì il bisogno di valorizzare valore da parte del capitale.

Seguiamo Marx: il processo lavorativo è non solo processo di produzione, ma anche di consumo. «Il lavoro consuma i suoi elementi materiali» (Marx 1988, 198; trad. it. 218). Qui abbiamo ulteriori osservazioni sull’oggetto d’uso, la cui natura è di essere consumato. E questo vale sia per il consumo dei mezzi di lavoro sia per il consumo di qualsiasi oggetto d’uso. Qui Marx fa una distinzione ulteriore. Distingue fra consumo individuale e consumo produttivo. Quando parla di consumo individuale, ci dice che l’individuo consuma i suoi prodotti per soddisfare i suoi bisogni e il nesso valore d’uso/bisogni occulta i reali rapporti di produzione. «Come dal sapore del grano non si sente chi l’ha coltivato, così non si vede da questo processo sotto quali condizioni esso si svolga, sotto la sferza brutale del sorvegliante di schiavi o sotto l’occhio inquieto del capitalista» (Marx 1988, 198; trad. it. 218). Se l’oggetto d’uso, qui il grano, serve a soddisfare un bisogno, come la fame, Marx ci dice che dal consumo del grano e dal suo sapore, non si capisce sotto quali modi o forme specifiche di produzione esso è stato prodotto. Si potrebbe obiettare a Marx di non tenere conto della natura capitalistica del valore d’uso, e quindi di come anche il sapore del grano o dei pomodori sia cambiato da quando la produzione è diventata produzione su larga scala facilitata da concimi chimici e pesticidi. Un giorno questa storia verrà scritta cercando negli archivi la mole di interventi legislativi necessari al controllo dei pesticidi e degli organismi geneticamente modificati e alla loro nefasta influenza sulla salute umana.

Ma Marx è qui principalmente interessato al consumo produttivo, dove il lavoro utilizza prodotti del lavoro come mezzi di produzione. Qui si mostra, senza fronzoli, lo specifico valore d’uso capitalistico del valore d’uso. Esso è impiegato e consumato come mezzo di produzione. «Il lavoro consuma i suoi elementi materiali», aveva affermato Marx. Il lavoro consuma non solo gli utensili di lavoro e il computer utilizzato per gestire dati, ma consuma il suolo utilizzato per produrre grano e consuma il lavoratore che lo lavora. E questo consumo, poiché nel modo di produzione capitalistico il fine della produzione è la valorizzazione di valore, tende a essere senza misura. Questo è un punto importante perché è da qui che si può capire in che senso il modo di produzione capitalistico è «processo di distruzione» delle «fonti dalle quali sorge tutta la ricchezza: la terra e il lavoratore» (Marx 1988, 530; trad. it. 553). Qui abbiamo due tensioni che si devono combinare fra loro. La prima riguarda il rapporto tra la ricchezza materiale e il valore. Quest’ultimo può crescere tendenzialmente in modo illimitato, ma a spese della ricchezza materiale e della sfera della riproduzione che comprende l’ambiente e la vita dei lavoratori. L’intera umanità sta pagando il conto di questa tensione nei termini del cambiamento climatico.

Su questa tensione se ne incastra un’altra, immediatamente più politica: il consumo del lavoratore nel processo produttivo. Marx è infatti interessato al consumo particolare di una merce dal particolare valore d’uso: la forza-lavoro che non può esistere indipendentemente dal lavoratore nella sua «corporeità vivente (lebendige Leiblichkeit)» (Marx 1988, 183; trad. it. 201; cfr. anche 182; trad. it. 200). È questa la seconda, cruciale tensione che si sovrappone sulla prima. Il capitalista acquista forza-lavoro, e fin qui tutto avviene secondo le leggi del mercato. Ma questa forza-lavoro è attaccata al corpo vivente dei lavoratori cosicché il consumo della prima è anche consumo della loro vita e del loro corpo. È qui che il modo di produzione capitalistico, assieme all’intero Eden dei rapporti giuridici, della democrazia formale, dei diritti fondamentali vengono messi alla prova. Nei luoghi di produzione, dove il lavoratore avanza «timido, restìo, come qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia ormai da aspettarsi altro che la… conciatura» (Marx 1988, 191; trad. it. 209). La metafora impiegata da Marx va presa alla lettera, perché è della pelle dei lavoratori che stiamo parlando. Per questo il capitolo quinto, che apre la terza sezione sul plusvalore assoluto, è così importante. Perché con esso l’analisi del Capitale va al cuore politico dell’intera faccenda. E questa riguarda non l’alienazione o il feticismo, ma come avviene che i mezzi di produzione, cioè il lavoro morto, «adoperano» e «consumano» il lavoratore (Marx 1988, 329; trad. it. 349). Ed è così che si chiude la terza sezione del primo libro.

