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Introduzione agli «Scritti inediti di economia politica» di Marx

di Mario Tronti

0e99dc c68f500b2c6d430fa7f577ae57384dc0mv2«Quando il giovane Kautsky domandò a Marx se egli non pensava di pubblicare una edizione completa delle sue opere, Marx rispose: “Queste opere devono prima di tutto essere scritte”. Se si pensa che fu data nel 1881, questa risposta acquista un senso più profondo di quanto non appaia a prima vista. È chiaro che la ricerca marxista non può esaurirsi oggi in una Marx-philologie: perché sarebbe questa veramente la morte del marxismo. È altrettanto chiaro però che da qui bisogna partire, se si vuole riprendere un discorso che con l’opera di Marx abbia un rapporto non di fedeltà – che è atteggiamento passivo – ma di coerenza – che è rapporto attivo di conoscenza e di sviluppo insieme». Così Mario Tronti conclude la prima parte dell’introduzione agli Scritti inediti di economia politica di Marx (inediti in lingua italiana), pubblicati da Editori Riuniti nel 1963 e da lui stesso tradotti. Attraverso questi brani e frammenti, Tronti anticipa anche la rivoluzionaria lettura operaista dei Grundrisse, che in Italia sarebbero stati tradotti solo alcuni anni dopo. Complessivamente, ci fa seguire tutto il cammino marxiano nell’analisi dell’economia politica, dall’inizio fino alla sua lenta morte, il suo ribaltarla dall’interno, mostrando come ciò che sembra un elemento naturale ed eterno è in realtà una forma storica, che dunque può essere rotta e sovvertita. Perché, questo è il punto, «critica dell’economia politica vuol dire per Marx critica del capitalismo». Questa introduzione – purtroppo non più riproposta prima d’ora – è perciò un testo formidabile e fondamentale per comprendere Marx, per condurlo contro e oltre il marxismo, e anche oltre se stesso; è decisivo per comprendere lo straordinario stile trontiano nell’afferrare la radice dei problemi e rovesciarla dal punto di vista della lotta di classe. Portandoci laddove possiamo vivere interamente «il dramma felice del teorico marxista, che si trova a voler distruggere l’oggetto del proprio studio; anzi, a studiare l’oggetto esattamente per distruggerlo: l’oggetto della propria analisi è il proprio nemico».

* * *

Queste pagine sono state scritte da Marx in periodi differenti della sua vita. Messe insieme danno subito questo primo risultato: di segnare e abbracciare tutto l’arco di sviluppo del suo pensiero. Le date sono di per sé eloquenti: 1844, 1858, 1867, 1881-82. E subito ci richiamano alla mente opere e vicende già note, già conosciute: i Manoscritti economico-filosofici, Per la critica dell’economia politica, il Capitale, gli ultimi anni terribili della vita di Marx. Il filo che le tiene insieme e non solo il nome di Marx, ma anche, e direi soprattutto, l’oggetto specifico della ricerca che Marx conduce dall’inizio alla fine della sua vita intellettuale. L’oggetto è in generale l’economia e il suo carattere specifico è dato dal significato politico che essa assume all’interno del rapporto sociale di tipo capitalistico; e questo è il secondo risultato che si può ricavare dalla somma di questi scritti.

Cominciamo dal primo. Lo stesso incontro di Marx con i problemi economici è significativo. Sono molto noti quei passi della Prefazione del ’59 a Per la critica dell’economia politica, dove egli racconta e riassume quelle sue prime esperienze. La sua specialità sono dapprima gli studi giuridici, visti e compresi, in senso hegeliano, come parte integrante di studi filosofici e storici, tra loro immediatamente unificati. È soltanto dopo la Doktordissertation, dopo Democrito ed Epicuro, dopo la filosofia della natura di Hegel, dopo lo studio di Aristotele, di Spinoza, di Leibniz, di Rosenkranz, dopo altre numerose letture di ordine prevalentemente storico, è soltanto allora, all’inizio del 1842, che si incontra con la «Rheinische Zeitung» e ne diventa redattore prima e direttore poi[1]. Qui viene posto per la prima volta dinanzi all’obbligo imbarazzante di esprimere la sua opinione «a proposito di interessi cosiddetti materiali». Segue i dibattiti al Landtag renano, prima su questioni politiche più generali, come la libertà di stampa, poi su questioni concrete più particolari, come la legge sui furti di legna, la questione del frazionamento della proprietà fondiaria, la situazione dei vignaiuoli della Mosella, la discussione su libero scambio e protezionismo[2]. Qui Marx mette «i piedi a terra». È in questa occasione che si occupa per la prima volta di «problemi economici».

Ma la sua collaborazione alla «Gazzetta renana» si esaurisce nel giro di un anno. La censura prussiana non dà pace, e a uno dei tanti tentativi di dare un indirizzo più moderato al giornale, Marx se ne allontana senza esitazioni. Scrive a Ruge: «…L’atmosfera è diventata troppo pesante per me. È brutto compiere lavori servili anche per la libertà e combattere a colpi di spillo quando invece occorrerebbe il martello. Mi sono stancato dell’ipocrisia, della stupidità, di questa rozza autorità e di questo nostro piegarci, curvarci, chinare le spalle e sofisticare con le parole... In Germania non posso combinare più nulla. Qui si falsifica se stessi»[3]. Qualche tempo più tardi dirà: «…L’aria di qui rende servi». Perché in Germania è sopravvenuta una vera anarchia dello spirito, il regime stesso della stupidità: occorre allora trovare un nuovo punto di raccolta per le menti che pensano e che vogliono essere indipendenti. Parigi, l’antica scuola superiore di filosofia, appare ormai come la nuova capitale del mondo nuovo: a Parigi dunque[4]! I «Deutsch-Französischen Jahrbücher», il principio gallo-germanico, il cuore francese e la testa tedesca, il cuore rivoluzionario e la testa riformista, sono tesi provvisorie non più per una riforma della filosofia – come in Feuerbach –, ma per una rivoluzione nel vecchio mondo – come in Marx.

Gli «Annali franco-tedeschi» fanno letteralmente esplodere il genio di Marx. La Judenfrage conclude idealmente questo periodo della sua vita, questa prima presa di contatto pratica col mondo, questa sua prima partecipazione attiva alle lotte politiche del tempo; ed è nello stesso tempo la scoperta dei limiti «politici» della politica, il rimando a una realtà che sta al di qua della politica, come la terra sta al di qua del cielo. Ma la Questione ebraica è solo l’espressione pubblica, la forma esterna, il significato essoterico della Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico. Dopo questo lavoro non poteva esserci per Marx che la critica dell’economia politica.

Quando esce dalla scena pubblica per ritirarsi nella stanza da studio, il programma di Marx è già questo. «Nel maggio 1844 Ruge scriveva a Feuerbach, non con l’intenzione di lodare, ma appunto perciò tanto più persuasivamente, che Marx leggeva moltissimo e lavorava con enorme intensità, ma che non portava a termine nulla, interrompeva tutto e si precipitava di nuovo sempre in uno sterminato mare di libri. Era eccitato e impetuoso, soprattutto quando aveva lavorato fino allo sfinimento e non era andato a dormire per tre o quattro notti di seguito»[5]. Il Mehring si chiede quali fossero in particolare le sue attività di studio. Noi possiamo dare oggi una risposta abbastanza precisa. È probabile che Marx abbia pensato dapprima a uno studio sulla Rivoluzione francese, e in particolare a una storia della Convenzione: c’è del materiale raccolto in questo senso, come ad esempio degli excerpta dai Mémoires di R. Levasseur sulle lotte tra montagnardi e girondini[6]. Ma è certo che la gran parte del soggiorno parigino, dall’inizio del ’44 all’inizio del ’45, Marx la impiega in uno studio serrato e accurato dei classici dell’economia politica. I nomi più importanti che troviamo sono quelli di J.B. Say, di Smith, di Ricardo, di James Mill, di Mac Culloch, di Boisguillebert, oltre che di Engels (Umrisse zu einer Kritik der Nationalökonomie)[7]. Marx legge tutti questi autori nelle traduzioni o negli originali francesi, ne ricava degli estratti, interrompe qua e là questo lavoro con delle note critiche, con delle osservazioni a margine, miste di squarci teorici originali e di invettive violente. Sono praticamente i lavori preparatori ai Manoscritti economico-filosofici. E qui propriamente si colloca l’incontro di Marx con l’economia politica. «Egli iniziò i suoi studi economici nel 1843 a Parigi con i grandi inglesi e francesi; dei tedeschi conosceva soltanto Rau e List e ne aveva a sufficienza»[8]. Inglesi e francesi avevano suggerito a Hegel il nome e il concetto di «società civile». E società civile è il termine sotto cui viene abbracciato il complesso dei rapporti materiali dell’esistenza. La totalità di questi rapporti materiali è la società. E l’anatomia della società è l’economia politica. Quelli che al tempo della «Rheinische Zeitung» apparivano come interessi materiali empirici riappaiono, a un altro livello, come rapporti materiali teorici. Il passaggio dagli uni agli altri è segnato dalla critica della politica. La legge sui furti di legna rimanda allo Stato, ma lo Stato rimanda alla società. La critica dello Stato diventa dunque critica della società. Ma l’anatomia della società è l’economia. La critica della politica diventa dunque critica dell’economia politica.

