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Tra soggetto e oggetto, la verità: Lukács e Marx

di Collettivo Le Gauche

soggetto e oggettoSoggetto

Martin Heidegger è uno dei filosofi più importanti del secolo scorso che influenza fortemente la lettura del presente da parte di molti. Il confronto critico con lui ha particolare importanza perché egli ha correttamente individuato uno degli elementi più importanti che distinguono l’uomo dall’animale: la sua progettualità.

Certo, nemmeno la materia “inerme” sta mai ferma (pensiamo al moto dei pianeti, del ciclo dell’acqua, dei rivolgimenti geologici), però l’uomo, in quanto essere biologico, ha un livello di complessità superiore a quello della materia che si trasforma per puro gioco delle leggi della fisica e della chimica, avendo delle leggi proprie peculiari al suo essere biologico e riproducendosi come individuo, come società e come specie ponendo i propri presupposti, a differenza dei moti naturali che non necessariamente pongono i loro presupposti, e infatti si possono consumare ed annullare spontaneamente.

Le forme di vita meno coscienti si adattano tramite mutazioni genetiche casuali che creano varietà di caratteristiche entro tale specie, di cui sopravvivono soltanto gli esemplari più adatti alle condizioni in cui sono posti. Questo adattamento avviene “sulle spalle del singolo esemplare” tramite la sua vita e morte e le mutazioni genetiche ecc., quindi possiamo parlare di adattamento passivo.

Al crescere della complessità biologica, però, gli organismi si emancipano sempre più dalla loro assoluta passività e impossibilità di adattamento individuale, pur con ovvi salti: una pianta che spontaneamente tende le foglioline verso la luce del sole è incomparabilmente più passiva rispetto ad un animale che si può muovere e che può quindi cambiare il suo ambiente circostante.

Naturalmente tali gradi di sviluppo possono benissimo coesistere, anzi si può osservare che negli ecosistemi ci sono sempre casi di adattamento reciproco e di interazione tra piante ed animali (specialmente negli ecosistemi di una certa età, perché come abbiamo detto questi cambiamenti avvengono “sulle spalle” dell’esemplare e quindi ha bisogno di molti cicli biologici per potersi affermare biologicamente). Tale adattamento però non è ancora cosciente:

Quando Kant definisce «finalità senza scopo» gli atti di adattamento degli organismi, usa una formula assai acuta anche in senso filosofico, perché sottolinea con efficacia la particolarità delle reazioni che gli organismi sono spontaneamente e costantemente costretti ad avere sul piano dell’essere nei confronti del proprio ambiente al fine di potersi riprodurre. Ne derivano processi che non hanno nessuna analogia nella natura inorganica, ma vengono invece imposti da legalità specialmente biologiche, che tuttavia si svolgono nell’ambito di una causalità che opera anch’essa spontaneamente e sono fatti allo stesso modo dei processi dell’ambiente inorganico e organico cui ogni volta danno avvio. E quando nelle specie animali superiori questi decorsi sono guidati da una sorta di consapevolezza, questa in definitiva non è che un epifenomeno delle legalità causali-biologiche della loro vita. Per questo nella determinazione kantiana il «senza scopo» è così acuto, perché è il progetto stesso che ontologicamente richiama l’essenza dello scopo – contrariamente alla serie puramente causale – perché sembra essere posto, senza essere realmente posto con consapevolezza da qualcosa di consapevole.

(György Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, PGreco, 2012, Capitolo 1, pag. 17)

Anche l’uomo si adatta, ma è palese che non sia un adattamento come quello appena descritto; egli infatti è dotato di una coscienza di ordine superiore agli altri animali, tanto che assume dei caratteri ontologici radicalmente diversi:

Mentre però gli sviluppi biologici si compiono bensì, nell’immediato, nei singoli esemplari dei generi, ma non sono prodotti da questi, sono invece prodotti su questi, per contro lo sviluppo del processo economico può compiersi soltanto mediante posizioni [Setzung] teleologiche di uomini (nell’immediato, ma solo nell’immediato, di singoli uomini, di esemplari di quel genere).

(György Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, PGreco, 2012, Capitolo 2, pag. 52, sottolineature mie)

Vediamo rapidamente le fasi logiche di formulazione di una posizione teleologica [1]. All’origine serve una mancanza, un bisogno ancora “interiore” e cieco come la fame, o il bisogno di affetto, o il bisogno di presenza, non ancora di per sé articolato; esso, per avere realizzazione, deve estrinsecarsi socialmente e al contempo diventare positivo, formularsi come desiderio, come domanda (“dammi da mangiare”), poi con la richiesta di qualcosa di specifico che soddisfi tale desiderio: “voglio mangiare quella cosa lì“, determinato nelle sue specificazioni dall’intersezione tra natura e società (mangiare in generale è la risposta alla fame, quel cibo lì è invece un elemento composito natural-sociale, sia nella richiesta per la preferenza, che nella soddisfazione di tale richiesta per il lavoro collettivo necessario). L’introduzione della specificazione del desiderio, l’identificazione della sua soluzione in qualcosa di specifico, anche se tale cosa specifica non è al momento presente e anzi soprattutto se non è già a nostra disposizione (in Heidegger è la Zuhandenheit, la “prontezza alla mano”), è ciò che rende possibile e necessario il progetto:

Un ragno compie operazioni simili a quelle del tessitore; un’ape fa arrossire molti architetti umani con la costruzione delle sue celle di cera. Ma ciò che, fin dapprincipio, distingue il peggiore architetto dalla migliore ape è il fatto di aver costruito la cella nella propria testa prima di costruirla in cera. Al termine del processo lavorativo, si ha un risultato che era già presente all’inizio nella mente del lavoratore; che, quindi, esisteva già come idea. Non è che egli si limiti a produrre un cambiamento di forma nel dato naturale; realizza in esso, nel medesimo tempo, il proprio scopo, uno scopo ch’egli conosce, che determina a guisa di legge il modo del suo operare, e al quale egli deve subordinare la propria volontà.

(Karl Marx, Il Capitale, UTET, Torino, 2013, Capitolo V, pag. 274)

Il progetto quindi è uno scopo immaginato, la risposta immaginata ad un desiderio, in cui l’immagine è la determinazione dell’oggetto del desiderio. Lukács aggiunge: «La posizione consapevole significa che lo scopo precede il risultato. Questo è il fondamento dell’intera società umana [2]».Quanto progettato sarà utile per sopravvivere e vivere bene (che è, in ultimo, buon indizio di condizioni ottimali di sopravvivenza). L’uomo infatti rimane pur sempre un animale; ma non scordiamoci nemmeno che la banale caratteristica “in più” della coscienza rivoluziona in modo decisivo il suo comportamento nel mondo rispetto ad altri animali.

Ma come si fa dunque a colmare lo iato tra questo scopo immaginato, questo progetto, e la sua realizzazione che ne consente l’effettivo utilizzo e dunque utilità, soddisfazione dei bisogni ? Ce lo dice Marx nel terzo periodo da noi riportato: con un processo lavorativo, con il lavoro, ossia con lo sfruttamento orientato delle cieche leggi della natura (l’Astuzia della Ragione, List der Vernunft, di Hegel [3]). Sia il lavoro stesso che gli attrezzi che lo facilitano non sono altro che “ricombinazioni” intenzionali di elementi e oggetti presenti in natura per il beneficio dell’uomo e delle sue attività, come la cucina, o il trasporto di prodotti e persone, o la macinazione dei cereali. Si tratta quindi di un uso teleologico dei processi causali presenti nel mondo (naturale, ma anche sociale)[4], grazie alla nostra coscienza e capacità di astrazione che ci permette di trovare le leggi e sfruttarle intenzionalmente con una consapevolezza ben oltre quella relativamente elementare di un qualsiasi altro animale.

Il lavoro è la chiave per comprendere la realtà dell’adattamento attivo umano, perché è con esso che trasforma attivamente il suo ambiente per garantirsi la sopravvivenza e il benessere. Il lavoro, però, non si può comprendere separatamente da due elementi fondamentali: oltre alla già menzionata nozione di utilità (e quindi di produzione orientata ad uno scopo, l’elemento teleologico, la acquisita «finalità con scopo»), è cardine la socialità dell’uomo (la sua integrazione in gruppi). Infatti l’uomo ha sempre vissuto socialmente in gruppi più o meno grandi, in cui la produzione sociale procura o realizza ciò che serve alla società stessa, grazie a diversi livelli di cooperazione e divisione del lavoro (seppur possa variare dal livello più rudimentale a quello estremamente complesso di oggi), permettendo una più facile sopravvivenza tramite la messa in comune degli sforzi e dei loro frutti.

E questi adattamenti attivi sono prodotto consapevole degli stessi umani, e non puro risultato di casuali mutazioni genetiche; questa è ciò che Lukács chiama “genericità non più muta”. Le specie sono ontologicamente generiche perché gli esemplari singoli della stessa specie sono diversi (a differenza per esempio dei composti chimici o degli atomi perfettamente uguali tra loro), e quindi per comprenderli tutti sotto lo stesso ombrello bisogna tenere conto della loro variabilità, un certo livello di genericità del loro essere più “fondamentale” che si può specificare in vari modi. Ma se gli animali sono “genericità mute” e quindi passive, la “genericità non più muta” degli uomini racchiude la possibilità di specificazione dell’uomo che, a differenza degli animali, ha la voce per rispondere ai problemi posti agendo attivamente nel proprio ambiente.

Questo implica anche che il rapporto stesso tra singolarità/singola oggettività dell’uomo e la sua universalità, l’essere un esemplare di una specie con determinate caratteristiche, cambia radicalmente rispetto a forme di vita diverse, come le piante o anche altri animali. Infatti in esso il rapporto tra sé come singolo specifico e la propria “natura” biologica non è più immediato, ma mediato dalla coscienza, proprio ciò che rende possibile l’adattamento attivo alle situazioni che ci si pongono; e questo adattamento attivo al mondo fa sì che la “natura umana” ci sia soltanto sullo sfondo, siccome nella vita concreta il nostro mondo e dunque modo di esistere è determinato dai rapporti sociali. Da qui la critica a Feuerbach nella VI tesi delle famose Tesi su Feuerbach del 1845:

Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà è l’insieme [ensemble] dei rapporti sociali.

Feuerbach, che non penetra nella critica di questa essenza reale, è perciò costretto:

    1. ad astrarre dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé, e a presupporre un individuo umano astratto – isolato;
    2. l’essenza può dunque essere concepita soltanto come “genere”, cioè come universalità interna, muta, che lega naturalmente molti individui.

(A cura di Enrico Donaggio e Peter Kammerer, Karl Marx – Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, Feltrinelli, 2015, Milano, Capitolo 2, pag. 44)

Della questione dell’individualità parleremo più approfonditamente nell’approfondimento sulle ideologie e nell’Appendice.

Ricapitolando, l’uomo agisce con intento, concretizzato nel progetto. In questo senso, egli (individualmente, ma pure socialmente) è soggetto. Il punto è che esso lo fa interagendo con ciò che lo circonda, nel quale esso è inizialmente gettato (ovvero non sceglie le proprie condizioni di nascita e di crescita, finché non ha un certo grado di interazione manipolativa con l’ambiente) e che poi modifica nel limite delle sue possibilità, che sono determinate dalla sua capacità materiale di interagirci (forza, destrezza, velocità, resistenza…) come pure dalla sua conoscenza dell’oggetto con il quale ha a che fare, data dall’elaborazione dell’esperienza diretta e/o dalla conoscenza tramandata socialmente.

Dato l’essere attivo dell’uomo, quindi, si può dire che è ragionevole la suddivisione filosofica tra soggetto e oggetto, perché l’uomo effettivamente agisce su cose che non sono esso, oggetti (in senso lato) della sua azione.

 

Tra Soggetto e Oggetto

Per molti, lo studio intorno alla realtà parte dalla demarcazione tra soggetto e oggetto, tra coscienza e mondo; che altro possiamo fare ? Certo, discorsi sul soggetto, oppure sull’oggetto. Ma provando a farlo, ci staremmo dimenticando di un elemento, così sottile eppure così determinante: la loro relazione, la linea di demarcazione stessa.

Potremmo parlare di ciascuno separatamente (dopo averli, appunto, distinti, separati!), ma se vogliamo fare un discorso scientifico dobbiamo non solo analizzarli di per loro, astrattamente, ma anche studiarne i presupposti e i rapporti, poterli comprendere non solo nel fatto che ci sono, ma anche nel perché essi siano fatti così, oltre che le loro interazioni specifiche che realizzano i fenomeni nella loro concretezza. Facendolo, però, svaporano improvvisamente tutte le linee che potevamo tracciare, in un certo senso diventano traspiranti. Ma questo non è segno del fatto che stiamo sbagliando, bensì del fatto che ci stiamo muovendo sulla strada giusta, perché stiamo uscendo fuori dallo sterile laboratorio dell’astrazione nel quale siamo capitati, per invece immergerci nell’interconnesso e difficile mondo reale. Come dice Adorno,

Si può pretendere chiarezza da ogni conoscenza solo dando per inteso che le cose sono scevre da qualsiasi dinamica, la quale le sottrarrebbe alla fissazione univoca dello sguardo. Il requisito della chiarezza diventa doppiamente problematico, non appena il pensiero conseguente scopre che ciò su cui filosofa non si limita a passare davanti al soggetto conoscente come su un veicolo, ma è mosso in se stesso, e perde con ciò l’ultima analogia con la res extensa cartesiana, con l’oggetto spaziale. Correlativamente a questa consapevolezza se ne forma un’altra: anche il soggetto non sta fermo come una macchina fotografica su un treppiede, ma si muove a sua volta per la sua relazione con l’oggetto in sé mosso – una delle tesi centrali della Fenomenologia hegeliana. Di fronte a ciò la piatta richiesta di chiarezza e distinzione diventa un’anticaglia; dentro la dialettica le categorie tradizionali non si mantengono intatte, ma essa penetra in ciascuna e ne trasforma la complessione interna.