L’intero Capitale è costruito su tensioni che si presentano anche nella struttura del testo. La prima sezione, che nell’edizione originaria tedesca del 1867 costituiva il primo capitolo, inizia con il valore d’uso nella sua concretezza e la terza sezione, che corrisponde al capitolo terzo dell’edizione del 1867, inizia con il valore d’uso specifico della forza-lavoro: l’essere fonte di valore ed essere attaccata a una corporeità vivente in tensione con il lavoro morto. Abbiamo qui un’eccedenza del valore d’uso che sta tutta sul lato di quella merce particolare che è la forza-lavoro.

Lo voglio ribadire. Marx delinea, ed è qui che si ritrova la politicità del Capitale, una asimmetria imperniata sul valore d’uso: da un lato il valore d’uso particolare della forza-lavoro, dall’altro quello del «mostro animato», del processo tecnologico orientato alla valorizzazione di valore che adopera e consuma i lavoratori. Il Capitale presenta, rispetto ai Grundrisse, un di più di politicità che si ritrova fin nella struttura del testo e nell’armatura categoriale dell’analisi economica. Tutto inizia quando il capitalista «si mette a consumare la merce che ha comperato» (Marx 1988, 199; trad. it. 219) cioè, appunto, la forza-lavoro. E la forza-lavoro non può essere consumata senza consumare al tempo stesso il suo Träger. Nella terza e quarta sezione Marx descrive la grande industria come una sorte di grande cantiere, di ‘casa del terrore’ dove i corpi dei lavoratori vengono martoriati da macchine di tortura. Ed è qui che ogni discorso sulla democrazia deve essere messo alla prova. Il moderno processo di produzione capitalistico non può aver luogo e non avrebbe mai potuto iniziare senza quel disciplinamento spaventoso del corpo operaio descritto nel capitolo sull’accumulazione originaria. Sta qui l’analogia tracciata da Marx nell’incipit del capitolo ventiquattresimo tra accumulazione originaria e peccato originario, un peccato che si riproduce quotidianamente nella irrisarcibilità del consumo del corpo del lavoratore. “Irrisarcibile” perché se il salario può comperare forza-lavoro, non c’è salario che possa comperare il consumo del lavoratore, cioè non c’è stato sociale assistenziale o ricompensa di qualsiasi genere in grado di risarcire il consumo del corpo del lavoratore. E questo vale anche quando le leggi del libero scambio sono in vigore e il lavoratore formalmente libero gode dei suoi diritti civili. Come sanno bene i lavoratori che continuano a morire di cancro a causa delle condizioni nocive nelle quali lavorano e hanno lavorato. Come sanno i lavoratori che rischiano quotidianamente la vita nella guerra permanente con il capitale[2].

Il giovane Marx individuava in questo rapporto tra proletario e capitale il luogo di una ingiustizia assoluta. Qui il proletario è chi è costretto a vendere la propria forza-lavoro, non il povero in quanto indigente. È proletario in quanto le condizioni di riproduzione della sua vita sono separate da lui. In questo senso è «nuda vita» (Engels 1962, 257; trad. it. 1955, 52), costretto a fare del proprio corpo un «oggetto utilizzabile». L’ingiustizia che il proletario subisce non è particolare, ma assoluta (das Unrecht schlechthin) (Marx 1981, 390; trad. it. 1994, 133), non riparabile o risarcibile all’interno dell’ordinamento capitalistico: la sua esistenza evoca una possibilità di giustizia che può darsi solo al di là del modo di produzione capitalistico. Da questa ingiustizia assoluta si delinea l’asimmetria tra la classe dei capitalisti e la classe dei proletari.