È poco noto, ma è di una certa importanza, il fatto che il 1° febbraio 1845 Marx conclude con l’editore tedesco di Darmstadt C.W. Leske un contratto che l’impegna a scrivere un’opera in due volumi dal titolo: Critica della politica e dell’economia politica[9]. Di quest’opera poi non si fece niente, ma è indicativo che, dopo i Manoscritti, questo fosse il programma di Marx. Continuò invece i suoi studi di economia a Bruxelles, dove era emigrato dopo che un decreto di Guizot lo aveva espulso da Parigi. Del soggiorno a Bruxelles e a Manchester, dove compie un breve viaggio di studi insieme con Engels, ci rimangono dodici quaderni di note e di estratti. Gli autori più importanti sono: W. Atkinson, Ch. Babbage, E. Buret, Th. Carlyle, Ch. Ganilh, J.S. Mills, E. Misselden, R. Owen, W. Petty, F. Quesnay, P. Rossi, N.W. Senior, S. de Sismondi, H. Storch, W. Thompson, Th. Tooke, A. Ure: nomi più che familiari ai lettori delle maggiori opere economiche di Marx[10]. Verso la fine del 1846 legge la Philosophie de la misère di Proudhon: due giorni dopo ne dà una prima critica nella famosa lettera ad Annenkov del 28 dicembre 1846[11]. Segue a metà del ’47 la sua risposta particolareggiata: Miseria della filosofia, praticamente il primo lavoro economico pubblicato da Marx. Nell’«Atelier démocratique» di Bruxelles del 29 settembre 1847 appare: Le protectionisme, le libre-échange et la classe ouvrière[12], una prima esposizione forse di quello che sarà poi il più famoso Discorso sulla questione del libero scambio, pronunciato all’Association Démocratique di Bruxelles, il 9 gennaio 1848[13]. Sono di questo periodo – seconda metà di dicembre del ’47 – le conferenze all’Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles su Lavoro salariato e capitale, di cui ci rimangono le parti pubblicate sulla «Neue Rheinische Zeitung» nell’aprile del ’49[14] e un manoscritto di circa sedici pagine sul «salario», che si trova in un quaderno datato: Bruxelles, dicembre 1847[15].

Ma prima febbraio poi giugno, rivoluzione e controrivoluzione nel ’48 e nel ’49, interrompono gli studi economici di Marx. Ed è questo un passaggio importante, il più importante che ci sia stato forse nella vita di Marx. Gli annali rivoluzionari del ’48 portano come titolo: disfatta della rivoluzione. Ma ciò che venne battuto in quella disfatta non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari, risultato di rapporti sociali che non si erano ancora sviluppati e acuiti fino a diventare violenti contrasti di classe. «Il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario»[16]. Il cammino della rivoluzione è il cammino stesso di Marx. Il 15 aprile del 1849, Marx si dimette dal comitato regionale delle associazioni democratiche: perché queste associazioni racchiudono in sé troppi elementi eterogenei; perché è il momento di sostituire a esse un più stretto collegamento delle associazioni operaie che, sole, racchiudono in sé elementi omogenei. Così l’Associazione operaia di Colonia si stacca dalla Lega delle associazioni democratiche renane e convoca un congresso provinciale delle sole associazioni operaie. Così il 19 maggio esce l’ultimo numero della «Neue Rheinische Zeitung», stampato interamente in rosso, con il canto d’addio di Freiligrath e con il grido di «Viva la repubblica rossa». Marx aggredisce con violenza il governo: «A che scopo le vostre insulse menzogne, le vostre frasi ufficiali? Noi non abbiamo riguardi, ne pretendiamo che li abbiate voi. Quando verrà il nostro turno non risparmieremo il terrorismo»[17]. Il ’48 è morto, tutte le illusioni democratiche sono cadute; ormai è chiaro che nessuna rivoluzione può vincere, se la vittoria non viene conquistata dalla classe operaia rivoluzionaria. Occorre un’azione autonoma del movimento operaio, che non può più identificarsi con le richieste sia pure avanzate della borghesia radicale. Il risultato del ’48 in Francia è una sintesi della restaurazione e della monarchia di luglio, è il regime universale della classe borghese, il regno anonimo della repubblica. E la repubblica, invece che un’arma rivoluzionaria contro l’ordine borghese, è diventata la ricostruzione politica di questo, la «restaurazione politica della società borghese». Per la nuova edizione della «Neue Rheinische Zeitung», «Politisch-oekonomische Revue», Marx scrive tra il gennaio e il marzo del ’50 Le lotte di classe in Francia, résumé classico e giudizio storico definitivo sul ’48 non solo francese, ma europeo.

Nell’ultimo numero della rivista, che porta la data del 1° novembre 1850, appare una rassegna politico-economica degli avvenimenti che vanno dal maggio all’ottobre. Marx sostiene qui che, in ultima istanza, la crisi politica del 1848 trova la sua origine nella crisi commerciale inglese del 1847 e che d’altra parte la prosperità del commercio e dell’industria inglese, riapparsa nel corso del ’48 e cresciuta nel ’49, ha tarpato le ali a uno sviluppo vittorioso della rivoluzione. Tanto il periodo della crisi che quello della prosperità sopravvengono sul Continente più tardi che in Inghilterra. «Il successo iniziale lo si trova sempre in Inghilterra; essa è il demiurgo del cosmo borghese...». Se quindi le crisi provocano rivoluzione prima nel Continente, tuttavia la loro causa si deve trovare sempre in Inghilterra. Nel momento presente «data questa prosperità universale, in cui le forze produttive della società borghese si sviluppano con quella sovrabbondanza che è, in generale, possibile nelle condizioni borghesi, non si può parlare di una vera rivoluzione. Una rivoluzione siffatta è possibile solamente in periodi in cui entrambi questi fattori, le forze moderne di produzione e le forme borghesi di produzione, entrano in conflitto tra di loro. Le diverse beghe, a cui attualmente si abbandonano i rappresentanti delle singole frazioni del partito continentale dell’ordine e in cui si compromettono a vicenda, ben lungi dal fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili soltanto perché la base dei rapporti è momentaneamente così sicura e, ciò che la reazione ignora, così borghese. Contro di essa si spezzeranno tutti i tentativi reazionari di arrestare l’evoluzione borghese, come tutta l’indignazione morale e tutti i proclami ispirati dei democratici. Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto sicura quanto l’altra»[18].

Era necessario soffermarci su questi avvenimenti per dimostrare la continuità storica e la coerenza logica interna al pensiero di Marx. Tutti sanno che è proprio nel novembre del ’50, a Londra, che Marx si ritira di nuovo dalla scena pubblica nella stanza da studio e riprende quindi, a un livello di molto superiore, i suoi studi di economia. Come nel ’43 era arrivato, proprio attraverso a una critica del «cielo» dello Stato politico, alla necessità di toccare la «terra» della società civile; così ora, nel ’50, è proprio attraverso la critica della democrazia politica che arriva alla necessità della rivoluzione sociale. Come allora aveva scoperto la Francia di fronte alla Germania, così ora scopre l’Inghilterra di fronte all’Europa. Se allora c’era ancora soltanto la categoria astratta del proletariato, ora c’è ormai la realtà concreta della classe operaia. Se allora partiva dalle ipotesi di una società borghese in astratto, ora arriva alla tesi di una società capitalistica in concreto. Come allora la mediazione era stata la politica teorica, ora la mediazione è stata la rivoluzione pratica. Se dopo il ’43 non poteva che esserci la critica dell’economia politica, dopo il ’48 non può che esserci il Capitale.