(Theodor Adorno, Tre Studi su Hegel, Il Mulino, 2014, Capitolo III: Skoteinos, ovvero come si debba leggere, p. 123)

Infatti il soggetto è così: perché ? Torniamo al discorso di prima: Heidegger ha correttamente individuato la progettualità dell’uomo. Egli, però, non si è limitato a dire questo, ma definisce l’uomo anche come gettato. Noi abbiamo già usato questo termine parlando delle condizioni iniziali nelle quali si trova l’uomo. Dopo un processo di apprendimento, infatti, ciò che gli è esterno non è pura datità, bensì è trasformato attivamente dall’uomo stesso e, più accuratamente, dal complesso di azioni sociali. Heidegger parla della gettatezza in modo diverso, come condizione che persiste nell’esistenza del singolo (ma il suo pensiero indica che questo valga anche per la società), che è appunto la datità della condizione nella quale vive, radicalmente immodificabile perché, eventualmente, ciò che facciamo è determinato da ciò che è già (e non condizionato, perché se introducessimo una certa variabilità dovuta all’agire umano allora questa datità assoluta non sarebbe più tale). Nel nostro caso parliamo di gettatezza iniziale, perché una gettatezza “complessiva” (che odora di essenzialismo, per cui una persona muore come è nata) non è analiticamente feconda perché ferma, un eterno ritorno dell’uguale solo che in versione deterministica nella quale l’esistenza è subita. Infatti,

L’assunzione dell’esser gettato [la decisione] è però possibile soltanto a patto che l’Esserci ad-veniente [che si realizza nella sua possibilità autentica] possa essere il suo proprio «come già sempre era», cioè il suo esser-«stato»

(Martin Heidegger, Essere e Tempo, Sezione Seconda, paragrafo 65, Trad. Longanesi, 2015, Milano [cfr. anche con Mondadori, 2019, pag. 457])

Da un lato, può essere interpretato come immobilismo, eterno ritorno dell’uguale, appunto, che naturalmente non esiste perché le cose cambiano sostanzialmente e formalmente, come pure noi che ci abbiamo a che fare in diversi ambienti, formazioni sociali, età ecc; dall’altro come il fatto che il passato della totalità (se si parlasse di totalità minori, essendo esse nel mondo vi sarebbero elementi esterni che turberebbero la pura sequenzialità e causalità di tale sotto-totalità) determina il futuro della totalità, ma con questo non avremmo detto proprio un bel niente.

In ogni caso, il soggetto si trova necessariamente in un contesto oggettivo, inizialmente dato (soggetto gettato) e poi in modo sempre più trasformativo: tale oggettività non smette mai di strutturare l’agire, i bisogni e la conoscenza del soggetto; ho sviluppato più in profondità la questione in un articolo precedente. Sarebbe impossibile concepire il contrario, un soggetto astorico sempre uguale a sé stesso, se non nell’astrazione da tutto ciò che non è soggetto, cioè tutto. La “natura umana” ci si mostra sempre con “l’impurità” della reale esistenza storica (in quanto l’uomo vive in specifici rapporti sociali storicamente determinati, come abbiamo già visto nella sezione Soggetto, e in quanto l’individuo stesso ha una certa storicità esperienziale): uno dei motivi per cui Marx e poi Lukács colgono un nesso fondamentale qualificando l’umanità come Gattungswesen, “Essenza generica composita”[5]. Ho già discusso di un paio di implicazioni, di “tagli” attraverso cui si può guardare la genericità dell’essenza umana:

All’interno della sua opera [di Marx] possiamo ritrovare una matrice antropologica per cui l’uomo è indeterminato di per sé, dice Marx “Essenza generica”; il concetto di Gattungswesen possiamo usarlo a doppio taglio, evidenziandone due aspetti diversi. Il primo, che chiamerei “genericità in senso particolare” è che l’uomo è libertà, pertanto il nostro agire è risultato di arbitrio (seppur interfacciato con la situazione che lo circonda, tra cui la mentalità collettiva, le aspettative sociali…), non nasciamo operai o leader o scienziati; si tratta di una libertà essenziale con taglio individuale (la critica di Marx da questo punto di vista è l’imbestialimento dell’uomo ad opera del modo di produzione capitalistico perché viene “determinato”, deve “specificarsi”, ha la sua universalità limitata nel lavoro specializzato e nel ruolo sociale). Il secondo aspetto è la “genericità in senso generale” per cui l’uomo ha “natura generica”, ovvero che ha natura, logica, comportamento che non si può determinare in modo universale, bensì che si modella in virtù dell’epoca, della mentalità, delle condizioni sociali e, ora arriviamo alla roba che scotta, i rapporti sociali. Questo significa che l’uomo non “è egoista”, o “buono”, o “indifferente”… non si può parlare di natura umana in questo modo […]

(Tratto dall’articolo Prolegomeni a una filosofia della verità, su sigma.blog)

È palese che in entrambi i casi la realtà esterna ci condiziona, e infatti come si specifica questa nostra essenza generica ? Nella composizione e interazione con l’organizzazione sociale, che ci fornisce determinate potenzialità e limiti. Lukács esemplifica bene questa cosa quando parla dell’individualità: essa è una categoria che esiste soltanto se lo sviluppo sociale lo permette, perché l’individualità non può sicuramente esistere se il singolo vive in una piccola tribù primitiva dove di gusti musicali non si può parlare, di cultura preferita, di lavori diversi (al massimo alcuni conciano le pelli e si occupano della famiglia, altri della caccia e della raccolta), di cucine variegate, di complessità di istituzioni ed esperienze che effettivamente ci rendono diversi l’uno dall’altro. È un determinato grado di socializzazione a dare possibilità e necessità alla caratteristica dell’individualità nel soggetto; inoltre, è lo specifico contenuto dei rapporti sociali a definire come questa individualità si andrà a formare.

Possiamo in realtà estendere questa tesi su due livelli. Infatti con lo sviluppo della realtà sociale sappiamo che viviamo in ambienti diversi, variegati, che lasciano la loro impronta sul nostro fare e sul nostro pensare (vedi qui la trattazione in dettaglio), di conseguenza su ciò che possiamo fare e pensare: le categorie possono inizialmente presentarsi a noi come attributi puramente del pensiero, o puramente dell’essere. Però noi possiamo pensare, d’altronde, soltanto qualcosa che esiste (prodotto dell’immaginazione è una rielaborazione e ricombinazione di ciò che abbiamo già vissuto e pensato), e non solo che esiste ma che è anche complessivo e determinante per noi, quindi determinati assetti e processi sociali. Aiutiamoci qui con uno spezzone di testo scritto da noi in un articolo precedente:

A partire dal XIX secolo, nel discorso filosofico, ma anche nel discorso politico, si è sempre fatto riferimento a [la società civile] come a quella realtà che si impone, che lotta e che si erge, che insorge e che sfugge al governo, o allo stato, o all’apparato di stato, o all’istituzione. Credo, tuttavia, che si debba essere molto prudenti quanto al grado di realtà che si accorda alla società civile. Essa, infatti, non è quel dato storico-naturale destinato, in un certo senso, a fungere da fondamento, ma anche da principio di opposizione allo stato o alle istituzioni politiche. La società civile, insomma, non è una realtà originaria e immediata, ma è piuttosto qualcosa che fa parte della tecnologia governamentale moderna. Dire che ne fa parte non significa che ne sia il prodotto puro e semplice, e non vuol dire nemmeno che sia priva di una sua realtà. La società civile è come la follia, o come la sessualità. Fa parte di quelle che chiamerei delle realtà di transizione. È proprio all’interno del gioco e delle relazioni di potere, e di ciò che costantemente sfugge loro, in un certo senso nell’interfaccia tra governanti e governati, che nascono quelle figure transazionali e transitorie che, per il fatto di non essere esistite da sempre, non per questo sono meno reali, e che si possono chiamare, di volta in volta, società civile, follia e così via.”

(Michel Foucault, Nascita della Biopolitica, Feltrinelli, Milano, 2015, pag. 242)

Qui Foucault ci dice che la società civile, e il suo opposto, il mercato, prima del 1800 erano difficilmente concepiti. La società civile, in breve, è l’insieme di relazioni non economiche, “non interessate”, spontaneamente emergenti nella comunità (linguaggio, cultura, relazione, amicizia, conflitto); il mercato è invece l’ambito delle relazioni economiche, “interessate” (scambio, contrattazione, concorrenza, cooperazione). Questi aspetti esistono da sempre nelle società umane, ma fino all’emersione reale del mercato e della società civile ottocenteschi non li si era mai potuti isolare in modo così organico in discipline come accade oggi con la sociologia e l’economia, per esempio. Cos’è successo, allora ?

Foucault ci fornisce una spiegazione, ma non lo scrive in modo sufficientemente adatto al nostro articolo: lo sviluppo di un oggetto della realtà ha permesso la formazione di un concetto del pensiero; non è una “creazione”, quanto un “ascendere”, un “illuminarsi”, un aumento di presenza (e di dimensione) di determinati aspetti della realtà e quindi del pensiero.

(Tratto dall’articolo Prolegomeni a una filosofia della verità, su sigma.blog)

Qui si mostra chiaramente come immaginare il concetto-entità “Società Civile” non è dovuto al solo lato soggettivo, quindi soltanto al fatto che “finalmente siamo stati messi in condizione di concettualizzare la società come separata dallo Stato”, ma anche dal lato oggettivo, perché è così, è effettivamente vero che nello Stato e la Società Civile (e in particolare nel loro rapporto) è cambiato qualcosa che li rende più distinguibili. Un tentativo di spiegazione potrebbe essere che le plurali fonti di diritto medievali, la diffusione e la stratificazione delle tasse, la comunitarietà e la tutto sommato meno complessa (senza dire nulla della difficoltà o facilità) esistenza che non necessitava di particolare organizzazione centralizzata hanno tutte impedito la demarcazione dell’entità statuale e di conseguenza della sua controparte, la società civile: infatti, il diritto è ora concentrato nello Stato (pur nelle sue diramazioni), la riscossione delle tasse idem, vi è divisione tra privato e pubblico e il bisogno di un’entità macroscopica che organizzi a livello macroscopico la vita della società.

Affermerei che tra lato soggettivo e lato oggettivo nella questione, sia il lato oggettivo ad essere più importante: senza il contenuto concreto noi non possiamo, anche potendo, nemmeno immaginare qualcosa. E la prova di ciò non giace in un’astratta dimostrazione logica, ma nella storia stessa dell’umanità che si è sempre confrontata con una realtà che specialmente inizialmente non capiva (infatti attribuendo ad elementi divini/magici le ragioni delle cose) ma che nonostante tutto usava: la ruota, il fuoco, la lancia, ma poi anche il motore a benzina e tanto altro. È la chiave dell’apprendimento umano, ovvero prima fare le cose e poi capirle, perché nella realtà dobbiamo avere a che fare con tutti i livelli della stessa, e invece nel pensiero possiamo (al massimo) arrivare a semplificazioni utili. Non lasciamoci ingannare dal fatto che sono semplificazioni, perché sono utilissime, anzi sono concretamente la base della nostra vita perché la (ri)produzione della società si fonda su una comprensione ovviamente non totale in tutti gli aspetti di ogni cosa; se esse fossero scorrette, ne avremmo la riprova immediatamente dal fatto che ciò che volevamo fare non funziona (ovviamente avendo prima i mezzi adeguati), perché non potremmo camminare, oppure parlare, oppure i nostri edifici crollerebbero. Ne ho parlato anche qui .

Marx, ripreso da Lukács, condensa questo concetto con estrema chiarezza nella frase del Capitale “Non sanno di farlo, ma lo fanno” [6]. Oppure, in altri termini, prima viene il fare e poi, eventualmente, la conoscenza della cosa. Se questo lo si vuole prendere letteralmente e senza la profondità della cosa che ho appena cercato di mostrare si finisce ad un “tentativismo”, alla teorizzazione di un’azione cieca e senza pensiero: la nostra tesi è un’altra, ovvero che per avere conoscenza di qualcosa noi dobbiamo prima averci a che fare (sperimentare, nel senso di tentativo e nel senso di vivere), interagirci, così che la cosa ci parli di sé.

L’oggetto però ha degli elementi in comune ad altri oggetti non solo nel pensiero, ma anzi primariamente nella realtà, tanto che possiamo ritrovare (ad esempio) lo stesso funzionamento della meccanica, la biologia e alcuni caratteri sociali dell’uomo sempre e ovunque. Insomma, la conoscenza deriva sì dall’elaborazione dell’esperienza (e quindi è cronologicamente successiva), ma siccome la realtà non è costituita da elementi disarticolati e tutti radicalmente diversi bensì da elementi e fenomeni vari che hanno elementi e proprietà in comune (in base alle cose confrontate ovviamente) possiamo trasportare le nostre conoscenze nella nuova situazione così da essere già in qualche modo pronti ad affrontarla.

In Hume per esempio è evidente la completa eliminazione dell’oggetto, perché si considerano le cose soltanto nel loro darsi a noi e non come elementi esistenti autonomamente da noi nella realtà e parti costituenti della totalità. Dentro l’esperienza (soggettiva), non viene visto (a) il nucleo oggettivo e (b) il processo di causazione [il nesso “se – allora”], quindi l’insieme di elementi che fanno in modo che il fenomeno soggettivo sia provocato da un evento oggettivo, di per suo necessario in virtù della propria logica interna e della sua collocazione in una totalità oggettiva. L’interazione del soggetto con l’oggetto inoltre non solo fa conoscere dell’oggetto, ma fa anche conoscere del soggetto, delle potenzialità di esso. Nella dimensione del lavoro, si costituisce una interazione specifica perché necessitata tra soggetto e altri soggetti e oggetti, e si mostra chiaramente lo statuto ontologico della conoscenza (v. a tal riguardo Tesi su Feuerbach, I e II).

Entro il “rivestimento mistico” di questo buco nero di Hume possiamo comunque trovare un “nocciolo razionale”, perché si fissa il ruolo di primo mediatore, di contenuto grezzo del sapere che ne costituisce un raffinamento, una purificazione. Naturalmente, non essendo la nostra esperienza totale e quindi assoluta, non possiamo sapere tutto dell’oggetto (come pure del soggetto), ma possiamo conoscerlo almeno per quello che ci serve, con approssimazioni progressive. I giudizi quindi che possiamo fare sono “tendenziali” perché non possiamo avere presente tutti i fattori che concorrono nel caso specifico, o in altri termini, non sempre possiamo avere in mano tutti i “se” che determinano un risultato [7].

Ciò non toglie però che del mondo si possa avere comprensione. Ci tratteniamo per discutere brevemente di questo tema.

Se è vero che «la scienza non nasce dall’esperienza, ma dal suo fallimento»[8], ossia se è vero che se non vi fossero contraddizioni in essa non ci si porrebbe il problema della conoscenza, non si può semplicemente “generalizzare” quanto già osservato perché si ricadrebbe nel “buco nero” di Hume, in cui la conoscenza del passato non ci dice nulla del futuro.

Il generale (cioè la generalizzazione dell’esperienza ordinaria) fa da ostacolo perché è statico, bloccato sull’aderenza a un reale inteso come dato di partenza […]. Affinché si produca un concetto scientifico, la generalità deve essere «deformata» in modo da contenere al suo interno le condizioni della sua applicazione.