Nello scambio tra capitale e forza-lavoro non c’è ingiustizia. Non si tratta di recuperare nel salario una parte o anche l’intero plusvalore prodotto dal lavoratore. L’ingiustizia si dà ad un altro livello ed è visibile solo dal punto di vista della produzione, cioè là dove Rawls, Habermas e i teorici politici che si dilettano in questioni di giustizia non osano mettere i piedi. Per loro le fabbriche sono fenomeni residuali. Mentre per Marx è dove ha luogo l’ingiustizia assoluta e irrisarcibile.

Scendiamo quindi nei laboratori della produzione capitalistica e della valorizzazione. Infatti, quando si parla di merce forza-lavoro si sta parlando di quella particolare merce che attiva il processo di valorizzazione. Un processo che può avere luogo solo perché il valore della forza-lavoro e la valorizzazione compiuta dal lavoro vivo nel processo lavorativo sono differenti. Questa differenza di valore costituisce la natura specifica del processo di valorizzazione innescato dal lavoro vivo. Centrale, nel discorso di Marx, è che questa differenza di valore è possibile soltanto se il processo di valorizzazione è attivato dal lavoro vivo. Questo lavoro vivo è lavoro nell’atto di essere erogato. È il valore d’uso della merce forza-lavoro in quanto ha la particolarità di valorizzare valore e valorizzare valore in misura maggiore al valore della forza-lavoro stessa.

Il capitalista, lo abbiamo visto, consuma questo particolare valore d’uso della forza-lavoro. E lo può consumare solo consumando al tempo stesso il suo supporto, il lavoratore in carne ed ossa. Ma la domanda che ora deve essere articolata nel capitolo quinto riguarda il risultato del processo di valorizzazione, vale a dire la determinazione del valore di scambio prodotto nel processo produttivo. Marx ci dice che esso corrisponde alla quantità di lavoro oggettivato nella merce, non però il lavoro individualmente speso ma il tempo di lavoro socialmente necessario. Perché non il lavoro individualmente speso? Perché per produrre una determinata merce un capitalista ci può impiegare due ore e un altro un’ora, ma questa differenza non costituisce una differenza nei loro valori di scambio.

Ancora una volta, si tratta di questioni apparentemente tecniche, ma dalle profonde implicazioni politiche. Che cosa è dunque il lavoro socialmente necessario? Qui Marx fa un ragionamento interessante. «Dunque, in quanto si considera il valore del refe, cioè il tempo di lavoro richiesto per la sua produzione, i differenti e particolari processi lavorativi, separati nel tempo e nello spazio, che debbono venir percorsi per produrre il cotone stesso e la massa logorata dei fusi, e infine per fare, con il cotone e coi fusi, il refe, possono venir considerati come fasi distinte e successive di un solo e medesimo processo lavorativo» (Marx 1988, 202; trad. it. 1980, 222). Il valore di scambio di una merce, ci dice Marx, è dato dalla quantità di tutto il lavoro contenuto nella merce. Abbiamo differenti processi lavorativi che sono separati nel tempo e nello spazio, ma che vanno tutti considerati come «fasi distinte e successive di un solo e medesimo processo lavorativo». I singoli processi lavorativi devono quindi essere considerati come fasi di un unico processo di valorizzazione. Le diverse fasi sono quindi tutte capitalisticamente sussunte all’interno di un unico e medesimo processo.

Questo argomento sarà messo a tema quando Marx parlerà di sussunzione formale. Nel momento in cui il modo di produzione capitalistico si afferma e il lavoro socialmente necessario si impone come normativo per la produttività dei diversi lavori sussunti nel processo di valorizzazione, allora quei diversi processi lavorativi sono anche sussunti all’interno di un unico processo lavorativo come unico processo di valorizzazione. La sussunzione formale è la forma nella quale fasi e processi lavorativi distinti vengono sussunti in un unico processo di valorizzazione. Questo significa che modi di produzione che apparentemente non sono capitalistici o che, secondo un modo di vedere ingenuamente storicistico, possono essere considerati precapitalistici, come il lavoro degli schiavi delle piantagioni di cotone, sono sussunti capitalisticamente laddove il cotone viene comperato dall’industria inglese che fabbrica abiti per i liberi cittadini europei. In quello stesso momento il lavoro degli schiavi delle piantagioni di cotone non è più comandato personalmente dalla frusta dello schiavista, ma è comandato astrattamente dalle borse internazionali e dal tempo del lavoro socialmente necessario.