Non solo. C’è in questo momento, da parte di Marx, lo stesso moto di disgusto nei confronti di una pratica, intesa in senso «sordidamente giudaico», come già altra volta espresso; c’è la percezione esatta del contrasto che si stabilisce in certi momenti storici tra la meschinità degli interessi politici quotidiani e l’immensità dei compiti teorici di sviluppo e di prospettiva. Uno di quei momenti in cui – come diceva Engels – «il pane politico quotidiano diventa in generale sempre più secco»[19]. Marx gli scrive: «...mi piace molto il pubblico autentico isolamento in cui ci troviamo ora noi due, tu e io. Corrisponde del tutto alla nostra posizione e ai nostri princípi. Il sistema delle reciproche concessioni, dei mezzi termini tollerati per correttezza, e il dovere di assumersi davanti al pubblico la propria parte di ridicolaggine insieme con tutti questi somari del partito, son cose finite»[20]. Ed Engels risponde: «Nelle prossime vicende possiamo e dobbiamo assumere questa posizione. Non soltanto nessuna posizione ufficiale, nello Stato, ma anche, finché è possibile, nessuna posizione ufficiale nel partito, nessun seggio in comitati ecc., nessuna responsabilità per conto di somari, critica spietata per tutti, e inoltre quella serenità che tutte le cospirazioni di queste teste di pecora non ci leveranno davvero. E questo possiamo farlo. Possiamo nella realtà essere sempre più rivoluzionari di tutti i frasaioli, perché noi abbiamo imparato qualche cosa e loro no, perché noi sappiamo che cosa vogliamo e loro no...»[21]. Comincia di qui, da queste amare considerazioni, il lungo periodo che vedrà separati per lungo tempo i due amici: Engels a Manchester, sulla via di diventare un grande cotton-lord, come diceva scherzosamente la signora Jenny, e Marx a Londra, o meglio al British Museum di Londra, sepolto, dalle nove del mattino alle sette di sera, sotto una quantità enorme di materiali per la storia dell’economia politica.

Marx pensava allora di finire la sua Economia entro poche settimane. Scriveva a Engels il 2 aprile 1851: «Sto tanto avanti che entro cinque settimane sarò pronto con tutta questa merda economica. Et cela fait, porterò a termine a casa il lavoro sull’Economia e nel British Museum mi butterò su di un’altra scienza. Ça commence à m’ennuyer. Au fond questa scienza da A. Smith a D. Ricardo in poi non ha più fatto progressi, per quanto molto anche si sia fatto in singole ricerche, spesso molto delicate»[22]. Ed Engels: «Sono contento che tu abbia finalmente finito con l’Economia. La cosa si è trascinata davvero troppo per le lunghe, e finché tu hai ancora da leggere un libro che tu ritenga importante, non ti metti mai a scrivere»[23]. E tanti dovevano essere i libri che Marx riteneva importanti, se non si mise a scrivere prima degli anni 1857-58. Nei Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie, pubblicati per la prima volta in due volumi a Mosca, nel 1939-41, e ripubblicati in volume unico da Dietz a Berlino nel 1953[24], noi troviamo quaderni di estratti dai Principles di Ricardo, sul denaro, il valore, la rendita, prezzo naturale e prezzo di mercato, il salario, il profitto, le imposte: e sappiamo che questi quaderni risalgono al ’50-51. Nello stesso testo troviamo l’Einleitung del ’57 (pp. 3-31), il capitolo sul denaro (pp. 33-148) scritto nell’ottobre del 1857, il capitolo sul capitale (pp. 149-762) scritto tra ottobre-dicembre 1857 e gennaio-marzo 1858: lavori preparatori ambedue a Per la critica dell’economia politica e al Capitale. Vi troviamo ancora estratti da Bastiat e da Carey che risalgono al luglio del 1857 e un indice dei quaderni scritti dall’agosto ’57 al marzo ’58. Fa parte infine di questa raccolta il testo primitivo del capitolo conclusivo di Per la critica dell’economia politica. Ora, questi Grundrisse sono l’unico testo che abbiamo per documentare gli studi, le ricerche, i lavori di Marx in questo periodo a Londra. Ed è facile notare una grossa lacuna tra gli anni ’50-51 e gli anni ’57-58.

Sappiamo che gli estratti dal libro di Ricardo sono il quarto di una serie di 24 quaderni, che comprendono i seguenti temi: merce, denaro, capitale, lavoro salariato, proprietà fondiaria, commercio internazionale, storie della tecnologia e delle invenzioni, credito, problema demografico, storia economica, storia dei costumi, mercato mondiale, sistema coloniale ecc. Questi quaderni furono riempiti da Marx tra il settembre del 1850 e l’agosto del 1853. Seguono a essi, dal settembre ’53 al maggio ’54, quattro quaderni relativi alla storia della questione d’Oriente[25].

Ebbene, di tutti questi lavori niente è stato pubblicato. Una lista provvisoria di questi manoscritti inediti è conservata nell’Istituto internazionale di storia sociale di Amsterdam. Sono per lo più quaderni di estratti e di note compilati da Marx tra il ’51 e il ’58. Eccone un primo elenco[26]. I quaderni del 1850 contengono, tra giugno e settembre, una storia economica del decennio 1840-50, sulla scorta dell’«Economist» di Londra: è evidentemente il lavoro che sta alla base di quella rassegna politico-economica che ha concluso la vita della «Neue Rheinische Zeitung», il 1° novembre 1850. Dello stesso anno ci sono estratti da J.S. Mill, Fullarton, Tooke (fine settembre), di Blake, Gilbart, Garnier, Senior, Reitemeier (ottobre-dicembre). Nei quaderni del ’51, Marx affronta la rendita fondiaria in Ricardo, la circolazione monetaria in Jacob, in Bailey, in Loyd, in Carey; legge Hume, Locke, John Gray e poi Bosanquet, Tooke, Torrens; rilegge Smith e Ricardo, questa volta in inglese; legge gli italiani Serra e Montanari; studia Malthus; consulta inoltre opere sulla colonizzazione e sul commercio degli schiavi, come i libri di Prescott, Buxton, Howitt; studia il denaro e la banca nei libri di G. Julius e Hardcastle; legge libri sulla storia della tecnologia e sull’agronomia. È di questo periodo un manoscritto incompiuto che porta il titolo: Das vollendete Geldsystem[27]. Nei quaderni del ’52 ci sono estratti di opere sulla storia della colonizzazione e sulla storia del feudalesimo, nei libri di Hüllman, Dalrymple, Bouterwek e altri. Nei quaderni del ’53-54 estratti di opere di Opdyke, Banfield, Spencer, e poi libri sull’India e la Spagna. Tra il novembre del ’54 e il gennaio del ’55, Marx raccoglie molto materiale intorno alle differenti teorie sul corso dei cambi, in un manoscritto anch’esso incompiuto dal titolo: Geldwesen, Kreditwesen, Krisen[28].

Ma è solo nel gennaio del ’57 che Marx mette mano al «capitolo sul denaro». E tra il febbraio e l’aprile scrive: il denaro come mezzo internazionale di scambio e di pagamento; i metalli nobili come portatori del rapporto di scambio; apparizione della legge di appropriazione nella circolazione semplice. Nell’aprile del ’57 comincia il «capitolo sul capitale»: trasformazione del denaro in capitale. Tra l’agosto e il settembre scrive l’Einleitung famosa che doveva servire da introduzione a Per la critica... Nel novembre-dicembre riprende il «capitolo sul capitale»: processo di produzione, processo di valorizzazione, plusvalore e profitto, accumulazione del capitale. Marx lavora moltissimo: per lo più fino alle quattro del mattino. Perché ora è un lavoro doppio: 1) elaborazione delle linee fondamentali dell’economia... 2) la crisi attuale[29]... Infatti il 1857 è un anno di crisi: comincia negli Stati Uniti – e Marx se ne accorge quando il «New York Daily Tribune» lo mette a mezza paga – e poi di lì passa in Inghilterra e nel Continente. «Per quanto mi trovi personalmente in financial distress, dal 1849 in poi non mi sono mai sentito tanto cosy come con questo outbreak»[30]. E Jenny Marx scriveva a Konrad Schramm: «Sebbene noi risentiamo parecchio sulla nostra borsa gli effetti della crisi americana, Lei può benissimo immaginarsi quanto il Moro sia su d’umore. È tornata tutta la sua vecchia capacità e facilità di lavoro e anche la freschezza e la serenità dello spirito…»[31].