(Pierpaolo Cesaroni, La vita dei concetti: Hegel, Bachelard, Canguilhem, Quodlibet, 2020, Macerata, pag. 41)

Il punto principale che distingue una concezione “scientifica” da una “empiristica” è questo studio delle possibilità del darsi delle cose, lo studio dell’essere che si mostra a noi, il comprenderlo in sé stesso per spiegarne il manifestarsi specifico. Qui si collega Marx, che riporta uno stralcio dalla recensione dell’economista russo I. Kaufman al Capitale:

«Per Marx, una cosa sola è importante: trovare la legge dei fenomeni che egli si occupa di indagare. E, per lui, è importante non solo la legge che li governa, in quanto abbiano forma compiuta e stiano in un rapporto reciproco osservabile su un dato arco di tempo, ma soprattutto la legge della loro metamorfosi, del loro sviluppo, cioè il passaggio da una forma all’altra, da un ordinamento di quel rapporto a un altro. Scoperta questa legge, egli esamina nei particolari le conseguenze in cui essa si manifesta nella vita sociale… Perciò, l’obiettivo di Marx è uno solo: provare mediante un’indagine scientifica esatta la necessità di determinati ordinamenti dei rapporti sociali, e registrare col maggior rigore possibile i fatti che gli servono da punto di partenza e di appoggio. A questo scopo, gli basta mostrare insieme la necessità dell’ordinamento presente e la necessità di un altro in cui è inevitabile che il primo trapassi, lo credano o no gli uomini, ne siano o no consapevoli. Marx considera il movimento sociale come un processo di storia naturale retto da leggi che non solo sono indipendenti dalla volontà, dalla coscienza e dai propositi degli individui, ma al contrario ne determinano la volontà, la coscienza e i propositi […]. Ciò significa che non l’idea, ma soltanto il dato fenomenico, può servirle da punto di avvio. La critica si limita a comparare e confrontare un fatto non già con l’idea, ma con gli altri fatti. Ad essa importa unicamente che gli uni e gli altri siano studiati con la maggior esattezza possibile e costituiscano davvero, gli uni di fronte agli altri, diversi momenti di sviluppo; ma specialmente interessa che si indaghi con altrettanto rigore la serie degli ordinamenti, la successione e i mutui rapporti in cui gli stadi di sviluppo appaiono. Ma, si dirà, le leggi generali della vita economica sono sempre le stesse, a prescindere interamente dal fatto che noi le applichiamo al presente o al passato. Appunto questo nega Marx. Per lui, simili leggi astratte non esistono… A parer suo, ogni periodo storico possiede le sue particolari leggi… Non appena la vita ha superato una certa fase di sviluppo, e da uno stadio dato passa a un altro, comincia pure ad essere retta da altre leggi. In breve, la vita economica ci presenta un fenomeno analogo alla storia della evoluzione in altri rami della biologia… I vecchi economisti misconoscevano la natura delle leggi economiche, quando le paragonavano alle leggi della fisica e della chimica… Un’analisi approfondita dei fenomeni ha mostrato che gli organismi sociali si differenziano gli uni dagli altri in modo altrettanto deciso quanto gli organismi vegetali ed animali… Anzi, lo stesso fenomeno soggiace a leggi del tutto differenti a causa della diversa struttura generale di quegli organismi, della variazione dei loro organi singoli, della diversità delle condizioni in cui funzionano ecc. Marx, per esempio, nega che la legge della popolazione sia la stessa in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Assicura al contrario che ogni stadio di sviluppo ha la sua particolare legge della popolazione… Con il diverso sviluppo della forza produttiva, i rapporti e le leggi da cui essi sono governati si modificano. Proponendosi di indagare e spiegare da questo punto di vista l’ordinamento economico capitalistico, Marx si limita a formulare con rigore scientifico lo scopo che ogni ricerca esatta sulla vita economica deve prefiggersi… Il valore scientifico di tale ricerca sta nell’illustrazione delle particolari leggi che presiedono alla nascita, all’esistenza, allo sviluppo, alla morte di un dato organismo sociale, e alla sua sostituzione con un altro e superiore. Questo valore ha, di fatto, il libro di Marx».

Illustrando quello che chiama il mio vero metodo in modo così calzante e, per quanto riguarda la mia personale applicazione di esso, così benevolo, che cos’altro ha illustrato l’Autore se non il metodo dialettico ?

(Karl Marx, Poscritto alla seconda edizione, cit. in Il Capitale, UTET, 2013, Torino, pagg. 85-86)

Qui ci sono moltissimi elementi che possono essere discussi, ma al nostro fine è importante considerare schematicamente come a) l’analisi delle leggi dei fenomeni superficiali della società deve necessariamente partire “a monte”, da uno studio di ciò che li dà così come sono e così come ci si mostrano, b) esiste una «logica specifica dell’oggetto specifico» [9] , sicché le leggi economiche, popolative e le relazioni sociali capitalistiche hanno una certa estensione di validità al “loro” periodo storico, e del resto non potrebbe essere che così, e infine c) come vi sia l’emergere di leggi specifiche nell’interazione tra diversi fattori. Un aspetto straordinario del Capitale è la immensa capacità esplicativa di fenomeni che ci accadono “quotidianamente”, a partire dall’ambito economico; certo è che, per essere fedeli a tale capacità di distinguere gli ambiti di validità di determinate leggi, che Marx per esempio usa per distinguere il modo di produzione capitalistico dagli altri, dalla produzione in generale e dai fenomeni sociali superficiali, è errato supporre che tutti gli aspetti della vita sociale siano derivabili in senso diretto dal movimento dell’economia. Certo, questo è un fattore fondamentale e ontologicamente prioritario, ma ciò non esclude l’esistenza di altri fattori, altrettanto essenziali per l’esistenza concreta del “risultato finale” anche se meno determinanti, che appunto pongono il fenomeno secondo leggi specifiche, che noi ci proponiamo di studiare in alcuni lati.

Noi dobbiamo quindi studiare ciò che pone il soggetto come tale, ma d’altronde anche il modo con il quale il soggetto stesso produca poi, sebbene non immediatamente per sé, le condizioni che pongono socialmente l’esistenza di tali fenomeni, sicché anch’esse sono effettivamente prodotte da qualcosa e non siano puramente “date”. La circolarità di presupposizione e posizione è una caratteristica della società, perché siccome essa non è implicata necessariamente nell’esistenza del cosmo, è emersa e deve mantenersi ri-producendosi, ossia producendo di nuovo sé stessa, ossia nessun elemento sociale è fondamentalmente dato in senso assoluto ma è, bensì, prodotto. Nella riproduzione della società l’aspetto materiale è quello più determinante, ma non unico e per questo l’analisi di altri fattori si rivela imprescindibile.

 

Presupposto-posto

Finora, quindi, abbiamo mostrato come il soggetto e l’oggetto siano posti, e non punti di partenza (come invece sostengono gli esistenzialisti, i kantiani, i positivisti…), quindi storicamente variabili in base alle situazioni concrete che producono esperienze, conoscenze e mezzi del soggetto, ma allo stesso tempo la situazione oggettiva che è data in un certo modo ed evolve secondo la propria logica e tramite l’interazione della società con la natura e con la propria storia. Questo “campo” della totalità è posto socialmente: questo è uno dei messaggi fondamentali di Marx. Nell’Ideologia Tedesca, infatti, egli parla di come gli uomini siano necessariamente radicati non solo fisicamente ma anche a livello di forme di coscienza, conoscenze ecc. nel modo di produzione e dalla formazione economico-social-culturale complessiva ad esso compatibile in cui vivono. [Per una discussione sulla necessità del comunismo vedi Appendice ].

È lo specifico rapporto sociale a strutturare la coscienza: l’”arretramento delle barriere naturali” ad opera delle sempre più complesse e progredite società umane, capaci di intervenire nell’ambiente al fine di modificarlo (es. costruzioni) o per estrarre risorse atte alla sopravvivenza della specie (es. petrolio per far muovere le macchine e produrre energia elettrica, legna per scaldare le case, acciaio ecc. per utensili e macchinari produttivi) ovviamente non esenta dallo studio delle leggi della natura, ma aumenta proporzionalmente il grado di importanza delle leggi specificamente sociali per lo studio della società. Ciò da intendere in due tagli fondamentali. Il primo è che la società è più del mero stato delle forze produttive, perché di per loro le forze produttive non servono a nulla se non usate, e infatti vengono usate ma in modi specifici, i modi di produzione appunto: il modo specifico di produzione e il suo funzionamento sono i nodi nevralgici per la sopravvivenza della società, e problemi in quella sfera mandano in sofferenza tutti gli altri normali meccanismi della vita; quindi la società, per quanto primitiva, piccola ed effettivamente “succube” del suo ambiente naturale (predatori, maltempo, freddo) non è comunque immediatamente condizionata dai suoi mezzi, perché elabora metodi ed approcci per la sopravvivenza della stessa comunità, a partire dai rituali e dai rapporti di distribuzione del lavoro e dei suoi frutti, mediando il rapporto tra gli uomini e la loro sussistenza in modi specifici che vanno al di là del mero funzionamento dei loro mezzi di produzione.

Il secondo aspetto è che il ruolo del soggetto stesso è strutturato dalla società in cui è cresciuto e di cui partecipa: a seconda dei rapporti di produzione, è possibile che esistano determinate classi sociali derivanti dalle figure specifiche “prodotte” dai rapporti circa i mezzi di produzione; come, nel nostro caso, il rapporto tra borghesi e proletari, coloro che possiedono i mezzi di produzione e coloro che non li hanno, con valorizzazione del capitale secondo acquisto salariato di manodopera. Per non dilungarmi eccessivamente su questo punto che si può approfondire a volontà, mi limito a segnalare che ogni persona in società, qualsiasi figura sociale ricopra, dovranno avere a che fare con le sue strutture e interazioni specifiche, come nel modo di produzione capitalistico lo scambio, il salario, l’interesse, la divisione del lavoro, e nel modo di produzione schiavistico l’acquisto di schiavi, la guerra per procurarsene altri, eccetera, sottoinsieme di cui sono anche le interazioni specifiche tra le classi e le peculiari lotte che avvengono: ad esempio per noi la lotta per la giornata di lavoro più breve o la tassa patrimoniale, per gli antichi greci o romani per la scrittura delle leggi e il mantenimento di un limite comunitario all’accumulazione delle ricchezze.

Questi elementi specifici ci pongono un’enormità di aspetti da approfondire, per esempio uno studio di come una società possa andare in sofferenza a causa di un intoppo nel modo di produzione; se infatti vi è una produzione eccessiva di prodotti, nel modo di produzione capitalistico non è più possibile realizzare il valore che è incorporato nelle merci, perché esse non sono passate per lo scambio non servendo a nessuno: anche solo questo esempio mostra ai guru che riducono il concetto di “modo di produzione” a puro stato della tecnica che, nonostante le forze produttive siano ugualmente funzionanti in potenza, il sistema si inceppa perché è il rapporto sociale ad essere andato in corto[10]. Louis Althusser [11] chiarisce però che non si tratta soltanto di un rapporto sociale tra umani, tra capitalisti e proletari, ma tra capitalisti, proletari e i mezzi di produzione! L’intera società ruota intorno al loro uso in un determinato modo, e le condizioni di questo uso sono dettate dai rapporti di produzione, che poi vengono tenuti in vita con la propaganda, con le leggi o con la forza. Per questo motivo non si può ridurre la lotta di classe a “lotta tra ricchi e poveri”, perché essa è una lotta tra coloro che possiedono i mezzi di produzione e coloro che non li possiedono: sono le condizioni fondamentali di questo possesso e uso a strutturare il modo di produzione. Esso però è un rapporto puramente sociale, seppure sia tra persone e il capitale, perché i soggetti sono realmente soltanto gli uomini, e il capitale è l’oggetto del rapporto; dice Marx:

Quando perciò Galiani scrive: «La ricchezza è una ragione fra due persone», che è quanto dire: Il valore è un rapporto fra uomini, avrebbe dovuto aggiungere: nascosta sotto un involucro di cose.

(K. Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Capitolo I, Paragrafo 4, pag. 152, nota di Marx, sottolineature mie)

 

La mediazione dell’etica

Non abbiamo però ancora affrontato come effettivamente l’uomo interpreti i suoi bisogni e agisca realmente. Lukács ce lo dice nei suoi Prolegomeni:

Ogni posizione teleologica contiene una valutazione. Tenersi o consegnare il denaro trovato, nell’esempio fatto prima, implica per un verso la presa di posizione valutativa circa il problema se il divieto sociale (giuridico) debba o no essere osservato, ma anche, al di là di questo e in connessione, la valutazione soggettiva circa il problema se io (essere umano X oppure Y) debba agire nel caso dato in conformità a questa o a quella valutazione. […] Le interrelazioni di tali componenti con quell’essere umano come unità formano ciò che nella vita quotidiana a giusta ragione siamo usi chiamare carattere, personalità del singolo.

[Il nudo – e perciò estremamente incompiuto – essere dei valori] consiste, in prima istanza, nel fatto che un numero in costante aumento di modi di reagire fra loro estremamente eterogenei si unisce in un sistema gerarchico, in sé funzionante praticamente, dal punto di vista della riproduzione il più possibile efficace (per questo tendente all’omogeneità) del rispettivo essere umano il quale viene così socialmente costretto a diventare individualità. Anche qui la gerarchia ha un carattere che si connette al valore solo in quanto la eterogeneità degli impulsi di avvio, la loro contraddittorietà, che emerge spesso nella pratica, costringe l’essere umano in questione a fare una scelta in ciascuna determinata prassi, nelle date circostanze, fra le loro divergenti o contrapposte esigenze, a subordinare l’un tipo di reazioni all’altro, ecc. Fuori da una tale tendenza all’unità nelle sue decisioni pratiche, nessun essere umano in una società in qualche misura evoluta potrebbe pervenire a una condotta di vita anche solo approssimativamente funzionante.

(György Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, PGreco, 2012, Capitolo 2, pagg. 58-59)

È interessante constatare come appunto sia l’elevato grado di socializzazione a produrre lo sviluppo dell’individualità, intesa come “modo di essere peculiare del soggetto peculiare”. In termini generali, la scelta valutata tra alternative è il modo in cui l’uomo agisce realmente nel mondo, anche se spesso per forza di abitudine agiamo automaticamente e lasciando tale processo sullo sfondo, più o meno consapevole, della nostra vita. La valutazione e la scelta, inoltre, non per forza sono consapevoli, ma possono anche non essere razionali: l’estrema repulsione di un aracnofobico nei confronti dei ragni non è dovuta ad un effettivo pericolo fisico immediato, oppure ad esperienze in cui sono morti o si sono fatti estremamente male parenti o amici (perlomeno per noi fortunati abitanti di zone non tropicali), eppure è perfettamente oggettiva e determinante nei suoi comportamenti nei loro confronti.