Da questo ragionamento voglio ricavare due implicazioni politiche: la prima riguarda l’impersonalità del comando nel modo di produzione capitalistico. Non è la brutalità del padrone a regolare il ritmo dello sfruttamento, ma la produttività del lavoro socialmente necessario per come esso si impone nella concorrenza fra capitali. Il punto di partenza dell’intera questione è il lavoro socialmente necessario, e non il lavoro astratto. È il lavoro socialmente necessario, centrale dal quinto capitolo in avanti, a mostrare come i capitali operano in concorrenza fra loro e come l’aumento della produttività si imponga come condizione di vita o di morte per ogni singolo capitale. Per questo, mettere l’azienda nelle mani dei lavoratori o dello stato non cambia nulla, se non che i lavoratori si costringono a lavorare al ritmo imposto dal lavoro socialmente necessario, e quindi ad autosfruttarsi o a essere sfruttati dallo stato. In questo senso aveva ragione un vecchio militante comunista quando affermava che «la bestia è l’azienda, non il fatto che abbia un padrone».

Una seconda implicazione politica è di natura più generale. Quando il capitale si afferma come modo di produzione dominante, non ha senso continuare a ragionare in termini di capitalismo avanzato o arretrato o precapitalismo eccetera. Queste definizioni sono rottami storicistici che non servono assolutamente a nulla se si vuole comprendere il processo capitalistico nella sua totalità. Non ci sono elementi tendenzialmente avanzati del modo di produzione capitalistico e residui. Tutto va colto in maniera sincronica, o meglio va colto come sincronizzato dalla temporalità dominante del tempo di lavoro socialmente necessario. Come se si trattasse di processi lavorativi distinti ma tutti parimente sussunti in un unico processo di valorizzazione, il cui ritmo è dettato dal tempo di lavoro socialmente necessario. Una condizione imprescindibile per leggere Marx oggi è liberarlo da paradigmi stadiali e fasi di sviluppo storico.

Nel lungo passaggio sulla coltivazione del refe citato poc’anzi, Marx mostra che coltivare cotone, fare fusi e filare (quindi tre fasi diverse, tre processi lavorativi diversi) sono da intendersi come parti del medesimo processo lavorativo. Anche se la coltivazione del cotone avviene sotto condizioni di lavoro schiavistico, il coltivare cotone va inteso come parte del medesimo processo e quindi va inteso sincronicamente come comandato dalla stessa temporalità del lavoro socialmente necessario. Se si vuole ragionare in termini di valore di scambio, cioè di lavoro che si oggettiva in valore di scambio, dobbiamo guardare non al lavoro individualmente erogato, ma al lavoro socialmente necessario. Le diverse produttività del lavoro erogato nei diversi processi lavorativi, coltivare cotone nelle piantagioni americane, fare fusi e filare in Inghilterra, queste diverse produttività di lavoro erogate in distinte fasi, vanno tutte egualmente rapportate al grado di intensità e produttività del lavoro nella media sociale. Infatti, ed è questo l’assunto essenziale di Marx, è soltanto il lavoro di produttività sociale media che deve essere considerato come creatore di valore.

Qui, certo, si annidano anche alcuni problemi. Marx afferma che bisogna rapportare le diverse produttività al grado medio di produttività in una data società, dopodiché si capisce che la produttività del lavoro che dobbiamo tenere presente nel momento in cui dobbiamo determinare il valore di scambio è quella di una forza-lavoro che funziona sotto condizioni normali. Il termine impiegato da Marx è «funzionare». La domanda è: quali sono le condizioni normali nelle quali deve funzionare la forza-lavoro? La risposta è apparentemente semplice, si tratta della produttività del lavoro socialmente necessario. Il problema è determinare questa produttività del lavoro socialmente necessario. Al che si deve rispondere che il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di una determinata merce non è determinabile a priori. Se la produttività del lavoro socialmente necessario determina, in termini di valore complessivo, quanto lavoro sociale si è oggettivato nel valore di scambio di una determinata merce, questa misura è ricavabile soltanto a posteriori, quando la merce è prodotta ed entra nel mercato, cioè quando il processo di produzione è completato e inizia il processo di circolazione. In altre parole, il processo di valorizzazione va sì considerato all’interno del processo di produzione, ma va considerato nella sua totalità e cioè come unità del processo di produzione e circolazione. Allora, se il processo di valorizzazione è unità del processo di produzione e circolazione, ne segue che la determinazione del valore di scambio come determinazione della quantità di lavoro socialmente necessario oggettivato nel valore d’uso è data soltanto alla fine del processo, quando la valorizzazione è compiuta e si entra nella circolazione. In altre parole, la temporalità del lavoro socialmente necessario si impone come normativa per diverse fasi del processo lavorativo quando la produzione è produzione per il mercato mondiale e ogni singolo segmento produttivo corrisponde a un capitale in concorrenza con altri capitali.