Nel ’50 Marx aveva detto: una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. Ora è proprio lo scoppio della crisi e quindi la possibile ripresa della rivoluzione che lo spinge a mettere per iscritto il risultato delle sue lunghe ricerche. Nella «schifenza borghese degli ultimi sette anni» – come diceva Engels –, era difficile uscire fuori con una parola nuova, perché nessuno l’avrebbe raccolta, nessuno l’avrebbe capita. Ora invece era necessario riapparire davanti al pubblico tedesco, per dire «che siamo sempre qui, sempre gli stessi». Ma soprattutto per dare un contributo pratico allo sviluppo imminente della rivoluzione europea. A parte gli articoli sulla «crisi economica europea» apparsi sul «N.Y.T.» tra il gennaio è il maggio del ’58, il primo lavoro scientifico da Marx destinato alla stampa è forse quella prima redazione di Per la critica dell’economia politica, che qui pubblichiamo e che fu scritto tra il settembre e il novembre 1858. Ma Marx non era affatto contento del risultato. Nel corso del ’58 non solo si erano aggravate le sue condizioni economiche, ma si erano accentuati alcuni malanni fisici contro i quali doveva lottare. Scrive a Lassalle il 12 novembre 1858: «Per quanto riguarda il ritardo nell’invio del manoscritto, prima me lo impedì la malattia e poi altri lavori, che erano rimasti arretrati e che dovetti fare per guadagnare qualcosa. Ma il vero motivo è questo: la materia ce l’avevo pronta; si trattava ormai sono della forma. Ma in tutto quello che scrivevo sentivo nello stile l’influenza del mal di fegato. E io ho un doppio motivo per non permettere a questo scritto di lasciarsi rovinare per ragioni di malattia: 1. Esso è il risultato di ricerche durate 15 anni, cioè del periodo migliore della mia vita. 2. Esso propugna per la prima volta in modo scientifico una importante concezione dei rapporti sociali. Ho quindi il dovere verso il partito di impedire che la cosa venga deturpata da una maniera di scrivere ottusa e legnosa... Finirò tra quattro settimane circa, dato che in fondo ho incominciato a scrivere»[32]. Ha incominciato a scrivere la stesura definitiva che concluderà il 21 gennaio 1858. Ma dei tre capitoli in programma: 1) la merce, 2) il denaro o la circolazione semplice, 3) il capitale in generale, come apparivano ancora nel testo primitivo, escono ora solo i primi due. «Ciò è un bene per due motivi. Se la cosa va, può seguire presto il terzo capitolo sul capitale. In secondo luogo, siccome per la parte pubblicata, e data la natura stessa del soggetto, i porci non potranno ridurre la loro critica a semplici improperi di tendenza, e siccome l’insieme ha un’area exceedingly seria e scientifica, costringo quelle canaglie a prendere poi rather seriously le mie idee sul capitale»[33]. Nel gennaio del ’59 scrive l’altra prefazione al suo lavoro e Per la critica dell’economia politica (Primo quaderno) è pronta per la stampa. Esce il 10 giugno presso l’editore Franz Duncker di Berlino in una edizione di 1000 esemplari. «Quelle canaglie» rispondono con la congiura del silenzio.

Ma già nell’ottobre Marx riprende i suoi studi economici al British Museum. Legge Verri e Beccaria, oltre a Jones, Bailey, Hopkins e altri. Nel gennaio 1860 affronta i Rapporti degli ispettori di fabbrica dal 1855 al 1859; legge di nuovo la Situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels, insieme alle principali opere di Smith e di Ricardo e ai maggiori scritti di Malthus. Nello stesso periodo, studia di nuovo i classici della politica, Montesquieu, Locke, Hobbes, Aristotele, Platone.

Con il 1861 Marx comincia la compilazione, la stesura, la rifinitura di tutti quei materiali che entreranno a far parte dei quattro libri del Capitale. Sui lavori preparatori del Capitale bisognerà tornare in altra occasione, con un discorso a parte. Qui si possono dare solo cenni generali.

È noto che i primi a essere scritti – fra l’agosto 1861 e il giugno 1863 – furono proprio quei 23 quaderni che formano oggi il IV libro del Capitale e che Kautsky considerò opera indipendente con il titolo complessivo di Teorie sul plusvalore. È questa – secondo Engels – la vera e propria continuazione di quel primo fascicolo apparso a Berlino nel 1859[34]. La parte che doveva uscire come terzo capitolo, il capitale in generale, era già pronta alla fine del 1862. Il 28 dicembre Marx scrive a Kugelmann: «La seconda parte è ora finalmente pronta… È la continuazione del fascicolo I, ma compare come opera a sé sotto il titolo Il capitale, e Per la critica dell’economia politica solo come sottotitolo. Infatti essa abbraccia la materia che doveva costituire il terzo capitolo della prima parte, cioè “il capitale in generale”. Non vi sono quindi compresi la concorrenza dei capitali e il credito. In questo volume è contenuto ciò che gli inglesi chiamano the principles of political economy»[35]. Senonché Marx, prima di pensare a pubblicare una parte, voleva avere sotto gli occhi tutto l’insieme dell’opera. Nel ’58 la Critica dell’economia politica doveva comprendere sei libri: 1) il capitale, 2) la proprietà fondiaria, 3) il lavoro salariato, 4) lo Stato, 5) il commercio internazionale, 6) il mercato mondiale[36]. Ora la materia si è a tal punto ampliata che solo il capitale arriva a comprendere quattro libri: 1) processo di produzione del capitale; 2) processo di circolazione del capitale; 3) formazione del processo complessivo; 4) contributo alla storia della teoria[37]. Tra il ’64 e il ’65 Marx scrive la maggior parte del manoscritto del III libro. Quindi quando il 1° gennaio 1866 comincia a dare la stesura definitiva ai materiali del I libro, aveva già pronto il piano di tutta l’opera e aveva già steso in gran parte sia la parte storica sia la parte che doveva abbracciare in uno sguardo complessivo la totalità del processo di produzione capitalistico. Solo il II libro verrà steso in seguito tra il 1870 e il 1879.

Né Engels né Kautsky hanno pubblicato per intero i manoscritti lasciati da Marx e che costituiscono i materiali dei libri II, III e IV del Capitale. Riazanov, in una esposizione davanti all’Accademia socialista di Mosca, nel novembre 1923, propose il piano di pubblicazione di tutti i manoscritti del Capitale nel quadro della MEGA, di cui dovevano formare la seconda sezione. Le edizioni dei libri II e III, preparati da Engels, dovevano seguire l’edizione dei manoscritti originali. Ma la seconda edizione della MEGA è ancora di là da venire, ferma com’è agli anni 1935.

Tutti sanno che Marx pubblicò personalmente solo il primo libro della sua opera. Una prima piccola anticipazione di esso c’era nelle due conferenze tenute al Consiglio generale dell’Associazione internazionale degli operai nelle sedute del 20 e 27 giugno 1865: è la polemica celebre contro il cittadino Weston, su salario, prezzo e profitto. Ma solo nel marzo 1867 arrivò a terminare la stesura dell’intero libro, nella sua redazione classica, come un «tutto artistico». Egli aveva ritenuto necessario ricominciare ab ovo, cioè dal riassumere il suo scritto Per la critica... in una prima sezione intitolata Merce e denaro. E lo aveva fatto perché anche delle teste capaci non avevano compreso bene la cosa, e dunque vi doveva essere nella prima esposizione qualcosa di manchevole, specialmente nell’analisi della merce. Fu Kugelmann che lo convinse poi della necessità di una esposizione supplementare, maggiormente didascalica, della forma di valore. E Marx si impegna – nel maggio del ’67 – a preparare un’appendice su questo problema. Lo stesso Engels gli scriveva: «Tu hai commesso il grosso errore di non rendere evidente la linea del pensiero di questi sviluppi più astratti, mediante un maggior numero di piccole ripartizioni e di sottotitoli separati. Avresti dovuto trattare questa parte al modo dell’Enciclopedia di Hegel, con brevi paragrafi, rilevando ogni passaggio dialettico con speciali titoli e possibilmente stampando tutti gli excursus e le pure note illustrative con caratteri speciali. La cosa poteva apparire un po’ da maestro di scuola, ma la comprensione sarebbe stata facilitata sostanzialmente per una categoria molto vasta di lettori. Il populus, anche quello istruito, non è più abituato a questo modo di pensare e gli si deve allora venire incontro con ogni possibile facilitazione»[38]. Marx lavorava già intorno a questo e risponde a Engels: «Per quanto concerne lo sviluppo della forma di valore, ho seguito e non seguito il tuo consiglio, per mantenere anche a questo riguardo una linea dialettica. Cioè: 1) ho scritto un’appendice in cui espongo la medesima cosa nel modo più semplice e nel modo più da maestro di scuola che mi sia stato possibile; 2) ho ripartito ogni gradino dello sviluppo in paragrafi ecc., con propri sottotitoli»[39]. Anzi, pochi giorni dopo, perché possa vedere con quanta esattezza ha seguito il suo consiglio, gli trascrive la suddivisione dei paragrafi e dei titoli dell’appendice stessa[40]. Inoltre scrive a Kugelmann: «Ho mandato qualche giorno fa a Lipsia l’appendice con titolo: La forma di valore, appendice al capitolo I, I. Lei conosce l’autore di questo piano, cui con la presente rendo grazie per la sua suggestion»[41]. Sono nate così queste pagine che qui pubblichiamo, rifuse poi, per la seconda edizione, nel testo del primo capitolo, sulla merce. Alle due di notte del 16 agosto 1867, anche quest’ultimo foglio di stampa è corretto. E dunque – scrive Marx – questo volume è pronto. Ai primi di settembre esce presso l’editore Meissner di Amburgo, anch’esso in mille esemplari. «Perché dunque non vi ho risposto? Perché ero sull’orlo della tomba, continuamente. Per questo dovevo utilizzare ogni momento che potevo dedicare al lavoro, per terminare la mia opera cui ho sacrificato la salute, la felicità della vita e la famiglia. Spero che a questa spiegazione non occorra aggiungere altro. Mi fanno ridere i cosiddetti uomini “pratici” e la loro saggezza. Se uno sceglie di essere bue, allora può naturalmente voltare le spalle alle sofferenze dell’umanità e occuparsi solo dei fatti propri. Ma io considererei veramente ben poco pratico se fossi crepato senza avere completamente finito il mio libro, almeno in manoscritto».