Ma come sosteniamo a buon ragione, tali valori sono prodotti e non puramente dati, tanto che l’interrogazione sui fattori che li producono è fruttuosa e importante perché ci dà elementi in più per comprendere le azioni reali degli uomini. Un ambito di studio interessante, pertanto, sarebbe l’assiologia (ovvero studio dei valori), ma solo se corredata e fondata in un’assiogenesi (genesi dei valori), L’ambito economico è quello che influenza più profondamente e sommessamente la vita quotidiana, e inoltre è lo spazio di possibilità sul quale poggia la libera attività, quella etica. Lukács trae alcune conseguenze di quanto detto nell’ambito della lotta di classe:

L’acquisto di maggior efficacia immediata del metodo marxiano, quella della lotta di classe vista come forza motrice reale dello sviluppo sociale […] non può venir compreso appieno se a sua volta non si comprende che tutte le decisioni da cui sorge l’individualità umana in quanto tale, come superamento della mera singolarità, sono momenti reali valutanti e valutati del processo complessivo. […] È lo sviluppo economico oggettivo che trasforma una massa di popolazione in lavoratori creando per essi situazioni comuni, interessi comuni. Così però la classe in tal modo formatasi è bensì «già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per sé stessa». Solo nella lotta, la cui genesi immediata non può essere compresa senza la continua presenza di decisioni alternative di singoli uomini, si costituisce ciò che Marx giustamente indica come «classe per sé stessa». Solo a partire di qui è possibile una lotta davvero dispiegata, una lotta politica, […] dove naturalmente va almeno tenuta presente la realtà fondativa per cui ognuna di queste decisioni alternative rimane una decisione suscitata e in definitiva, essendo esso il suo unico campo d’azione reale, determinata dall’essere economico.

(György Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, PGreco, 2012, Capitolo 2, pagg. 61-62)

 

Un breve approfondimento sul tema delle ideologie

Ci possiamo ora ricollegare a qualcosa che abbiamo lasciato da parte nell’articolo precedente, in particolare nelle sezioni 2 e 3 in cui ho trattato del rapporto soggetto-oggetto entro l’oggettivo ambito sociale e della produzione della coscienza in esso. L’uomo è integrato in processi sociali, vive entro di essi, e ne percepisce le condizioni di esecuzione, eventualmente giustificandole o meno, lottando per il loro mantenimento o meno. Il modo stesso in cui un soggetto è “gettato” alla nascita nella società è posto dalla società stessa, ed è quindi modificabile (anche se ovviamente cambiamenti del genere presuppongono un agire che va oltre quello individuale). La stessa educazione è sociale (per definizione l’uomo nei suoi primi anni di vita è incapace a vivere in autonomia, per poche capacità fisiche, capacità morali ancora non sviluppate e conoscenze insufficienti alla vita autonoma), come pure poi la vita e il lavoro.

Lo “stadio logico” dell’individuo radicalmente solo e isolato presente nello Stato di Natura di Rousseau non solo non è mai esistito, ma non può nemmeno esistere: sia perché un uomo da solo non si basta per vivere con agio, sia perché un bimbo deve nascere e crescere in un contesto sociale, e non à-là Libro della Giungla o mito di Romolo e Remo, sia perché una vita esclusivamente individuale è meno sicura ed efficace dal punto di vista della sopravvivenza. Secondo Rousseau, l’uomo per un motivo non specificato ad un certo punto comincia ad incontrare con crescente frequenza altri uomini, fino a cominciare a viverci insieme e ad abituarsi alla vita in comunità, dando vita quindi alla società e, eventualmente, alla sua regolamentazione e tutela della libertà di ciascuno tramite il Contratto Sociale eccetera. Il problema, rilevano Marx e Lukács, sta tanto nell’aspetto “logico” quanto quello “cronologico” della tesi per cui l’individuo preceda la società: l’individualità è una forma di esistenza dell’uomo che ha possibilità storicamente determinata, siccome solo un alto grado di socializzazione rende possibile la specificazione del singolo in tanti ambiti contemporaneamente (come per esempio la musica, le culture, il cibo, il vestiario, i profumi, …), cui denominatore e riunificatore è l’individuo, tale proprio perché può dividersi. Del resto, già Marx nell’Introduzione ai Grundrisse sostiene che:

L’uomo è nel senso più letterale del termine uno ζῷον πολιτικόν [zōon politikòn, un animale politico, della polis], non solo un animale sociale, bensì un animale che può isolarsi solo nella società. La produzione dell’individuo isolato all’esterno della società – una rarità, un fatto che può effettivamente accadere a un individuo civilizzato che il caso ha condotto in un luogo selvaggio, a un individuo che in sé possiede già dinamicamente le forze sociali – è un’assurdità [Unding] pari al formarsi di una lingua senza che esistano individui che vivano e parlino assieme.

(Karl Marx, Lineamenti fondamentali della Critica dell’Economia Politica, PGreco, 2012, Volume I, Introduzione, pag. 6) [Per riferimenti su altri testi, righe 18-27, pagina 6, Quaderno M]

E su tale scorta anche Lukács:

Predominio della socialità nei processi di riproduzione significa però differenziazione e pluralità socio-spontanee nelle occupazioni pratiche degli uomini. Quando lo sviluppo di questo processo sociale di riproduzione fa sì, per esempio, che venga introdotta una regolazione giuridica circa i tipi permessi e i tipi vietati di prassi, si verifica «da sé» una larga differenziazione fra gli uomini coinvolti: che possono approvare o respingere tale regolazione, assoggettarlesi convinti o acriticamente, possono all’esterno rispettare le prescrizioni ma tentare di eluderle quando si tratta di sé, oppure agire apertamente – con diversi mezzi – contro di esse ecc. […]

Quanto più una società è evoluta sotto il profilo sociale, tanto più numerose sono le decisioni in dettaglio che essa richiede da ciascuno dei suoi membri e in tutte le sfere della vita, per cui si possono avere settori oggettivamente vicini che presentano grosse diversità nel tipo di reazione richiesta. Si pensi al commercio e alla Borsa, al comportamento dei bambini in casa e a scuola, ecc.

(György Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, PGreco, 2012, Capitolo 2, pag. 54)

Il fatto che l’individuo esista soltanto socialmente non toglie che effettivamente appaia come indipendente e originario: come con il bastone immerso nell’acqua, sapere come e perché il bastone che di suo è intero ci appaia spezzato non toglie il fatto che esso effettivamente appaia spezzato. Bisogna quindi andare al di là di questa apparenza, studiare il motore che la produce a nostra insaputa.

Abbiamo detto dall’inizio che l’uomo ha la peculiarità di interagire con l’ambiente in modo sensato perché teleologico, ma anche che questo avviene con la necessaria mediazione della coscienza:

Nell’evoluzione della società emergono in misura crescente posizioni teleologiche che non servono solo alla rielaborazione della natura per scopi umani – come nel processo lavorativo, ma che agiscono direttamente o indirettamente su rapporti ed istituzioni sociali o perfino sul comportamento umano, quando non puntino addirittura ad influenzare direttamente gli uomini. Tali posizioni diventano sempre più importanti nel rapido avanzare della società. «Basti notare, come il campo di applicazione e l’importanza di costume, abitudine, tradizione, educazione ecc., che poggiano senza alcuna eccezione su tali posizioni teleologiche, aumentino continuamente con lo sviluppo delle forze di produzione»

[…]

L’incontro dell’uomo con il suo ambiente non può essere immaginato come un susseguirsi lineare di effetto e reazione. L’uomo trasforma piuttosto i problemi che emergono dalla sua realtà in quesiti, ai quali dà una risposta. Ma proprio nel quesito entrano catene di associazioni socialmente molto ramificate e filtrate soggettivamente.

(Eric Hahn, Il problema dell’ideologia nell’Ontologia dell’Essere Sociale, disponibile su quadernimaterialisti)

Siccome il processo lavorativo diventa sempre più complesso e sempre più complessa diventa la formulazione e la collocazione di uno scopo, aumenta la necessità di gestire in modo macroscopico e complessivo l’uso delle forze produttive, ma questo ha modo di realizzarsi in primis “dentro” gli individui piuttosto che come coercizione dall’esterno [12] :

Per Lukács da questa molteplicità di fattori condizionanti risulta la necessità oggettiva di regolatori sociali, capaci di attuare una certa corrispondenza tra i contenuti delle posizioni teleologiche e le «esigenze sociali, che di volta in volta assumono carattere di primaria importanza». Ciò non può avvenire tramite norme o ingiunzioni dirette, bensì tramite la mediazione pratico-spirituale tra interessi dei singoli e della collettività. «Per questo esiste […] l’ideologia, così come la intende Marx». In questo senso l’ideologia è d’importanza vitale «per il funzionamento di qualsivoglia società».[…] Ideologia è quella forma di assimilazione della realtà dal punto di vista concettuale che serve a rendere consapevoli la prassi sociale, i conflitti sociali, affinché essi possano essere efficacemente risolti. La nascita di ideologie presuppone innanzitutto strutture sociali in cui agiscano gruppi diversi con interessi opposti e che aspirino ad imporli alla società come interessi di tutti.

(Eric Hahn, Il problema dell’ideologia nell’Ontologia dell’Essere Sociale, disponibile su quadernimaterialisti)

Infatti, vi sono importanti ricadute del meccanismo per il quale

L’uomo singolo, cioè, che mediante le decisioni alternative della sua prassi mira a riprodurre sé stesso socialmente, nella stragrande maggioranza dei casi deve anche – non importa con quanta consapevolezza – prendere posizioni su come s’immagina presente e futuro della società nella quale egli con tali decisioni mediatamente si riproduce da individuo, su come la desidera in termini di essere, su quale direzione del processo corrisponde alle sue idee circa il decorso più favorevole per la sua vita e quella del suo prossimo.

(György Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, PGreco, 2012, Capitolo 2, pag. 63)

Finora abbiamo parlato in termini generali, ma in campo più specificamente politico sono le classi a tentare di “attuare una certa corrispondenza tra i contenuti delle posizioni teleologiche e le [loro] esigenze sociali”, formulando le domande che sorgono dai problemi del loro vivere e lavorando ad una risposta, teorico-progettuale e pratica. Notiamo en passant come non è possibile avere un interesse complessivo della società sinché esisteranno classi antagoniste nel suo seno. In ogni caso, Lenin è molto chiaro sull’importanza della teoria nella definizione del progetto politico e della conseguente prassi (e risultati) reali:

Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. […] Il nostro partito è ancora in via di formazione, sta ancora definendo la sua fisionomia ed è ben lungi dell’aver saldato i conti con le altre correnti del pensiero rivoluzionario, che minacciano di far deviare il movimento dalla giusta via. […] In siffatte condizioni, un errore, che a prima vista sembra “senza importanza”, può avere le più deplorevoli conseguenze; e bisogna essere ben miopi per giudicare inopportune e superflue le discussioni di frazione e la rigorosa definizione delle varie tendenze. Dal consolidarsi dell’una piuttosto che dell’altra “tendenza” può dipendere per lunghi anni l’avvenire della socialdemocrazia russa. In secondo luogo, il movimento socialdemocratico è per sua stessa sostanza internazionale. […] Significa anche che in un paese giovane un movimento appena nato può avere successo solo se applica l’esperienza degli altri paesi. Ma per applicarla non basta conoscerla o limitarsi a copiare le ultime risoluzioni. Bisogna saper valutare criticamente e verificare da se stessi questa esperienza.

[…]

Solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può adempiere la funzione di combattente di avanguardia.

(V. I. Lenin, Che Fare ?, Lotta Comunista, Milano, 2015, Capitolo I, paragrafo d, pag. 65)

La teoria non è soltanto il mezzo tecnico tramite il quale si articola l’azione in senso stretto, bensì è la struttura di fondo che permette l’elaborazione di risposte ai problemi pratici; che sia nei confronti della pratica di un complesso già organizzato come un partito, o di persone che percepiscono i problemi ma non hanno ancora formulato la domanda né provveduto a lavorare verso una risposta e soluzione. Un movimento politico non può fondarsi “sul nulla”, o egli stesso “creare” da zero le sue basi; ciò sarebbe impossibile. Al contrario, esso è l’articolazione consapevole di un progetto trasformativo della realtà, che avviene tramite il duplice atto di elaborare risposte alle domande per diffonderle e quello di mobilitare le forze disponibili per la realizzazione di tali progetti, per rispondere nella realtà alla realtà che poneva le domande.

Ma per questo motivo la lotta nella teoria è importante: perché, come Lenin instancabilmente mette in evidenza nel Che Fare, i dissidi teorici non sono esclusivamente operativi, ma anche più generali, ne va del progetto stesso della società futura che si vuole instaurare. Infatti, nella sua lotta al tradeunionismo economicista, egli non evidenzia soltanto che la pura lotta spontaneista entro le fabbriche di sostegno ai movimenti di rivendicazioni dei lavoratori non può funzionare tanto quanto una avanguardia di rivoluzionari di professione completamente dediti, informati, con esperienza organizzativa e nella lotta alle forze di polizia e nella propaganda; ma riafferma più e più volte come entro la lotta rivendicativa si può soltanto, al massimo, ottenere migliori condizioni di lavoro, ma né si istiga una prassi né quindi si rende fecondo teoricamente il movimento per una trasformazione complessiva della società, che va oltre alla lotta rivendicativa “interna” al modo di produzione capitalistico, il muoversi entro il suo letto, entro i suoi spazi.

Lenin mette in guardia, nel suo testo, non solo nei confronti di alcuni espedienti pratici (es. il terrorismo, l’agitazione movimentista, la proliferazione di giornali locali al posto di concentrarsi su una pubblicazione principale a livello nazionale), ma anche contro il progetto stesso di tali movimenti: qualcuno che legge il testo può ora considerare nelle loro conseguenze determinate tendenze entro la socialdemocrazia russa.

Ma Lenin non si ferma qui: sostiene anche che il tempo per la chiarificazione teorica interna al partito è quello della relativa calma, in cui vi è sia modo sia necessità di distinguersi e di autoanalizzarsi; quando la situazione politica si farà più calda, infatti, sarà ormai troppo tardi per eventuali passi indietro. La tattica la si cambia rapidamente e senza eccessive conseguenze interne, la strategia (che è invece un’elaborazione progettuale su lunghi periodi) no, perlomeno non senza gravi ripercussioni, confusione eccetera.

 

Produzione reale

Qual è dunque il ruolo attivo del soggetto ? Ossia, in che modo egli produce la società ? Ossia, in che modo la sua produttrice ha concretamente esistenza grazie alla sua produzione, e in che modo egli stesso assicura la propria esistenza in primis, e il resto della sua vita in secundis ? A questo scopo bisogna studiare in modo attento le varie determinazioni del rapporto tra essere umano e il suo mondo, in particolare tre elementi: altre persone, mezzi di produzione e mondo in generale (natura inclusa). Tutti questi rapporti sono essenziali, ma non avvengono in modo immediato, perché l’uomo inizialmente è puramente gettato (come abbiamo già visto nella sezione Tra Soggetto e Oggetto del presente scritto), e progressivamente acquista forze e capacità che gli servono per intrattenere rapporti con i fattori menzionati. Ma cosa ha realmente formazione con la crescita?