La natura spietata della concorrenza tra capitali si manifesta quando viene introdotta una innovazione tecnologica. In termini astratti, quando la filatrice meccanica diventa il mezzo di lavoro che predomina nella società, non è più possibile lavorare con il filatoio a mulinello. Questa sarebbe la tendenza se ci fosse un unico capitale complessivo. E così stanno le cose per chi sogna lavoro industriale come residuo e il lavoro immateriale come tendenza. Ma questi sono sogni che i cantori di sinistra della fine del lavoro cantano assieme al baritono del conformismo neoliberale.

La realtà è più complicata. E per questo anche più interessante. Se la filatrice meccanica viene introdotta in un mercato in cui la maggior parte dei capitalisti lavora con la filatrice a mulinello, ciò che accade è che un capitale che usa la filatrice meccanica è in grado di sfruttare lavoro la cui produttività è nettamente superiore alla media sociale, costringendo quindi gli altri capitalisti, per non soccombere e continuare a essere competitivi nel mercato mondiale, ad aumentare lo sfruttamento assoluto. La domanda da fare è questa: che cosa succede quando ha luogo l’introduzione sporadica di una innovazione tecnologica? Cioè quando un capitalista dispone di una macchina il cui uso non è ancora generalizzato e che gli permette di intensificare la produttività del lavoro e quindi di porsi al di sopra della produttività media del lavoro socialmente necessario? Succede che questo capitalista può appropriarsi di quel plusvalore che Marx chiama plusvalore straordinario. Al tempo stesso, se la filatrice meccanica diventa un mezzo di produzione generalizzato, allora anche la produttività del lavoro socialmente necessario si alzerà e non ci sarà alcun vantaggio nell’impiegare la filatrice automatica. In questo caso, o una nuova innovazione viene introdotta in modo da produrre nuovi differenziali di produttività e plusvalore, oppure la generalizzazione dell’innovazione tecnica va impedita. Con ogni mezzo necessario, dal colonialismo alla guerra. Ma questi sono temi che ho sviluppato in altri lavori.


Note
* Questo testo riprende, anche nella forma, una lezione al Seminario Bergamasco sul Capitale tenuta il 10 aprile 2006. Ho apportato al testo, trascritto a partire dal mio intervento, alcune variazioni per lo più stilistiche. Per il resto il testo ha il ritmo di una esposizione orale.
** Università di Padova
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[1] Marx (1987, 362). Questa parte non è tradotta nell’edizione italiana curata da Mario Tronti (Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti, Roma 1963).
[2] In Italia, nel 2017, la media dei morti da lavoro è stata di 3 al giorno. http://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2018/03/26/infortuni-sul-lavoro-nel-2017-meno-incidenti-ma-piu-vittime_8bd5c835-3f4c-4685-92ab-abad91437ac8.html

Bibliografia
Engels, F. (1962) [1845], Die Lage der arbeitenden Klasse in England, in MEW, Bd. 2, Berlin: Dietz Verlag; trad. it. La situazione della classe operaia in Inghilterra, Roma: Edizioni Rinascita, 1955.
Marx, K. (1981) [1843], Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, in MEW, Bd. 1, Berlin, Dietz Verlag; trad. it. Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Marx, K. e Engels, F., Opere, vol. III, Roma: Editori Riuniti, 1994.
Marx, K. (1987) [1879-1880], Randglossen zu Adolph Wagners „Lehrbuch der politischen Ökonomie“, in MEW, Bd. 19, Berlin: Dietz Verlag; trad. it. a cura di Tronti, M., Scritti inediti di economia politica, Roma: Editori Riuniti, 1963.
Marx, K. (1988) [1867], Das Kapital, in MEW Bd. 23, Berlin: Dietz Verlag; trad. it. Il Capitale, Roma: Editori Riuniti, 1980.

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