Nel Capitale si conclude e riassume l’opera gigantesca di Marx e praticamente tutti quegli studi economici che ormai duravano da venticinque anni e che andranno avanti fino alla sua morte. Dopo il 1867 ci sono i lavori preparatori per il secondo libro, di cui ci dà notizia particolareggiata Engels nella prefazione alla prima edizione. Per la seconda edizione tedesca del primo libro, Marx stesso scrive nel gennaio 1873 quel Poscritto, che tanta importanza ha per la precisazione del suo metodo. Intanto lavora alla revisione della traduzione francese a cura di J. Roy, che uscirà tra il 1872 e il 1875, e che lo costringerà man mano a un lavoro originale, in base al quale questa edizione acquisterà un valore scientifico a parte rispetto all’edizione tedesca. Nel 1875 elabora per il terzo libro del Capitale un’esposizione matematica particolareggiata del rapporto tra il saggio del plusvalore e il saggio del profitto[42]. Nel 1877 scrive il X capitolo della seconda parte dell’Antidühring di Engels, ultimo suo lavoro sistematico destinato alla pubblicazione. Nel marzo 1880, Marx redige per il Partito operaio francese una Inchiesta operaia, in 101 domande, che appare per la prima volta sulla «Revue socialiste» del 20 aprile 1880 e viene poi diffusa in un estratto di 25.000 esemplari per tutta la Francia[43]. «Gli operai comprenderanno che essi soli possono descrivere con conoscenza di causa i mali che sopportano, che essi soli, e non dei provvidenziali salvatori, possono applicare energicamente i rimedi alle miserie sociali di cui soffrono; contiamo anche sui socialisti di tutte le scuole che, volendo una riforma sociale, devono volere una conoscenza esatta e positiva delle condizioni nelle quali vive e lavora la classe operaia, la classe a cui appartiene l’avvenire. Questi Cahiers du travail sono la prima opera che si impone alla democrazia socialista per preparare il rinnovamento sociale»[44].

Nei quaderni del 1881-82, ma scritta probabilmente nel dicembre 1880, troviamo la critica minuziosa e serrata di tutti i luoghi che riguardano il Capitale nel Lehrbuch der politischen Oekonomie di Adolph Wagner: ed è questo l’ultimo lavoro economico di Marx[45]. In questi stessi quaderni – testimonianza degli ultimi interessi di Marx – troviamo estratti da opere e articoli sullo sviluppo della grande industria americana e in genere sulla situazione economica degli Stati Uniti.

Questa prima rassegna, largamente sommaria, degli studi economici di Marx, ci è sembrata necessaria come introduzione alla lettura di alcuni di questi testi ancora sconosciuti, che a loro volta non sono che una scelta incompleta tra i tanti che rimangono ancora da pubblicare e da tradurre. Forse apparirà meglio ora il legame che li unisce. Tranne che la Forma di valore (e, s’intende, l’Inchiesta operaia), gli altri sono testi non destinati immediatamente alla pubblicazione. Rispettano tutti quel particolare stile che Marx riservava ai suoi lavori personali e che Engels ha così bene descritto: «Stile trascurato, familiare, con frequenti espressioni e locuzioni ruvidamente umoristiche, con definizioni tecniche inglesi e francesi...; pensieri buttati giù nella forma in cui a mano a mano si sviluppavano nella mente dell’autore. Accanto a singole parti trattate diffusamente, altre, parimenti importanti, soltanto accennate...; alla chiusa dei capitoli, per l’urgenza di arrivare al capitolo successivo, spesso soltanto un paio di frasi tronche, come pietre miliari degli sviluppi lasciati incompiuti»[46].

Quando il giovane Kautsky domandò a Marx se egli non pensava di pubblicare una edizione completa delle sue opere, Marx rispose: «Queste opere devono prima di tutto essere scritte»[47]. Se si pensa che fu data nel 1881, questa risposta acquista un senso più profondo di quanto non appaia a prima vista. È chiaro che la ricerca marxista non può esaurirsi oggi in una Marx-philologie: perché sarebbe questa veramente la morte del marxismo. È altrettanto chiaro però che da qui bisogna partire, se si vuole riprendere un discorso che con l’opera di Marx abbia un rapporto non di fedeltà – che è atteggiamento passivo – ma di coerenza – che è rapporto attivo di conoscenza e di sviluppo insieme.

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La critica dell’economia politica è dunque il filo conduttore del pensiero di Marx. «Per la critica dell’economia politica con l’aggiunta di un capitolo finale sulla filosofia di Hegel» è il titolo che Marx stesso dà alla sua opera del ’59. «Critica dell’economia politica» è il sottotitolo del Capitale, di tutti i quattro libri del Capitale. Intorno a questo filo si organizza e si intreccia tutta la vita e l’opera di Marx.

Abbiamo già visto. Dopo aver fatto i conti con la dialettica hegeliana, dopo essersi liberato della vecchia conoscenza filosofica, dopo aver esperimentato le prime forme utopistiche di rivolta morale contro il sistema, si trattava di operare una rottura radicale con tutto il vecchio modo di pensare. Questo si poteva fare soltanto a condizione di cogliere il vizio fondamentale, il carattere specifico, il tratto comune del pensiero allora dominante, attraverso un’analisi rigorosa che fosse al tempo stesso una critica distruttiva. Nel ’44 il programma era di dare, in diversi opuscoli separati, la critica del diritto, della morale, della politica ecc., per tentare infine di ritrovare la connessione dell’insieme, il rapporto organico delle singole parti, attraverso una critica unitaria e complessiva del comune contenuto speculativo. È a questo punto che si colloca l’incontro con l’economia politica. E questo incontro naturale e necessario modifica l’intero programma, sposta il centro essenziale dell’interesse, diventa esso il perno unitario e complessivo a cui tutto il resto – in ultima istanza – va riferito, per essere compreso. Troviamo quindi Marx, a Parigi, che studia con passione e annota e analizza con diligenza il periodo classico dell’economia politica; scopre – direi – l’esistenza di questa nuova scienza e subito se ne entusiasma, perché la scopre già come scienza borghese per eccellenza, come «testimonianza e sussistenza scientifica» degli empirici rapporti economici, esistenti nel presente. Qui la critica dell’economia politica tiene d’occhio ancora e soltanto questi empirici rapporti: ma già questo – anzi proprio questo – è sufficiente per scoprire e mettere a nudo la concordia discors che esiste tra teoria e pratica borghese, il modo rovesciato, mistificato, in cui l’economista teorico testimonia la sussistenza pratica del rapporto economico.

Nei quaderni di excerpta del ’44, il commento più diffuso e più interessante di Marx riguarda l’opera di James Mill (1773-1836). James Mill, insieme a Mac Culloch e – secondo Schumpeter – insieme a West e De Quincey, rappresenta il nucleo centrale della scuola di Ricardo, i ricardiani cosiddetti «ortodossi». Autore della Analysis of the Phenomena Of The Human Mind (1829), esponente ufficiale della teoria benthamiana dello Stato, autore della monumentale History of British India (1817), che raggiunse, postuma, i dieci volumi, J. Mill va ricordato qui per le sue due opere di economia: Commerce Defended (1808) e Elements of Political Economy (1821, I ediz.)[48]. In Commerce Defended, viene sviluppata organicamente e per la prima volta – secondo Dobb – quella legge degli sbocchi che viene di solito attribuita a J.B. Say e che comunque ricorre in molti scritti della scuola ricardiana[49]. I Princípi di economia politica costituiscono a loro volta «un modello che doveva servire di esempio a molte trattazioni posteriori e che costituì il prototipo del trattato di economia»[50]. Venne considerato in Inghilterra il «Manuale degli economisti». Mill dice nella Prefazione: «Il mio scopo è stato quello di comporre un libro elementare di Economia politica, separare i princípi essenziali della scienza da tutto ciò che è estraneo a essa, stabilire le proposizioni chiaramente e nel loro ordine logico, aggiungendo a ciascuna la sua dimostrazione... Io non posso temere taccia di plagiario, giacché dichiaro di non aver fatto alcuna scoperta». E infatti «quest’opera – dice Mac Culloch – riassume la dottrina di Smith intorno alla produzione, di Ricardo intorno alla distribuzione, di Malthus intorno alla popolazione...»[51]. Marx parla di J. Mill nelle Teorie sul mezzo di circolazione e sul denaro, a proposito della sua teoria monetaria[52]. Ma le più penetranti osservazioni di metodo – che sono quelle che qui ci interessano – Marx le espone nelle Teorie sul plusvalore[53]. «Mill da un lato vuole rappresentare la produzione borghese come la forma assoluta della produzione, e quindi cerca di dimostrare che le sue contraddizioni reali sono soltanto apparenti. Dall’altro cerca di rappresentare la teoria ricardiana come la forma teoretica assoluta di questo modo di produzione e di dimostrare l’inesistenza delle contraddizioni teoretiche messe in evidenza da altri o impostesi da se stesse». Il libro di J. Mill dà quindi a Marx la possibilità di entrare subito nel merito dei più grossi problemi del momento: il rapporto merce-denaro; il denaro come intermediario dello scambio; il problema complesso – più complesso evidentemente di quanto non appaia qui, dove viene preso nei suoi termini generalmente umani, come «giudizio dell’economia sulla moralità di un uomo» –, il problema, dicevamo del credito, della Banca, del capitale finanziario; il senso pratico dei concetti di alienazione e di reificazione; il senso teorico della proprietà privata e del lavoro; la pura e semplice apparenza del rapporto sociale umano dentro la realtà del rapporto capitalistico di produzione e di scambio. Questi sono i principali temi di questo scritto del ’44: ed è la problematica dei Manoscritti economico-filosofici, di cui ritroviamo qui la stessa terminologia, la stessa passione teorica e pratica insieme, lo stesso oggetto polemico, che è la realtà pratica della società borghese moderna, vista attraverso lo specchio deformante dell’economia politica teorica.