Oltre alla mera forza e statura fisica, per la quale sono buoni anche i muli, vi è lo sviluppo di capacità di parola, di pensiero e di relazione sociale. Questi tre fattori, seppure possono non esaurire completamente ciò che cerchiamo, sono sicuramente fondamentali per la capacità reale di un essere umano di vivere in società e quindi nel mondo. Alla base di tutti questi, anticipo, vi è tra le altre cose il fondamentale processo (e dunque capacità del soggetto di) astrazione; altro aspetto fondamentale è, come già anticipato nelle sezioni precedenti, quello della valutazione; altro ancora è quello del legame. Questi elementi sono all’istanza presente soltanto portati all’attenzione, e la dimostrazione della loro rilevanza (e la determinazione delle loro caratteristiche e relazioni) saranno oggetto di studi futuri. Ma il motivo per cui urge uno studio di tali fattori è che siccome l’uomo non agisce ciecamente ma agisce con intenzione e con progetto (come abbiamo già visto nella sezione Soggetto del presente scritto), lo stesso studio del modo in cui l’uomo è attivo porta necessariamente allo studio del perché e del come l’uomo sia attivo. Interrogandosi su che cosa l’uomo faccia, sul perché voglia fare specificamente ciò che fa, bisogna necessariamente passare per lo studio del modo di produzione vigente che struttura in modo fondamentale sia le condizioni reali dell’esistenza sia in modo più complessivo i problemi che l’uomo deve affrontare e quindi sui quali si interroga e cerca delle risposte; i problemi posti dal modo di produzione in senso immediato sono imprescindibili, mentre altri sono aleatori e, sebbene esistano per forza, non sono per forza comuni ai membri di una classe:

Il regno della libertà comincia in effetti soltanto là dove cessa il lavoro determinato dal bisogno e dalla convenienza esterna; risiede quindi, per la natura stessa della cosa, oltre la sfera della produzione materiale in senso proprio.

(Karl Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Volume III, Capitolo 48°, paragrafo III, pag. 1011)

Aggiungiamo anche:

Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più si può abbreviare la giornata lavorativa, tanto più l’intensità del lavoro cresce anche con la sua economia, che comprende non solo il risparmio dei mezzi di produzione, ma anche l’esclusione di ogni lavoro inutile.

(Karl Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Volume I, Capitolo XV, paragrafo IV, pag. 682)

E un bel passaggio di Lenin:

La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre più o meno quella che fu nelle repubbliche dell’Antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in conseguenza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria che «hanno altro pel capo che la democrazia», «che la politica», sicché nel corso ordinario e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale.

(Lenin, Stato e Rivoluzione, Lotta Comunista, 2019, Capitolo V, pag. 100)

Siccome è importante avere coscienza dei vincoli necessari nell’attività del soggetto, come è ovviamente il caso della sopravvivenza e, nell’attuale modo di produzione, il lavoro salariato per la maggior parte della popolazione, per uno studio esauriente della sua attività bisogna considerare primariamente ma non esclusivamente tale rapporto. Ci troviamo nella peculiare situazione in cui oggettivamente nella vita del soggetto il ruolo del modo di produzione, sia dal lato della vita del soggetto in senso più stretto (dover lavorare, comprare ecc.), sia dal lato del mondo strutturato in cui vive il soggetto (in senso materiale diretto come i collegamenti specifici tra città, o le lotte di classe organizzate, ma anche in senso più culturale sotto forma di informazione, propaganda politica, filosofia…); per questo motivo il concetto e le determinazioni specifiche del modo di produzione sono fondamentali, e il lavoro di Marx in questo ambito è seminale anche se incompleto.

 

La complessività dell’esperienza umana

L’esperienza immediata dell’uomo della sua quotidianità e della sua individualità è, in primis, non un punto di partenza quanto un punto d’arrivo, un prodotto ultimo della circuiteria sociale complessiva, di cui però si costituisce essa stessa. Essa è il luogo delle realtà ed esigenze quotidiane di cui vive la popolazione, specialmente il lavoratore salariato che deve mantenere coloro a cui tiene, inclusi sé e la famiglia. In tale ambito “prendono realtà” per la persona qualunque i movimenti profondi della società, gli si palesano, si manifestano, appaiono improvvisamente anche se si sono svolti prevalentemente alle sue spalle per lungo tempo, si sono preparati a sua insaputa, ed emergono poi. Inoltre la vita quotidiana è il luogo dell’abitudine, dove si formano i valori, che plasmano in silenzio la vita delle persone, come ben sappiamo “coi piccoli gesti”, che sono anch’essi una manifestazione specifica (e in quanto specifica ricca di contenuto ad esso peculiare diverso da altre manifestazioni) di movimenti sociali, sia nei termini di reazione “dal basso” a costanti quotidiane o ad eventi generali, sia nei termini di quanto e come viene recepita l’influenza di media organizzati, quanto e come questo porta a determinati tipi di prassi, in relazione alle possibilità e in secondo ordine alle opportunità concrete di attività collettiva.

Questa è la grande scommessa che ci poniamo: siccome ci interessa ciò che le persone fanno, e siccome l’azione la fa scaturire a) il desiderio di cambiamento, b) una corretta conoscenza e comprensione della logica della realtà e della situazione concreta, c) un progetto di cambiamento e ultima ma non ultima d) la possibilità materiale di farlo, bisogna rivalutare il ruolo della cosiddetta “sovrastruttura” morale, ideologica, teorica. Abbiamo dimostrato, infatti, nell’articolo precedente Per un Ampliamento della Concezione Materialistica della Storia e in quello presente, come il soggetto sia prodotto in tutta la sua complessività dalla vita della società, produttrice ma anche prodotta dagli stessi soggetti. Questo però ha per sua necessità direzioni che non sono decise soltanto dal movente economico, ma nei contenuti (e non solo nelle forme!), nell’estensione ecc.

Questo va contro qualsiasi economicismo in senso stretto, ossia nella supposta determinazione della vita da parte dell’economico, che le manifestazioni della vita siano in un certo senso manifestazioni “allargate” del movimento dell’economia e in tal senso, dopo qualche transfigurazione, riducibili a quelle. L’introduzione della presa di coscienza della realtà è l’elemento chiave che rende assurda una prospettiva simile, perché l’”economia” non prende decisioni, sono gli uomini a farlo, e dunque le decisioni e il corso della vita delle persone e della società non è immediatamente economica; e non si può avere una “pura determinazione economica” nemmeno se vi fosse una trasfigurazione diretta nella mente delle persone, perché il fattore specificamente economico non è l’unico che plasma la vita delle persone, anche se è quello più “fondamentale”, sia in senso di priorità ontologica, sia in senso di relativo occultamento.

Engels infatti, nella lettera del 25 gennaio 1894 a Borgius, ci dice che «Gli uomini fanno la loro storia, ma in un ambito dato e condizionante, fondandosi su relazioni effettive e preesistenti, tra le quali i rapporti economici, al di là di quanto essi siano influenzati da rapporti di ordine politico o ideologico, sono in ultimo quelli decisivi»[13]. Quello che vogliamo fare noi è cogliere il corretto rapporto in cui stanno la base, il fondamento, e il resto degli elementi necessari ma meno determinanti, nell’azione degli uomini.

Quanto si propone è, dunque, uno studio rigoroso di come l’azione venga ad essere, con specifica attenzione all’azione politica. Questo però non rivolto soltanto alla formulazione di modi più efficaci per radicare politicamente le persone, ma anche per non lasciare al caso elementi che non devono esserlo, grazie ad una teoria effettivamente sviluppata (e non un taglia e incolla di qualche stralcio, allusione e accenno in Marx ed Engels). Un esempio è partire da quanto pianificato da Marx per la sua Critica dell’Economia Politica:

La suddivisione della materia deve, evidentemente, essere fatta in modo da trattare: 1) Le determinazioni generali astratte che come tali sono comuni più o meno a tutte le forme di società, ma nel senso chiarito precedentemente. 2) Le categorie che costituiscono l’articolazione interna della società borghese e su cui poggiano le classi fondamentali. Capitale, lavoro salariato, proprietà fondiaria. Il loro rapporto reciproco. Città e campagna. Le tre grandi classi sociali. Scambio tra esse. Circolazione. Credito (privato). 3) Sintesi della società borghese nella forma dello stato. Considerata in relazione a se stessa. Le classi “improduttive”. Imposte. Debito di stato. Credito pubblico. La popolazione. Le colonie. Emigrazione. 4) Rapporto internazionale della produzione. Divisione internazionale del lavoro. Scambio internazionale. Esportazioni e importazioni. Corso dei cambi. 5) Il mercato mondiale e le crisi.

(Karl Marx, Lineamenti fondamentali della Critica dell’Economia Politica, PGreco, 2012, Volume I, Introduzione, paragrafo 3, pag. 34) [Per riferimenti su altri testi, da pag. 28 riga 37 a pag. 29 riga 7 del Quaderno M]

Per fare qualche esempio, sarebbe molto utile e interessante svolgere uno studio sistematico sullo Stato (in senso moderno-contemporaneo), quindi sull’ordine politico statuale capitalistico nel quale, paragonabilmente a come il modo di produzione futuro si intravede dentro e oltre la nebbia del modo di produzione capitalistico, si prepara realmente un ordine politico che dovrà farsi carico di una produzione pianificata e non anarchica come quella del mercato, sicché contemporaneamente alle condizioni per un modo di produzione diverso si danno le condizioni per una politica e gestione sociale ed economica diversa (che però verrebbero per noi alla luce solo tramite uno studio); oppure sul concetto specifico di modo di produzione, tramite una profonda ricerca delle «determinazioni generali astratte che come tali sono comuni più o meno a tutte le forme di società» e quindi, sarebbe anche molto proficuo, tramite uno studio sistematico di un modo di produzione diverso da quello capitalistico; oppure svolgere uno studio sistematico delle classi sociali (sulle quali il povero Marx ci ha consegnato le due pagine da Engels raccolte come Capitolo 52° del Libro III del Capitale), oppure ancora, come brevemente abbozzato nel presente scritto, sulle caratteristiche del soggetto (sia esso individuale che sociale-collettivo) prodotto e produttore tramite lo studio del rapporto tra azione e pensiero, dunque in generale nel circolo che è la vita in quanto azione orientata.

Siccome la realtà, per sua bellezza, è complessa, uno studio parziale inevitabilmente andrebbe a toccare altri ambiti: per esempio, nel Capitale di Marx si enucleano le leggi del “regno della necessità”, nel quale l’uomo estrinseca la parte più importante della sua attività, in cui ha fondamento il “regno della libertà”, come pure in uno studio specifico delle classi (in quanto categorie sociali con determinati tipi di esperienze condivise), di elementi trans-storici (con i quali uno studio di epoche precapitalistiche, sia nella struttura che nella sovrastruttura, sarebbe assolutamente di aiuto; penso qui al lungo testo sulle Formazioni Precapitalistiche e ai vari riferimenti nel Capitale, nel Libro I ma ancor più nel Libro III), dell’apparato statale (compresi i famosi apparati ideologici di Stato studiati da Althusser, con gli studi di Gramsci, …) eccetera. Questo non solo significherebbe che si fonda in altri campi in cui effettivamente sarebbe straordinario avere ricco materiale, ma anche che contribuirebbe a questi ambiti stessi.

Concludiamo quindi questo articolo ricapitolando alcuni punti fondamentali. Innanzitutto, la peculiarità dell’essere umano è la sua essenza generica composita, una “genericità non più muta” come la chiamerà Lukács, ossia una essenza generica che assume tratti specifici a seconda delle condizioni storico-economico-sociali (come la “produzione in generale” è un concetto che poi assume tratti specifici a seconda del modo di produzione specifico), che tali tratti specifici li assume in quanto l’uomo si adatta attivamente al mondo in cui egli è inizialmente gettato, e nel quale egli si muove in una collaborazione di fattori a) di desiderio, l’impulso del moto, b) il progetto, ossia la “risposta” alla “domanda” del desiderio, tutta da realizzare, c) un impianto teorico che permetta di articolare il percorso verso la realizzazione della risposta al desiderio e d) gli elementi necessari per realizzare quanto progettato. Ognuno di questi fattori non viene originariamente dall’individuo ma dal suo “mondo”, in esso raccolte e aventi espressione nuova. Le esperienze che colorano la sua vita sono prodotto in particolare dallo specifico mondo sociale in cui si trova, strutturato dai rapporti sociali circa i fattori produttori di tale mondo, ossia intorno il modo in cui la società perpetua la sua esistenza, il suo imprescindibile [14]. È socialmente che prendono forma le situazioni in cui il soggetto impara ciò che gli fa del bene e ciò che gli fa del male, ciò che è bello e ciò che è brutto, con risultanti bisogni che cercano risoluzione; è socialmente che prendono forma le risposte a tali bisogni con un tramite etico-valutativo generale e di lungo termine, particolare e di breve termine, in un’unità coerente; è socialmente che si costituiscono i mezzi tramite i quali i fini (più specificamente i progetti) hanno modo di realizzazione, nell’azione organizzata di uomini e mezzi (come processo lavorativo in senso stretto, o processo produttivo in senso lato, ossia effettivo, che produce effetti nel mondo); è socialmente che si produce la conoscenza necessaria per effettivamente mettere in azione i mezzi produttivi in senso lato per dare realtà ai progetti.

In questo modo, l’essere sociale non solo è prodotto, ma come abbiamo visto è anche produttore della stessa vita sociale tramite l’atto più importante di tutti, il lavoro. Cito brevemente:

Come Marx ha mostrato, questo consiste in una posizione teleologica consapevolmente compiuta la quale, quando prenda le mosse da fatti correttamente conosciuti in senso pratico e correttamente li utilizzi, è in grado di porre in vita processi causali, di modificare processi, oggetti, ecc. dell’essere che altrimenti funzionerebbero in modo solo spontaneo, perfino di rendere essenti oggettualità che prima del lavoro neppure esistevano. […] È il lavoro, quindi, che introduce nell’essere l’unitaria interrelazione a fondamento dualistico fra teleologia e causalità. Prima che esso facesse la sua apparizione c’erano nella natura semplicemente processi causali. In termini realmente ontologici, dunque, questi processi sono presenti soltanto nel lavoro e nelle sue conseguenze sociali, nella prassi sociale. Il modello della posizione teleologica trasformatrice di realtà diviene così la base ontologica di ogni prassi umana, vale a dire sociale.

(György Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, PGreco, 2012, Capitolo 1, pag. 11)

Questo ha valenza per tutti i livelli della società, siano essi quelli più immediatamente legati alla sopravvivenza fisica, che quelli più apparentemente “persi tra le nuvole”. Come abbiamo visto, anche attività da “persi tra le nuvole” sono fondamentali, e del resto credo sia sufficientemente eloquente il quarto paragrafo del Capitolo I del Che Fare ? di Lenin, ma adduco come esempio l’interezza di tale libro, e anche Stato e Rivoluzione, La Rivoluzione Proletaria e il Rinnegato Kautsky, L’Estremismo, il suo “perso tra le nuvole” Materialismo ed Empiriocriticismo eccetera; la pedanteria con la quantità di esempi e il particolare riferimento a Lenin è dovuto al fatto che esiste una varietà di posizioni che insiste con un “praticismo”, con un “applicare” cose di cui talvolta non si sono nemmeno sondate per completo le fondamenta, assunte a “sistema” quando lo stesso autore morì lasciando ad uno stato di incompletezza disarmante la sua opera. Chi ha orecchie per intendere intenda.

Alcuni ambiti degni di nota per comprendere meglio la realtà di oggi e quindi anche il futuro che ci aspetta, che ci si prepara davanti agli occhi e per certi versi è già qui, sebbene venga ad oggi soppresso[15], sono studi sul concetto di modo di produzione e di quelle famose «determinazioni generali astratte che come tali sono comuni più o meno a tutte le forme di società»[16], della totalità dell’attività umana (sicché pone problemi rilevanti per la transizione da modo di produzione capitalistico a modo di produzione associato, vedasi la Critica del Programma di Gotha[17] e la discussione di Lenin in Stato e Rivoluzione[18]) e dell’ordine politico attuale, quello Statuale in senso moderno, da conoscere sia per conoscere l’oggetto da contrastare in toto (e non in modo, per quanto fondamentale, “generico” cogliendone solo “l’essenza ultima”, quella di «organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra», con le parole di Lenin in Stato e Rivoluzione [v. Lotta Comunista, 2019, Milano, Capitolo I, paragrafo 1, a pag. 27], ma conoscendone anche le determinazioni) che per capire cosa esso ci pone della nuova società (ossia strumenti per la pianificazione e la gestione sociale del prodotto, istruzione, sanità organizzata in modo centralizzato, …). Si scusi la pedanteria, ma è per rimarcare che l’importanza di compiere questi studi essenziali e apparentemente “persi tra le nuvole” è ugualmente grande a quelli più impellenti per un movimento politico, ad esempio studi di politica ed economia internazionale “concreta” ma per questo motivo a basso livello di astrazione. Si tratta di problematizzare i fondamenti stessi delle teorie “spontanee” che sorgono con l’analisi quotidiana di tali fenomeni, non per buttarle via ma per sondare i loro fondamenti e princìpi e in tale modo fondarle in modo più saldo e coerente, arricchirle di contenuto e comprensione e tagliare i rami secchi e incoerenti con il sistema complessivo.

 

Appendice: la necessità di comunismo

Aggiungiamo una breve appendice per coloro che sostengono che il modo di produzione capitalistico è da difendere perché “insito nella natura umana”, ma anche quelle che sostengono la necessità di un suo superamento perché “contrario alla natura umana”. I primi sono completamente succubi delle apparenze e, talvolta, apologeti per vocazione e non per ignoranza. Al di là di quanto detto in precedenza sull’individualità, riporto qualche parola di Marx:

Il cacciatore e pescatore singolo e isolato con cui cominciano Smith e Ricardo rientrano tra le fantasie prive di immaginazione delle robinsonate del XVIII secolo […]. In questa società della libera concorrenza il singolo appare svincolato dai legami naturali ecc. che nelle precedenti epoche storiche ne fanno un accessorio di un conglomerato umano determinato, limitato. Ai profeti del XVIII secolo, sulle cui spalle Smith e Ricardo poggiano ancora completamente, questo individuo del XVIII secolo – che da un lato è il prodotto della dissoluzione delle forme sociali feudali, dall0altro delle forze produttive nuove sviluppatesi a partire dal XVI secolo – sta dinanzi agli occhi come un ideale che sarebbe esistito in passato. Non come un risultato storico, bensì come il punto d’avvio della storia. Poiché per individuo naturale, in conformità con la loro concezione della natura umana, essi non intendono un individuo che sorge storicamente, ma che invece è posto dalla natura stessa. […] Più torniamo indietro nella storia e più l’individuo, e quindi anche l’individuo che produce, ci appare non autonomo, parte di una totalità più vasta: dapprima ancora in modo del tutto naturale nella famiglia e nella famiglia allargata a tribù; più tardi nella comunità, sorta dal contrasto e dalla fusione delle tribù, nelle sue diverse forme. Solo nel XVIII secolo, nella “società civile”, le differenti forme dei nessi sociali si presentano al singolo come un puro mezzo per i suoi fini privati, come una necessità esteriore. Ma l’epoca che crea questo modo di vedere, il modo di vedere del singolo isolato, è proprio quella dei rapporti sociali (generali per questo modo di vedere) finora più sviluppati. L’uomo è nel senso più letterale del termine uno ζῷον πολιτικόν [zōon politikòn, un animale politico, della polis], non solo un animale sociale, bensì un animale che può isolarsi solo nella società. La produzione dell’individuo isolato all’esterno della società – una rarità, un fatto che può effettivamente accadere a un individuo civilizzato che il caso ha condotto in un luogo selvaggio, a un individuo che in sé possiede già dinamicamente le forze sociali – è un’assurdità [Unding] pari al formarsi di una lingua senza che esistano individui che vivano e parlino assieme.

(Karl Marx, Lineamenti fondamentali della Critica dell’Economia Politica, Introduzione, PGreco, 2012, Volume I, paragrafo 1, pagg. 5-6) [Per riferimenti su altri testi, pagg. 5-6, Quaderno M]

Ne parla estensivamente anche Lukács nei Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale:

Il marxismo non soltanto respinge sempre, dal punto di vista ontologico generale, un’individualità che pretenda di possedere originarietà ontologica e di determinare le basi della vita sociale, ma dimostra anche appunto che solamente un particolare stadio del processo evolutivo dell’umanità può produrre questo sviluppo della singolarità in individualità, che perciò quest’ultima è il risultato specifico del processo di trasformazione delle basi complessive dell’umanità, un prodotto particolare del processo totale, si fonda in questo e non è assolutamente una forma dell’essere che dia fondamento ontologico alla socialità.

[Più su nella pagina…] Nella tesi, da noi più volte ripresa [La sesta delle Tesi su Feuerbach], che definisce il genere umano come l’«insieme dei rapporti sociali» egli polemizza contro le conseguenze della concezione feuerbachiana dell’uomo: «L’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo», per cui accanto all’essere reale dell’individualità il genere comparirebbe come una mera struttura ideale, come una astrazione acquisita concettualmente.

(György Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, PGreco, 2012, Capitolo 2, pag. 84)

Riporto nuovamente la tesi:

Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà è l’insieme [ensemble] dei rapporti sociali.

Feuerbach, che non penetra nella critica di questa essenza reale, è perciò costretto:

    1. ad astrarre dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé, e a presupporre un individuo umano astratto – isolato;
    2. l’essenza può dunque essere concepita soltanto come “genere”, cioè come universalità interna, muta, che lega naturalmente molti individui.

(A cura di Enrico Donaggio e Peter Kammerer, Karl Marx – Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, Feltrinelli, 2015, Milano, Capitolo 2, pag. 44)

È chiaro insomma che un concetto feticistico come quello di un’individualità originaria cade al semplice esame della storicizzazione. Ma volendo anche difendere una visione “dinamica” in cui in realtà l’individualità è la più adeguata forma di esistenza umana, venuta ad essere insieme al modo di produzione più adeguato all’essenza umana, ovviamente il modo di produzione capitalistico per costoro (senza comprendere in che rapporto stiano queste due realtà), gli “ateissimi” e “scientifici” apologeti difenderebbero una visione della storia così teleologica da far arrossire anche la Bibbia. L’intero corso della storia effettivamente punterebbe al modo di produzione capitalistico come, nell’escatologia cristiana, dopo la morte di Cristo il mondo è una sorta di inter-regno prima del Paradiso terrestre (il modo di produzione capitalistico), con annesso Giudizio Universale (probabilmente la Rivoluzione Francese) e salvezza della carne (il “corpo glorioso” dell’individuo). Sostenere una così becera teleologia storica e puntare il dito contro la supposta “teleologia storica comunista” è un grande esercizio di bassezza intellettuale e comicità. Costoro, quando cercano di raccapezzarsi sul come possano esistere movimenti comunisti, giungono alla straordinaria conclusione che si tratta solamente di candidi utopisti che non hanno capito molto bene come funzionano le cose, e che inseguono sogni che da grandi capiranno essere irrealizzabili (sempre per la natura umana, NDR).

Arriviamo ora al secondo tema, ossia i comunisti che sostengono che il modo di produzione capitalistico sia “contrario alla natura umana”: essendo la natura umana composita, prodotta (anche se non in ultima istanza, ma ne abbiamo già parlato), sostenere che il comunismo sia “più conforme alla natura umana” non ha gran senso perché La Natura Umana non esiste in senso stretto, è qualcosa che si muove oltre l’esistenza specifica di un momento storico. Del resto, in questo modo non si starebbe di nuovo ricadendo in un utopismo e teleologismo, in cui quindi il comunismo è un risultato storicamente necessario in senso universale (e non solo per uscire dal modo di produzione capitalistico) perché “tutto sommato” tutti i rivolgimenti storici (dal Neolitico in avanti) porterebbero lì, e si fermerebbe arbitrariamente la Storia ad una fase perché è quella che ci piace di più. Se gli apologeti borghesi sono da combattere perché noi vogliamo mostrare che un’altra società è possibile, gli “apologeti comunisti” sono da combattere perché queste tesi sono errate e portano ad ulteriori errori, tra cui “collassismi”, “pseudo-religioni” e così via. In generale, i meccanicismi di tal specie sono terreno fertile per i più vari opportunismi.

È corretto invece sostenere che il modo di produzione capitalistico crea la necessità di comunismo, di espressione di qualcosa che si crea nel suo seno, al fine di liberare l’uomo dal soggiogamento, dall’insicurezza, dal conflitto inutile e dannoso e dalla solitudine; ma in questo modo non si sarebbe arrivati alla “fine dei tempi”, bensì come dice Marx:

I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica nel senso non di un antagonismo individuale, bensì di un antagonismo nascente dalle condizioni sociali di vita degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel grembo della società borghese creano nello stesso tempo le condizioni materiali per la soluzione di tale antagonismo. Con questa formazione sociale, perciò, si chiude la preistoria della società umana.

(Karl Marx, Per la Critica dell’Economia Politica, Prefazione, tratta da Il Capitale, UTET, 2013, Volume I, Appendice, pag. 1014)

Circa il modo in cui i rapporti borghesi preparino il comunismo allego qualche citazione che spiega in che modo ciò avvenga, pur non essendo questo il nostro tema principale. Marx, nel Libro III del Capitale (che ricordiamo essere sostanzialmente una preparazione alla pubblicazione da parte di Engels di materiali di studio e di bozze, per nulla un’opera in senso proprio) parla del processo complessivo della produzione capitalistica, e spesso fa degli excursus “verso il futuro” che bene ci fanno capire in che senso il comunismo si prepari nel modo di produzione capitalistico:

Si è visto che la crescente accumulazione del capitale implica una sua crescente concentrazione. Cresce in tal modo la potenza del capitale, cresce l’autonomizzazione delle condizioni sociali della produzione rispetto ai produttori effettivi, impersonata nel capitalista. Il capitale appare sempre più come una potenza sociale di cui il capitalista è funzionario e che è ormai priva di qualunque rapporto con ciò che può creare il lavoro di un singolo individuo; ma come una potenza sociale alienata, resasi autonoma, che si contrappone alla società e come cosa, e come potere del capitalista grazie a questa cosa. La contraddizione fra la potenza sociale generale che il capitale incarna, e il potere privato del capitalista singolo su queste condizioni sociali della produzione, assume forme sempre più stridenti e implica la dissoluzione finale di questo rapporto, in quanto, nello stesso tempo, implica la trasformazione radicale delle condizioni di produzione in condizioni di produzione sociali, generali e collettive. Questa trasformazione è il prodotto dello sviluppo delle forze produttive in seno al sistema di produzione capitalistico e del modo in cui questo sviluppo si compie.

(Karl Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Volume III, Capitolo XV, paragrafo 3, pag. 337)

Anche:

Che «anima del nostro sistema d’industria» non siano i capitalisti industriali, ma i managers industriali, lo notava già il signor Ure. Quanto al lato mercantile dell’impresa, se ne è già detto tutto il necessario nella sezione precedente.

La stessa produzione capitalistica ha avuto per effetto che il lavoro di direzione viaggia per le strade in completa separazione dalla proprietà del capitale: è quindi inutile che ad eseguirlo siano dei capitalisti. Un direttore d’orchestra non ha bisogno d’essere proprietario degli strumenti, né rientra nella sua funzione direttiva l’occuparsi del «salario» degli altri musicanti. Le fabbriche cooperative forniscono la prova che il capitalista è diventato superfluo come funzionario della produzione esattamente come, nella sua cultura superiore, egli considera superfluo il grande proprietario terriero. Nella misura in cui il lavoro del capitalista non si origina dal processo di produzione in quanto puramente capitalistico, e quindi non cessa da sé col capitale; nella misura in cui non si limita alla funzione di sfruttare lavoro altrui; nella misura in cui, di conseguenza, nasce dalla forma del lavoro come lavoro sociale, dalla combinazione e cooperazione di molti individui per un risultato comune, esso è altrettanto indipendente dal capitale quanto la forma stessa, una volta rotto l’involucro capitalistico. Dire che questo lavoro, in quanto lavoro capitalistico, in quanto funzione del capitalista, è necessario, significa unicamente che il volgo non riesce a immaginarsi le forme sviluppatesi in grembo al modo di produzione capitalistico come distinte e spogliate del loro carattere capitalisticamente antagonistico.

(Karl Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Volume III, Capitolo XXIII, pagg. 487-488)

Anche:

Il successo e l’insuccesso portano qui contemporaneamente alla centralizzazione dei capitali e, perciò, all’espropriazione sulla scala più grandiosa. Questa espropriazione si estende dai produttori immediati agli stessi capitalisti piccoli e medi. Essa è il punto di partenza del modo di produzione capitalistico; realizzarla è il suo scopo, e lo è, in ultima analisi, l’espropriare ogni individuo dei mezzi di produzione che, con lo sviluppo della produzione sociale, cessano d’essere mezzi e, insieme, prodotti della produzione privata, per poter essere ancora soltanto mezzi di produzione nelle mani dei produttori associati, dunque loro proprietà sociale, così come sono il loro prodotto sociale. Ma, nell’ambito dello stesso sistema capitalistico, questa espropriazione si rappresenta in forma antagonistica, cioè come appropriazione della proprietà sociale ad opera di pochi, e a questi pochi il credito conferisce sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Poiché qui la proprietà esiste nella forma delle azioni, il suo movimento e il suo trasferimento diventano puro e semplice risultato del gioco di borsa, dove i pesci piccoli vengono divorati dagli squali e le pecore dai lupi. Nel sistema azionario è già insito il contrasto con la vecchia forma in cui il mezzo di produzione sociale appare come proprietà individuale, ma la metamorfosi nella forma delle azioni rimane ancora imprigionata entro i confini capitalistici, per cui, invece di superare l’antitesi fra il carattere della ricchezza come ricchezza sociale e quello della ricchezza come ricchezza privata, si limita a darle nuova forma.