L’ulteriore cammino di Marx non è che l’ulteriore approfondimento di questi temi e insieme la collocazione di essi in un contesto specifico di ricerca e di analisi che sempre più assume il passo, e cioè il metodo, dell’analisi e della ricerca scientifica. Gli scritti qui pubblicati ci permettono di cogliere Marx nel suo genuino metodo di lavoro. E ci introducono alla lettura delle sue opere maggiori. Come questi scritti del ’44 ci riaprono davanti i Manoscritti economico-filosofici, così l’Urtext ci fa entrare nel processo stesso di composizione di Per la critica dell’economia politica.

Abbiamo già detto che dei tre quaderni in cui si trovava questo Urtext, è giunta a noi solo la conclusione del manoscritto, i quaderni B’ e B’’. Manca tutto il primo capitolo, sulla merce; manca la prima parte del secondo capitolo, sul denaro; diversa è la disposizione dei paragrafi rispetto al testo compiuto. In più c’è, alla fine del secondo capitolo, una prima esposizione del passaggio al capitale e l’inizio di quello che doveva essere il terzo capitolo, sul capitale, rimasto interrotto nel mezzo del processo di trasformazione del denaro in capitale. I Grundrisse documentano che questi ultimi passaggi erano stati elaborati da Marx tra il novembre del ’57 e il giugno del ’58, nei quaderni privati di questo periodo. Possiamo dire perciò che questa parte dell’Urtext è la prima esposizione, che abbiamo, del processo di trasformazione del denaro in capitale, – di quella parte cioè che formerà poi la seconda sezione del primo libro del Capitale. L’ultima parte è quindi di gran lunga la più importante. Ma sarebbe sbagliato tralasciare la prima parte da cui tutto il resto discende logicamente. Anzi sarebbe opportuno integrarla con il primo capitolo di Per la critica..., o con i due primi capitoli della prima sezione del Capitale, o anche, in parte, con la Forma di valore. Le definizioni del denaro come rappresentante materiale della ricchezza generale, come unico nexus rerum tra gli uomini, come proprietà «impersonale», come merce universale, si iscrivono tra le migliori trattazioni marxiane di questa materia. Inutile ricordare l’importanza teorica e pratica che Marx dava a questa ricerca. Un solo esempio: lettera a Weydemeyer, 1° febbraio 1859, quando parla della prossima uscita di Per la critica...: «In questi due capitoli viene contemporaneamente scalzato dalle fondamenta il socialismo proudhoniano, ora fashionable in Francia, il quale vuole conservare la produzione privata, ma vuole organizzare lo scambio dei prodotti privati, vuole la merce, ma non il denaro. Il comunismo deve prima di tutto sbarazzarsi di questo “falso fratello”. Ma, a prescindere da ogni fine polemico, tu sai che l’analisi delle forme semplici del denaro è la parte più difficile, perché più astratta, dell’economia politica»[54].

Attraverso tutta la serie delle sue determinazioni il denaro può presentarsi infine proprio come denaro: ma è qui che rivela il suo limite oggettivo. La circolazione semplice del denaro non ha in sé il principio dell’autoriproduzione e perciò accenna al di là di se stessa. Nel denaro – come lo dimostra lo sviluppo delle sue determinazioni – c’è il capitale. Ecco perché è importante seguire lo sviluppo delle determinazioni del denaro: è importante per arrivare al capitale. Per la critica dell’economia politica senza il Capitale non si regge. La prima sezione del Capitale, su merce e denaro, è solo la premessa della seconda sezione, sulla trasformazione del denaro in capitale. È la premessa necessaria, non solo teorica, ma storica. Quando Marx dice: nel denaro c’è il capitale, aggiunge subito: «Questo trapasso è nello stesso tempo storico. La forma antidiluviana del capitale è il capitale mercantile, che sviluppa sempre denaro»[55]. Ma non è tutto qui. Anzi la cosa più importante non è qui, nel fatto che nel denaro c’è il capitale, ma nel fatto apparentemente opposto, che bisogna partire dal capitale per arrivare al denaro; bisogna aver capito teoricamente la categoria storica del capitale per arrivare a sciogliere «l’enigma del denaro»; e bisogna aver sciolto questo enigma del denaro per arrivare a scoprire tutta la «mistica oscura» della merce; e – vogliamo arrischiare ancora di più – bisogna aver messo a nudo questa mistica oscura della merce per arrivare a svelare tutta la magia borghese che avvolge l’oggetto, le cose, il mondo materiale dei prodotti umani, dinanzi agli occhi disumani dell’uomo stesso. Lo sviluppo logico ci dà prima il capitale e dopo il capitale il denaro, dopo il denaro la merce, dopo la merce il prodotto puro e semplice, cioè l’oggetto. Lo sviluppo storico invece parte dall’oggetto e poi l’oggetto diventa merce, la merce diventa denaro, il denaro diventa capitale. «Sarebbe dunque inopportuno ed erroneo disporre le categorie economiche nell’ordine in cui esse furono storicamente determinanti. La loro successione invece è determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese, e questo ordine è esattamente l’inverso di quello che sembra essere il loro ordine naturale o di ciò che corrisponde alla successione dello sviluppo storico. Non si tratta del posto che i rapporti economici occupano storicamente nel succedersi delle diverse forme di società e ancora meno della loro successione “nell’Idea” (Proudhon), che non è che una rappresentazione nebulosa del movimento storico, ma della loro connessione organica all’interno della moderna società borghese»[56]. Quando Marx pubblica i due capitoli su merce e denaro in Per la critica dell’economia politica, aveva già elaborato anche il terzo capitolo sul capitale: era proprio questo che volevamo dimostrare.

Così la Forma di valore viene logicamente dopo. E la difficoltà della sua comprensione è data proprio dal fatto che nasce storicamente prima. La sua natura è la più semplice e la più astratta; ma assume il massimo di semplicità e di astrazione logica solo al livello storico del capitale. «La forma di valore, della quale la forma di denaro è la figura perfetta, è poverissima di contenuto e semplicissima. Tuttavia, invano l’umanità da più di duemila anni ha cercato di scandagliarla a fondo, mentre d’altra parte l’analisi di forme molto più ricche di contenuto e molto più complicate è riuscita per lo meno approssimativamente. Perché? Perché il corpo già formato è più facile da studiare che la cellula del corpo. Inoltre, all’analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza d’astrazione. Ma per quanto riguarda la società borghese, la forma di merce del prodotto del lavoro, ossia la forma di valore della merce, è proprio la forma economica corrispondente alla forma di cellula. Alla persona incolta, l’analisi di tale forma sembra aggirarsi fra pure e semplici sottigliezze: e di fatto si tratta di sottigliezze, soltanto che si tratta di sottigliezze come quelle dell’anatomia microscopica»[57]. Si potrebbe ripetere per la forma di valore lo stesso discorso che Marx fa per il lavoro: che sembra una categoria del tutto semplice e molto antica; e tuttavia è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. Perché «le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo del concreto... Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, appare tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società più moderna»[58]. Di qui l’errore di considerare eterne le categorie storicamente determinate della società borghese; l’errore di vederle come punto di arrivo di tutta l’evoluzione del genere umano. L’economia politica al suo nascere ha creduto di partire dal concreto, dall’insieme vivente, dalla popolazione, la nazione, lo Stato; ma ha finito col trovare per via d’analisi alcune relazioni generali astratte: la divisione del lavoro, il denaro, il valore. Soltanto a questo punto cominciò il cammino inverso, che dava la possibilità di salire dal semplice al complesso, che è il metodo scientificamente corretto. Mi sembra inutile riesporre qui sia la critica di fondo che Marx fa al procedimento dell’economia politica, sia la costruzione positiva del suo metodo. Finirei per ripetere male ciò che è stato detto molto bene in altri luoghi: rimando senz’altro a quelli che mi sembra si iscrivano tutti in un medesimo orizzonte di pensiero e che danno nell’insieme una visione organica della cosa[59].

Il cammino attraverso gli scritti qui pubblicati ci trascina ora oltre l’economia politica classica e ci lascia in mezzo alla classica confusione della Vulgarökonomie. Marx ha avuto ben chiaro il senso di questo passaggio. E lo ha espresso molto chiaramente. L’economia classica si sforza di ricondurre, mediante l’analisi, le differenti forme della ricchezza, estranee l’una all’altra, alla loro unità intrinseca. Vuole comprendere questa connessione intrinseca, liberandola dalla molteplicità delle forme fenomeniche. Così essa ha ridotto all’unica forma del profitto tutte le forme del reddito; e ha reso possibile così la risoluzione del profitto in plusvalore, la risoluzione del lavoro pagato in salario, del lavoro non pagato in pluslavoro; la sussunzione di tutto questo movimento sotto la categoria del capitale. Il difetto dell’economia classica è stato quello di «risolvere la forma fondamentale del capitale, la produzione rivolta all’appropriazione di lavoro altrui, non come forma storica, ma come forma naturale della produzione sociale». Tuttavia, l’economia politica è andata di pari passo con lo sviluppo reale degli antagonismi sociali, con l’evoluzione delle lotte di classe implicite nella produzione capitalistica. Ma quanto più essa giunge a compimento, quanto più penetra in profondità e si sviluppa come un sistema delle antitesi, tanto più si libera all’interno di essa e si rende autonomo da essa il suo elemento volgare, – l’elemento cioè che «rappresenta la semplice riproduzione del fenomeno», la sua immediata forma di manifestazione, che in questo caso serve soltanto a nascondere l’intima contraddizione, la reale antitesi interna. Così «l’economia volgare diventa coscientemente sempre più apologetica e cerca di eliminare forzatamente a chiacchiere i pensieri in cui sono espresse queste antitesi». La sua migliore espressione diventa «una compilazione dottamente sincretistica e classica senza carattere». E allora anche l’apologetica perde il suo calore, la sua passione, diventa pura e semplice erudizione, pacifica compilazione. L’ultima forma dell’economia volgare è «la forma professorale, che procede “storicamente” e, con saggia moderazione, raccoglie qua e là il meglio, senza badare alle contraddizioni, ma solo badando alla compiutezza»[60]. Da James Mill siamo arrivati ad Adolph Wagner.

Adolph Wagner (1835-1917), Kathedersozialist, fondatore del partito cristiano-sociale, membro del Verein für Sozialpolitik, fautore della politica sociale bismarckiana, era uno dei leaders accademici più rumorosi del suo tempo. Ha a suo credito un notevole lavoro sulla moneta: Sozialökonomische Theorie des Geldes (1909) e una vasta opera sulla finanza pubblica: Finanzwissenschaft (4 voll. 1877-1901). Ed è «su questi risultati – dice Schumpeter – che dobbiamo aspettarci di veder consolidare la sua reputazione storica». Come economista analitico si ritenne un «teorico» e si oppose quindi alla scuola storica. «Soleva affermare che Rodbertus e Schäffle erano i due economisti dai quali aveva imparato di più e sempre mostrò un interesse critico per Ricardo che rimase per lui il teorico. Del lavoro della sua epoca non assimilò che i significati superficiali... Sempre eccettuando il campo della moneta, la sua originalità o addirittura la sua competenza in economia analitica non possono considerarsi elevate... Delle sue voluminose opere che sono, in misura quasi intollerabile, affette da rabies systematica, soltanto i suoi Princípi (Grundlegung der politischen Oekonomie, I ed., 1876), sostituiti dalla sua impresa cooperativa, il Manuale (Lehrund Handbuch der politischen Oekonomie), devono essere qui menzionati»[61].

Marx ha estratto e criticato dalla seconda edizione di questo testo gli accenni al Capitale, che si trovano tutti nel primo capitolo di Grundbegriffe, in particolare nel paragrafo sul valore. Ne sono venute fuori quelle Glosse a Wagner, che sono tuttora un lavoro quasi ignorato nella letteratura marxista e su cui ha il merito di aver attirato l’attenzione – credo per la prima volta – lo Sweezy nella sua Teoria dello sviluppo capitalistico[62].

L’ultimo lavoro economico di Marx si scontra dunque con l’ultima forma – la forma professorale – dell’economia volgare. Il Manuale di A. Wagner sembra scritto apposta per servire da esempio di questa forma. Si può dire di esso quello che Marx diceva dell’economia volgare in generale. «Poiché lavori di questo genere appaiono solo quando l’economia politica, come scienza, è morta, essi sono nello stesso tempo la tomba di questa scienza»[63].

Marx ha percorso così tutto il cammino dell’economia politica. L’ha presa dal suo folgorante inizio e l’ha seguita fino alla sua lenta morte. In questo senso ha potuto mettere in testa alle sue maggiori opere il titolo: Critica dell’economia politica. E cioè critica delle categorie economiche borghesi, ovvero «il sistema dell’economia borghese esposto criticamente». Nel metodo classico di Marx: «In pari tempo esposizione del sistema e critica di esso per mezzo dell’esposizione»[64]. Bisogna capire che è intorno a questo cammino che si struttura tutto il pensiero di Marx. Per evitare di separare, di scindere l’unità scientifica di questo pensiero. Ma questo si può fare soltanto a condizione di ritrovare nelle categorie dell’economia politica il sistema dell’economia borghese, e nel sistema dell’economia borghese la storia stessa della società borghese. Critica dell’economia politica vuol dire per Marx critica del capitalismo. Con lo stesso metodo: storia del sistema e critica di esso per mezzo della sua storia. È così che nel cammino teorico dell’economia politica noi vediamo muoversi tutto il cammino storico della società capitalistica.

La scoperta di Marx è proprio nella ricerca del carattere specifico che assume questa parte della storia umana, nella ricerca dei tratti determinati che la isolano e la fanno apparire come bersaglio unico su cui e contro cui va organizzata nello stesso tempo la ricerca teorica e la lotta pratica, l’una sempre intrecciata all’altra, l’una sempre in funzione dell’altra. Il richiamo alla biografia stessa di Marx aveva il valore di documentare questa tesi.

Tutte le categorie economiche portano le tracce della loro storia. «Nell’esistenza del prodotto come merce sono racchiuse determinate condizioni storiche». Per divenire merce, il prodotto non deve essere prodotto come mezzo immediato di sussistenza per colui che lo produce. Cioè la rappresentazione del prodotto come merce esige una divisione del lavoro dentro la società, sviluppata fino al punto che sia già compiuta la separazione fra valore d’uso e valore di scambio. Ma tale grado di sviluppo è comune a formazioni economico-sociali storicamente molto diverse l’una dell’altra. Così è per il denaro: esso presuppone un certo livello dello scambio delle merci. Le forme particolari del denaro – equivalente puro e semplice della merce, mezzo di circolazione, mezzo di pagamento, denaro tesaurizzato, moneta universale – indicano di volta in volta gradi molto diversi del processo sociale di produzione. Eppure una circolazione delle merci relativamente poco sviluppata è sufficiente per la produzione di tutte queste forme. «Ma per il capitale la cosa è differente. Le sue condizioni storiche d’esistenza non sono affatto date di per se stesse con la circolazione delle merci e del denaro. Esso nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale. Quindi il capitale annuncia fin da principio un’epoca del processo sociale di produzione»[65].

Quest’epoca del processo sociale di produzione è appunto la formazione economico-sociale capitalistica. Questa formazione economico-sociale ha evidentemente una sua storia interna, che non finisce, ma comincia con la nascita del capitale. La storia del capitalismo non è che la storia delle successive determinazioni del capitale: determinazioni storiche di un medesimo soggetto: e il soggetto è il capitale. Una volta che si è arrivati a distinguere le varie fasi di passaggio del capitalismo, una volta che si è arrivati a coglierle nella loro differenza specifica, a isolarle nella loro determinatezza storica, occorre fare il cammino inverso: ritrovare l’unità del movimento, riallacciare il filo della continuità, riscoprire il carattere comune che lega insieme queste varie parti e le colloca tutte in una medesima epoca del processo sociale di produzione, tutte dentro una determinata formazione economico-sociale. Continuità all’interno e rottura all’esterno: questo è il processo di sviluppo e di dissoluzione della formazione economico-sociale capitalistica.