Le fabbriche cooperative dei lavoratori sono, entro la vecchia forma, la prima breccia in essa aperta, sebbene, com’è naturale, riproducano dovunque nella loro effettiva organizzazione, e non possano non riprodurre, tutti i difetti del sistema vigente. Ma, nel loro ambito, il contrasto fra capitale e lavoro è annullato anche se, dapprima, nella sola forma che gli operai come associazione sono il loro proprio capitalista, cioè utilizzano i mezzi di produzione per valorizzare il loro proprio lavoro. Esse mostrano come, a un certo stadio di sviluppo delle forze produttive materiali e delle forme di produzione sociali ad esse corrispondenti, da un modo di produzione si enuclei e si sviluppi in maniera naturale un nuovo modo di produzione. Come senza il sistema di fabbrica nascente dal modo di produzione capitalistico, così senza il sistema creditizio nascente dallo stesso modo di produzione, la fabbrica cooperativa non potrebbe mai svilupparsi. Il sistema del credito, come forma la base principale per la progressiva trasformazione delle imprese capitalistiche private in società capitalistiche per azioni, così offre il mezzo per la graduale estensione delle imprese cooperative su scala più o meno nazionale. Le imprese azionarie capitalistiche vanno considerate, allo stesso titolo delle fabbriche cooperative, come forme di trapasso dal modo di produzione capitalistico a quello associato; solo che nelle une l’antagonismo è soppresso in modo negativo, nelle altre in modo positivo.

Abbiamo fin qui considerato lo sviluppo del sistema creditizio — e la soppressione latente, in esso implicita, della proprietà capitalistica — con particolare riferimento al capitale industriale. […]

Se il sistema del credito appare come leva principale della sovrapproduzione e sovraspeculazione nel commercio, ciò accade solo perché il processo di riproduzione, che è per sua natura elastico, viene qui spinto al suo limite estremo, e vi è spinto appunto perché una gran parte del capitale sociale viene impiegata da coloro che non ne sono i proprietari, e che, quindi, si lanciano nell’impresa con ben altro spirito del proprietario effettivo, il quale, se e in quanto agisce in prima persona, tiene sempre d’occhio tremando di paura i limiti del suo capitale privato. Ne risulta solo con chiarezza che la valorizzazione del capitale basata sul carattere antagonistico della produzione capitalistica non permette che fino a un certo punto il vero, libero sviluppo, quindi costituisce di fatto un ceppo e una barriera immanente della produzione, che il sistema del credito spezza di continuo. Perciò il sistema creditizio accelera lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il modo di produzione capitalistico ha il compito storico di creare, fino a un certo livello, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Nello stesso tempo, il credito affretta le violente eruzioni di questo antagonismo, le crisi, quindi gli elementi dissolventi del vecchio modo di produzione.

I due caratteri immanenti del sistema del credito: il fatto, da un lato, di sviluppare quella che è la molla della produzione capitalistica, l’arricchimento mediante sfruttamento di lavoro altrui, fino al più puro e colossale sistema di gioco ed imbroglio e di limitare sempre più il numero dei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; il fatto, d’altro lato, di costituire la forma di transizione a un nuovo modo di produzione — è questa ambivalenza che dei principali araldi del credito, da Law fino a Isaac Péreire fa un così piacevole miscuglio di ciarlatano e di profeta.

(Karl Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Volume III, Capitolo XXVII, pagg. 556-558)

È questo quello che i comunisti intendono con “preparazione” del comunismo nel modo di produzione capitalistico: il modo di produzione capitalistico stesso punta oltre sé stesso, sebbene i suoi antagonismi vengano tacitati in vari modi con strumenti economici, statali ecc.; si veda ad esempio il seguente passaggio di Hegel (!):

La prevenzione di polizia realizza e mantiene anzitutto l’universale che è contenuto nella particolarità della società civile, nella forma di un esterno ordinamento e apparato per la protezione e sicurezza delle masse di particolari fini e interessi, come tali che hanno il loro sussistere in questo universale, al modo ch’essa come superiore direzione sostiene la prevenzione per gli interessi che conducono al di là di questa società.

(G. W. F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, Roma-Bari, 2005, pag. 190)

Questo è un tema che verrà poi accolto e sviluppato specialmente da Marx nella Guerra Civile in Francia, Capitolo III, e ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di Engels, oggetto di discussione anche di Stato e Rivoluzione di Lenin, data la sua enorme importanza. Per questo «il passaggio dalla società capitalistica, che si sviluppa in direzione del comunismo, alla società comunista è impossibile senza un “periodo politico di transizione”, e lo Stato di questo periodo non può esser altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato» [19] : perché è necessario spezzare i meccanismi che soffocano l’effettiva espressione di quanto si prepara nel modo di produzione capitalistico, entro i rapporti di produzione capitalistici, difesi dalla borghesia.

Con le parole di Lukács:

Non è un caso che Marx caratterizzi la prassi della Comune di Parigi dicendo che la classe operaia «non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese». Questo liberare è uno dei punti centrali della metodologia marxiana. Gli utopisti, in obbedienza alla ragione, vogliono mettere nel mondo qualcosa di migliore di ciò che c’è stato finora. Marx vuole invece soltanto contribuire con il suo pensiero a che quanto – come sempre – nel processo di formazione dell’umanità è in qualche modo ontologicamente presente sia in grado di realizzare nell’essere sociale il proprio essere autentico. Naturalmente questo nella realtà non è possibile sempre e comunque. Occorre però studiarlo e comprenderlo scientificamente con precisione, affinché al momento dato per l’essere sociale una tale liberazione di tendenze latenti [siano esse latenti di per loro o mantenute latenti!] venga resa possibile e facilitata. Questo è anche il senso della teoria marxiana del formarsi della genericità umana adeguata: quel livello di sviluppo economico che, funzionando da base, rende possibile «il regno della libertà», la fine della preistoria, l’inizio della storia del genere [umano], non potrebbe mai formarsi realmente se non fosse in grado «semplicemente» di liberare tendenze di vita già presenti, e spesso anche da lungo tempo, se dovesse prima immaginarle e poi «crearle».

(György Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, PGreco, 2012, Capitolo 2, pagg. 88-89)

Così il modo di produzione capitalistico crea la necessità “oggettiva” di comunismo; ma esso crea anche la necessità “soggettiva”. «Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che devono recarle la morte; essa ha anche prodotto gli uomini che si serviranno di queste armi, gli operai moderni, i proletari» (Karl Marx, Manifesto del Partito Comunista, Lotta Comunista, Milano, 2015, Capitolo I, pag. 23). E non solo crea le armi e gli uomini che le imbracceranno, ma crea anche il loro bisogno di farlo. Solo quando questo bisogno più o meno inconsapevole o sepolto negli agi/disagi quotidiani di certi strati acquisisce effettività il proletariato diventa reale classe rivoluzionaria. La sua esistenza non implica la sua effettività in quanto tale, sicché è rivoluzionario in potenza (come bene dice Preve, è rivoluzionario dynamei on), e per farlo deve anche dotarsi di specifici strumenti organizzativi, teorici, eccetera; parte del nostro sforzo di studio è anche quello di capire cosa scateni l’attualizzazione di tale potenza. Faccio notare che in virtù di quanto abbiamo detto sinora, appare la straordinaria peculiarità del “progetto” comunista: esso non è utopico, siccome nei fatti non è altro che espressivo di ciò che già ora si prepara! In tale senso non è possibile tacciare il marxismo di utopismo (perché ciò comporterebbe lo stesso per qualsiasi altro progetto, e sarebbe utopico anche mangiare), è utopico al contrario pensare che il modo di produzione capitalistico sia “La fine della storia” con annesso “ultimo uomo” come nel famoso saggio di Fukuyama.

Con il modo di produzione capitalistico finisce la preistoria della società umana, e comincerebbe la storia nella quale la produzione sociale è effettivamente subordinata all’utilità della società, e non alla valorizzazione del capitale o in genere alla riproduzione di una classe dominante, venendo quindi pianificata razionalmente e non lasciata in balia all’anarchia del mercato ecc. Infatti,

Se, invece di una società capitalista, immaginiamo una società comunista, allora prima di tutto scompare totalmente il capitale denaro, quindi spariscono anche i travestimenti delle transazioni che esso si trascina dietro; e la cosa si riduce semplicemente al fatto che la società deve calcolare in anticipo quanto lavoro, quanti mezzi di produzione e quanti mezzi di sussistenza possa impiegare impunemente in rami di industria che, come ad es. la costruzione di ferrovie, per un periodo relativamente lungo, un anno o forse più, non forniscono né mezzi di produzione, né mezzi di sussistenza, né effetti utili di sorta, ma anzi sottraggono alla produzione annua complessiva lavoro, mezzi di produzione e mezzi di sussistenza. Nella società capitalistica, invece, in cui l’intelletto sociale si fa sempre valere soltanto post festum, a cose fatte, possono e devono continuamente intervenire gravi perturbazioni.

(Karl Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Volume II, Capitolo XVI, paragrafo 3, pag. 384)

Oggi il proletariato vive in modo eterodiretto vendendo la propria forza lavoro (in altri termini tempo ed energia psichica e fisica) per un certo numero ore al giorno e ad una certa intensità al fine di realizzare progetti che spesso sono completamente inutili e contrari ad ogni dignità, siccome è l’autovalorizzazione del capitale a farla da padrone su ogni legge umana. Ciò per potersi garantire, nel tempo libero, la risoluzione dei bisogni: ecco, l’obiettivo del comunismo è quello di far coincidere la risoluzione dei propri bisogni con ciò che si fa. Non un “Paese di Cuccagna” nel quale si ozia e non si fa nulla, come nelle sciocche fantasie da dopolavoro che sorgono, pur ragionevolmente, perché il lavoro di oggi ci schifa. L’uomo ha sia bisogno di agire per avere senso, sia per trasformare il mondo in modo adeguato ai suoi bisogni [20]: l’obiettivo è, dunque, una società nella quale le persone hanno effettivamente modo di fare ciò che è utile e che le soddisfa, nelle quali si impegnerebbero con serietà, metodo e piacere.

Ma come dice in modo esauriente Marx:

Il regno della libertà comincia in effetti soltanto là dove cessa il lavoro determinato dal bisogno e dalla convenienza esterna; risiede quindi, per la natura stessa della cosa, oltre la sfera della produzione materiale in senso proprio. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e riprodurre la sua vita, così deve fare l’uomo civile, e deve farlo in ogni forma di società e in tutti i modi di produzione possibili. Con il suo sviluppo si estende il regno della necessità naturale, perché si espandono i bisogni; ma nello stesso tempo si espandono le forze produttive che li soddisfano. La libertà in questo campo può consistere unicamente in ciò, che l’uomo socializzato, i produttori associati, regolino razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo sottopongano al loro controllo collettivo, invece di esserne dominati come da una cieca potenza; lo eseguano col minor dispendio di energie e nelle condizioni più degne della loro natura umana e ad essa più adeguate. Ma questo rimane pur sempre un regno della necessità. Al di là dei suoi confini ha inizio lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso; il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulla base di quel regno della necessità. La riduzione della giornata lavorativa ne è la fondamentale condizione.

(Karl Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Volume III, Capitolo 48°, paragrafo III, pagg. 1011-1012)

Tra le altre cose, anche questo è reso possibile dal continuo rivoluzionamento dei mezzi di produzione da parte del modo di produzione capitalistico, ma impedito nella sua effettività dallo stesso:

L’aumento della forza produttiva del lavoro e la sua crescente intensità agiscono uniformemente nella stessa direzione. Entrambi accrescono la massa di prodotti ottenuta in ogni periodo di tempo: entrambi, perciò, abbreviano la parte della giornata lavorativa di cui l’operaio ha bisogno per produrre i suoi mezzi di sussistenza, o il loro equivalente. Il limite minimo assoluto della giornata lavorativa è in genere formato da questa sua parte componente necessaria, ma passibile di contrazione. Se l’intera giornata lavorativa si contraesse fino a ridursi a quella parte, il plus-lavoro sparirebbe; il che, sotto il regime del capitale, è impossibile. L’eliminazione della forma di produzione capitalistica permetterà di limitare la giornata lavorativa al lavoro necessario. Tuttavia quest’ultimo, a parità di condizioni, estenderebbe il suo spazio, da un lato perché le condizioni di vita dell’operaio sarebbero più ricche e le sue esigenze vitali maggiori, dall’altro perché una parte dell’attuale pluslavoro conterebbe come lavoro necessario, cioè come lavoro necessario alla costituzione di un fondo sociale di riserva e accumulazione.

Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più si può abbreviare la giornata lavorativa, e quanto più si abbrevia la giornata lavorativa, tanto più l’intensità del lavoro può crescere. Dal punto di vista sociale, la produttività del lavoro cresce anche con la sua economia, che comprende non solo il risparmio dei mezzi di produzione, ma anche l’esclusione di ogni lavoro inutile. Mentre il modo di produzione capitalistico impone economia in ogni azienda individuale, il suo anarchico sistema della concorrenza provoca il più smisurato sperpero dei mezzi di produzione e delle forze lavoro sociali, oltre a un numero enorme di funzioni oggi indispensabili ma, in sé e per sé, superflue.

Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte della giornata lavorativa sociale necessaria alla produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata alla libera attività intellettuale e sociale degli individui sarà tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà proporzionalmente distribuito fra tutti i membri della società in grado di lavorare, quanto meno uno strato sociale potrà scaricare dalle proprie spalle su quelle di un altro la necessità naturale del lavoro. Il limite assoluto dell’abbreviamento della giornata lavorativa è, in questo senso, la generalizzazione del lavoro. Nella società capitalistica, si produce tempo libero per una classe, trasformando tutto il tempo di vita delle masse in tempo di lavoro.

(Karl Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Volume I, Capitolo XV, paragrafo IV, pagg. 681-682)

Ci siamo trattenuti a sufficienza su questo tema. Vorrei giusto far notare un’ultima cosa: il percorso che si farà verso il comunismo non è predeterminato, non si può desumere da formule e formulette. Marx dovrà chiarire ai populisti russi delle Otečestvennye zapiski in una lettera di fine 1877 che la storia non segue sempre lo stesso percorso, siccome dipende dai presupposti specifici di una determinata società. Infatti:

Nel capitolo sull’accumulazione primitiva, io pretendo unicamente di indicare la via mediante la quale, nell’Occidente europeo, l’ordine economico capitalistico uscì dal grembo dell’ordine economico feudale. […] Alla fine del capitolo, trattando della tendenza storica dell’accumulazione capitalistica, io sostengo che la sua ultima parola è la trasformazione della proprietà capitalistica in proprietà sociale. [… Il mio critico, Yu. G. Zukovskij] sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto. [… L’espropriazione dei contadini liberi nell’antica Roma diede vita ai proletarii e a grandi proprietà terriere e grandi capitali monetari.] Così un bel giorno, vi furono da un lato i «liberi» spogliati di tutto fuorché della loro forza lavoro, e dall’altro, per sfruttarli, i detentori di tutte le ricchezze accumulate. Quando ? In ogni caso, i proletari romani divennero non già salariati, ma plebaglia fannullona […] e accanto a essi si sviluppò un modo di produzione non capitalistico, ma schiavistico. Dunque, eventi di un’analogia sorprendente, ma verificatisi in ambienti storici affatto diversi, produssero risultati del tutto differenti.

(Karl Marx, cit. in India, Cina, Russia, Il Saggiatore, 2008, Milano, pagg. 245-246)

Questo è perché la storia appunto non è una «marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualsiasi situazione storica essi si trovino». Del resto, l’esistenza di un modo di produzione asiatico (per quanto sia problematica questa categoria) e la tesi per cui dalla comune agricola russa si potesse effettivamente “arrivare già” al comunismo (v. le lettere a Vera Zasulic dell’8 Marzo 1881 e la prefazione al Manifesto del 1882) va a corroborare il fondamentale nesso ontologico del “se… allora” individuato da Lukács, sicché «La necessità assoluta non esiste. Ontologicamente è sempre vincolata a determinate premesse» (v. Prolegomeni, Capitolo 3, pag. 108). Questo dà luogo alla famosa “legge” dello sviluppo ineguale, date le diverse condizioni iniziali di diverse società, che vale per l’economia, la politica ma anche per la teoria rivoluzionaria. Non ci tratterremo oltre su questi temi, che avranno eventualmente sviluppo in altri scritti.

La “spinta interna” del modo di produzione capitalistico al suo oltrepassamento, la generazione di queste pressioni interne, fornisce ciò che in potenza potrebbe determinarne la fine, ma non mettendo la sua firma. Il motore della storia è la lotta di classe: questo enorme motore (che mi riserverei di non chiamare l’unico, ma sicuramente il più potente) è quello che realmente può mettere la firma sulla vita o sulla morte di tale modo di produzione

Noi lavoriamo per mettere la firma sulla sua morte.


Note
1 Lascio lo sviluppo, la precisione e la completezza ad articoli futuri; qui abbozzo soltanto alcuni elementi che verranno ripresi, precisati ed arricchiti in futuro, pertanto mi si perdoni la relativa insufficienza concettuale e, quindi, anche espositiva. L’intento presente è quello di fornire uno scheletro sul quale costruire il discorso nei suoi caratteri fondamentali.
2 NB: umana, e non biologica in generale, appunto per tale posizione teleologica.
3 v. in Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, PGreco, 2012, Capitolo 4, pag. 304.
4 Engels lo spiega in modo molto chiaro nel capitolo XI del suo Anti-Duhring (ed. Lotta Comunista, 2017, Milano, pagg. 141-142): «La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano l’esistenza fisica e spirituale dell’uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l’una dall’altra tutt’al più nell’idea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa». La libertà è questo uso consapevole e orientato della necessità per i nostri scopi.
5 Il problema di “Ente naturale generico”, traduzione solitamente utilizzata, è che non viene espressa in modo adeguato a) la questione della “natura” in Wesen, qui reso in Essenza piuttosto che Ente Naturale, b) si include l’elemento di “compositezza” di Wesen, come essenza soggetta a specificazione nell’interazione, c) si raccoglie la composizione di questa essenza generica con elementi a sé esterni.
6 v. Marx, Il Capitale, Capitolo I, paragrafo 4, UTET, 2013, pag. 152.
7 La ricerca scientifica per studiare i suoi oggetti li “astrae realmente” da altri cofattori (es aria per togliere l’attrito, ecc.), anche se per riconoscere che sono cofattori serve prima una certa sperimentazione lo stesso; questo non è possibile farlo, però, in moltissimi casi, in cui il fenomeno non è isolabile. Marx, nella sua esposizione del Capitale, lavora su diversi livelli di astrazione, tanto che nella Prefazione alla prima edizione del Capitale scrive: «nell’analisi delle forme economiche non servono né il microscopio, né i reagenti chimici: la forza dell’astrazione deve sostituire l’uno e gli altri» (v. Karl Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Torino, Volume I, pag. 74), sciogliendo progressivamente le astrazioni e le semplificazioni per arrivare ad un’articolazione completa della totalità in esame: qui (v. sezione “Contro il Maestro ?”, parte c), in cui il compagno LON sviluppa in modo esauriente il discorso.
8 v. Pierpaolo Cesaroni, La vita dei concetti: Hegel, Bachelard, Canguilhem, Quodlibet, 2020, Macerata, pag. 29
9 V. Karl Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, sul paragrafo 307, traduzione di Galvano della Volpe: «La critica volgare cade in un opposto, dogmatico errore. Così essa critica, ad es., la costituzione: attira l’attenzione sull’antitesi dei poteri etc., trova ovunque delle contraddizioni. Questo è ancora della critica dogmatica, che lotta col suo oggetto, all’incirca come una volta si eliminava il dogma della santa Trinità per la contraddizione di uno e tre. La vera critica, invece, mostra l’intima genesi della santa Trinità nel cervello umano. Descrive il suo atto di nascita. Così la critica veramente filosofica dell’odierna costituzione dello Stato non indica soltanto le sussistenti contraddizioni, ma le spiega, ne comprende la genesi, la necessità. Le prende nel loro peculiare significato. Ma questo comprendere non consiste, come Hegel crede, nel riconoscere ovunque le determinazioni del concetto puro56, bensì nel concepire la logica specifica dell’oggetto specifico»
10 Louis Althusser (Filosofia per non filosofi, Dedalo, 2015, pag. 104) lo esemplifica chiaramente: perché gli operai sono alle 8 di mattina davanti ai cancelli della fabbrica ? Perché il modo di produzione li obbliga, anche se si credono “liberi” di venire a lavorare, al fine di garantire la sussistenza della comunità e, nel caso specifico attuale, anche per foraggiare il dominio della classe sfruttatrice. Gli stessi mezzi di produzione non si trovano concentrati in una fabbrica per caso ma perché ci sono state delle forze sociali a spingerli lì, nel nostro caso per garantire al capitalista (individuale o collettivo sotto forma di azionisti) l’estorsione di plusvalore; ma non sono solo le classi a partecipare del rapporto, ma anche i mezzi di produzione (v. nel testo).
11 v. Filosofia per non filosofi, p. 105.
12 Sulle pratiche ma anche sugli apparati organizzati che le realizzano vedasi Sorvegliare e Punire di Foucault e Sull’Ideologia di Althusser. Si noti come il potere in tal senso non sia solamente repressivo, ma anche produttivo, incitativo
13 Ho tradotto parte della lettera in italiano per renderla più accessibile al lettore; questa è quella che ci interessa in modo più completo:
2. Noi consideriamo le condizioni economiche come determinanti, in ultima istanza, gli sviluppi storici. Ma la razza stessa è un fattore economico. Qui abbiamo due punti da non sottovalutare:
(a) Lo sviluppo politico, legale, filosofico, religioso, letterario, artistico ecc. poggia sull’economico. Ma tutti reagiscono vicendevolmente e con questa base economica. Non si tratta di un caso in cui la situazione economica sia la sola causa attiva e tutto il resto sia solamente un effetto passivo. Piuttosto, c’è una interazione reciproca con una necessità economica fondamentale che in ultima istanza si fa sempre valere. Lo Stato, ad esempio, esercita la sua influenza tramite i dazi, il libero scambio, una buona o una cattiva tassazione. Persino la mortale indolenza e impotenza del filisteo tedesco emersa dalla miserabile situazione economica della Germania dal 1648 al 1830 ed espressasi prima nel pietismo, poi nel sentimentalismo e nel basso servilismo di fronte al principe e al nobile non furono senza le loro conseguenze economiche. Esse costituirono uno tra i più grandi ostacoli ad un movimento emergente, e furono spazzate via soltanto dalle guerre rivoluzionarie e Napoleoniche che acuirono la miseria cronica. Pertanto, non è vero, come alcuni comodamente si immaginano, che le condizioni economiche hanno un effetto automatico. Gli uomini fanno la loro storia, ma in un ambito dato e condizionante, fondandosi su relazioni effettive e preesistenti, tra le quali i rapporti economici, al di là di quanto essi siano influenzati da rapporti di ordine politico o ideologico, sono in ultimo quelli decisivi, snodando un fil rouge lungo tutti gli altri rapporti e permettendoci di comprenderli.
[…]
Analogamente con le altre contingenze e apparenti contingenze nella storia. Più l’ambito in esame è lontano dall’economico, e più si avvicina al campo della pura e astratta ideologia, più lo troveremo accidentato nei suoi sviluppi, più il suo corso sarà frastagliato, a zig zag. Ma traendo una tendenza generale a tale corso si vedrà che più lungo sarà il periodo di tempo, più ampio sarà il campo di studi, e più strettamente questa tendenza si muoverà parallelamente alla dinamica dello sviluppo economico.
(Friedrich Engels, Lettera a Borgius, 25 Gennaio 1894, traduzione mia da marxists.org)
Per qualsiasi osservazione di traduzione, scrivetemi pure nei commenti o tramite il form di contatto qui.
14 Come dice Marx nella Prefazione a Per la Critica dell’Economia Politica (v. Il Capitale, UTET, 2013, Vol. I, pag. 1013): «L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, la base reale sulla quale si aderge una sovrastruttura giuridica e politica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali di coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo di vita sociale, politico e spirituale in genere. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è al contrario il loro essere sociale che determina la loro coscienza». In questa prefazione Marx è risaputamente “deterministico”, e spero di aver dimostrato con sufficiente chiarezza come prendere con attenzione e non con letteralità quanto espresso sinteticamente qui da Marx.
15 Il riferimento è a Karl Marx, Il Capitale, UTET, 2013, Libro III, Capitolo XXVII, pag. 558: «Le imprese azionarie capitalistiche vanno considerate, allo stesso titolo delle fabbriche cooperative, come forme di trapasso dal modo di produzione capitalistico a quello associato; solo che nelle une l’antagonismo è soppresso in modo negativo, nelle altre in modo positivo».
16 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della Critica dell’Economia Politica PGreco, 2012, Volume I, paragrafo 3, pag. 34 [Per riferimenti su altri testi, pag. 28, righe 38-40 del Quaderno M].
17 Da marxists.org : «Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma viceversa, come sorge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita».
18 Ad esempio in Lenin, Stato e Rivoluzione, Lotta Comunista, 2019, Milano, Capitolo III, paragrafo 3, pag. 65: «Noi vogliamo la rivoluzione socialista con gli uomini quali sono oggi, e che non potranno fare a meno né di subordinazione, né di controllo, né di “sorveglianti, né di contabili”», oppure Capitolo IV, paragrafo 6, pagg. 95-96: «Scomparirà quindi ogni necessità di ricorrere in generale alla violenza contro gli uomini, alla sottomissione di un uomo a un altro, di una parte della popolazione a un’altra, perché gli uomini si abitueranno a osservare le condizioni elementari della convivenza sociale senza violenza e senza sottomissione. Per mettere in risalto questo elemento di consuetudine, Engels parla della nuova generazione, “cresciuta in condizioni sociali nuove, libere e che “sarà in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale”, ogni forma di Stato, compresa la repubblica democratica». Mi si perdoni inoltre la seguente lunga citazione, che ritengo però preziosa, dal Capitolo V, paragrafo 2, pagg. 102-103:
Soltanto nella società comunista, quando la resistenza dei capitalisti è definitivamente spezzata, quando i capitalisti sono scomparsi e non esistono più classi (non v’è cioè più distinzione fra i membri della società secondo i loro rapporti coi mezzi sociali di produzione), soltanto allora “lo Stato cessa di esistere e diventa possibile parlare di libertà”. Soltanto allora diventa possibile e si attua una democrazia realmente completa, realmente senza alcuna eccezione. Soltanto allora la democrazia comincia a estinguersi, per la semplice ragione che, liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato. L’espressione: “lo Stato si estingue” è molto felice in quanto esprime al tempo stesso la gradualità del processo e la sua spontaneità. Soltanto l’abitudine può produrre un tale effetto, e senza dubbio lo produrrà, poiché noi osserviamo attorno a noi milioni di volte con quale facilità gli uomini si abituano a osservare le regole per loro indispensabili della convivenza sociale, quando non vi è sfruttamento e quando nulla provoca l’indignazione, la protesta, la rivolta e rende necessaria la repressione.
Se noi conoscessimo gli elementi che strutturano l’agire dell’uomo, non solo avremmo strumenti formidabili che aiuterebbero nell’attività più immediata, ma anche lenire «i lunghi travagli del parto dalla società capitalistica». Come sono gli uomini quali sono oggi ? Cosa c’è da cambiare ? Cosa permette di fare la rivoluzione seppur con gli uomini quali sono oggi ? La nostra tesi forte è che studi in tale ambito aiuterebbero non solo a comprendere meglio e a fornire strumenti per l’oggi, ma anche per il domani.
19 Lenin, Stato e Rivoluzione, Lotta Comunista, 2019, Milano, Capitolo V, paragrafo 2, pag. 100
20 Ammesso e non concesso che sia possibile eliminare il lavoro in questa maniera, le persone si dedicherebbero ai loro hobby. Ma che cosa sono gli hobby ? Essi sono passioni alle quali dedichiamo tempo ed energia. Ma non si può dedicare tempo ed energia al nulla, bensì ad un’attività che realizza qualcosa, pur entro le nostre possibilità naturali (fisiche, chimiche…) e sociali (stadio di sviluppo delle forze produttive, ciò che è accettabile). La necessità di espressione dell’uomo che verrebbe scacciata dalla porta con l’”eliminazione” del lavoro rientrerebbe dalla finestra perché noi abbiamo bisogno di realizzare progetti e attività, non privatamente (come potrebbe sembrare), ma socialmente: l’attività hobbystica è espressione e risoluzione dei nostri bisogni, che sono anche sociali (soddisfacendo noi e gli altri), affinandosi e consolidandosi tramite la collaborazione e il confronto con altri appassionati. Siccome cambiare etichette ai barattoli non ne cambia il contenuto, portando la “società degli hobby” alle sue conseguenze abbiamo ri-trovato un ambito nel quale l’uomo agisce cooperando per l’utilità propria e della società (ovvero: lavora). La “società degli hobby” è il prodotto di una fantasia dell’eterno dopolavoro, perché il lavoro stesso al suo stato attuale non ci appartiene, talvolta persino impiegandoci per scopi negativi. L’obiettivo, quindi, è riallineare il lavoro con la risoluzione dei bisogni di colui che lavora e colui che gode del prodotto del lavoro, al posto dell’accumulazione illimitata del capitale.

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