Non tenere fermo questo punto, vuol dire cadere in un duplice errore. Il primo è l’errore di chi vede una cesura storica, una frattura irreparabile tra almeno due parti, due fasi del capitalismo stesso, che distinguerebbero appunto due epoche della società. Di qui il rimpianto, la nostalgia di quella che fu l’epoca d’oro del capitale e la sterile velleità di una sua restaurazione. Di qui la critica alla seconda fase del capitalismo in nome della prima: che è critica reazionaria, critica romantica, peggiore di quella del passato, perché ripetizione fuori tempo di quella del passato, – romanticismo di ritorno. Un tratto specifico della società capitalistica è proprio questo: che tali sono i rivolgimenti che si verificano al suo interno, tanta la rapidità con cui si realizzano, che danno spesso l’illusione di una radicale frattura storica, che venga a cambiare non solo il modo di esistenza, ma l’essenza stessa, o – come si dice oggi – la natura del capitalismo. Il discorso allora è sempre lo stesso: si vogliono le premesse, ma non si accettano le conseguenze. Prima si voleva la merce senza il denaro; poi si voleva il denaro senza il capitale; adesso si vuole il capitale senza lo sviluppo capitalistico. Mentre il punto è proprio quell’altro: che la libera concorrenza va vista proprio come premessa storica del monopolio; perché l’ipotesi astratta di una libera chance per tutti non poteva che concentrarsi nel privilegio economico di pochi, dei pochi possessori del capitale. Ecco perché Marx dice: la libera concorrenza è il monopolio. E l’altro punto è questo: che la civiltà dell’individuo liberale è proprio la premessa storica della civiltà democratica di massa; perché l’ipotesi dell’individuo astratto non poteva che rovesciarsi nel culto della massa empirica indistinta. Molti di coloro che oggi discettano sull’alienazione dovrebbero ricordare che quello che essi sperimentano oggi sulla loro produzione intellettuale, l’operaio moderno lo ha sperimentato sulla sua produzione materiale da quando esiste il capitale e insieme al capitale la classe dei capitalisti.

Ma dicevamo che c’è un secondo errore: quello di chi cerca di prolungare la continuità che è presente nello sviluppo storico della società capitalistica, oltre i confini di questa società; dando quindi a quella continuità un carattere eterno e definitivo, astratto e non storicamente determinato. Anche l’idea della società socialista viene fatta coincidere con l’ultima e più moderna forma di esistenza che è capace di assumere la società capitalistica. Di qui la critica al capitalismo solo dall’interno del capitalismo: che è critica menscevica, critica riformista, peggiore anch’essa di quella del passato, perché è un riformismo nemmeno più conquistato, ma concesso; riformismo non più del movimento operaio, ma del capitalismo stesso. Un altro tratto specifico del capitalismo è proprio il senso di eternità che riesce a dare alla sua storia: da una parte ci sono continui rivolgimenti che intervengono all’interno del modo di produzione capitalistico, d’altra parte proprio perché questi continui rivolgimenti non riescono a intaccare la natura del capitalismo, nasce l’illusione che questa sia la natura di ogni società umana e che quindi il problema sia solo quello di riformare, rammodernare, e magari razionalizzare questa forma naturale eterna di società. Il socialismo finisce per essere così solo una variante, e più precisamente la variante ultima del capitalismo: il passaggio dall’uno all’altro, se implica un rivolgimento, implica uno di quei rivolgimenti che avvengono normalmente all’interno del capitalismo e che mutano ora alcune forme tecniche della produzione, ora alcune forme politiche del potere. È così che sparisce dall’orizzonte, o meglio viene recuperato e dissolto dentro l’orizzonte borghese, il concetto stesso di rivoluzione: che per il movimento operaio è un concetto specifico, non generico; una realtà che consiste di determinatezza storica, perché è già in sé un concetto scientifico e non una figura retorica. Rivoluzione: cioè necessità di una frattura, di una rottura che coinvolga complessivamente la totalità della società: le forme economiche insieme a quelle politiche, le forme sociali insieme a quelle statali.

È più che chiaro quindi a questo punto il perché noi non partiamo da concetti. Il punto di partenza non può che essere la realtà storicamente determinata della formazione economico-sociale capitalistica. Per il marxista, l’oggetto dell’analisi è il capitalismo. Ma il concetto del capitalismo si presenta al tempo stesso come realtà storica concreta della società capitalistica. L’oggetto da studiare è nello stesso tempo la realtà che si deve combattere. Di qui, da questa contraddizione positiva, il dramma felice del teorico marxista, che si trova a voler distruggere l’oggetto del proprio studio; anzi, a studiare l’oggetto esattamente per distruggerlo: l’oggetto della propria analisi è il proprio nemico. E questo è il carattere storicamente specifico della teoria marxista: la sua obiettività tendenziosa. Che è poi nient’altro che la situazione materiale dell’operaio, che si trova a dover combattere contro quello che egli stesso produce, e vuole eliminare le condizioni stesse del proprio lavoro, e spezzare il rapporto sociale della sua propria produzione. Il punto, cioè, della massima consapevolezza antagonistica, che basta, da solo, a racchiudere nell’operaio rivoluzionario moderno la condizione umana più alta di tutto il presente. È per questa via che il teorico marxista deve tendere sempre più a identificarsi con l’esistenza storica dell’operaio collettivo: fino al punto di sentirsi come parte organica, momento necessario, della lotta di classe operaia; al punto da concepire la propria costruzione teorica già come distruzione pratica, e il proprio pensiero come articolazione materiale del processo rivoluzionario. È vero che la teoria ha la forza di ricomprendere in sé il momento della pratica: ma è anche vero che non riesce mai completamente in questo compito. È vero che bisogna tendere ogni giorno a esaurire dentro il pensiero la conoscenza dei rapporti sociali materiali, ma sapendo in anticipo, con certezza, che non si potrà riuscire. Il primato materialista della prassi non ha che questo solo senso. Se già la teoria – per suo conto e come fatto specifico – deve avere in corpo il momento dell’analisi e quello della sintesi, induzione e deduzione, materia e ragione, – a sua volta poi tutta la teoria deve essere considerata solo come atto sintetico rispetto al momento analitico della pratica rivoluzionaria. Proprio perché la teoria si presenta già come «teoria della pratica», può essere ricompresa poi – correttamente – tutta quanta dentro la pratica. Il metodo di salire, dentro la teoria, dall’astratto al concreto, è quello stesso che ci porta poi a risalire dal concreto parziale della teoria al concreto globale della pratica. La via stessa che porta l’operaio a salire dalla sua condizione operaia alla propria organizzazione di classe, dal regime di fabbrica al sistema della produzione, dalla necessità di essere parte del capitale alla possibilità di farlo saltare, proprio per questo, dal suo interno. E questo è il carattere storicamente specifico della rivoluzione operaia: un atto di volontà obiettivo. Se la critica dell’economia politica rientra tutta dentro l’analisi del capitalismo, la critica del capitalismo rientra poi tutta dentro la lotta di classe operaia. Anzi, la lotta di classe operaia è la critica decisiva del capitalismo, perché scopre teoricamente il segreto del capitale e materialmente lo colpisce. Non a caso, abbiamo messo qui, dopo la critica dell’economia politica, l’Enquête ouvrière.


Note
[1] V. Marx-Engels Gesamtausgabe (MEGA), I, 1, Erster Halbband, Berlin 1927, pp. 5-144, (tesi e studi preparatori) e I, 1, Zweiter Halbband, Berlin 1929. Exzerpte 1840-43, (letture filosofiche e storiche), pp. 98-136.
[2] MEGA, I, 1, Erster Halbband, cit. Aus: Rheinische Zeitung für Politik, Handel und Gewerbe – 1842-43, pp. 179-393. Trad. it.: K. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Einaudi, Torino 1950, p. 535.
[3] Marx a Ruge, febbraio 1843, MEGA, I, 1, Zweiter Halbband, cit., p. 266 e sg.
[4] Marx a Ruge, settembre 1843, MEGA, I, 1, Erster Halbband, cit., p. 572. Trad. it. in K. Marx, Un carteggio del 1843 e altri scritti, Rinascita, Roma 1954, p. 37.
[5] F. Mehring, Vita di Marx, Rinascita, Roma 1953, pp. 75-76.
[6] MEGA, I, 3, Berlin 1932, Mémoires de Levasseur, pp. 419-434.
[7] MEGA, I, 3, cit., Oekonomische Studien, pp. 436-583.
[8] F. Engels, Prefazione alla prima edizione del II libro del «Capitale», 1885. V. K. Marx, Il Capitale, II, 1, Rinascita, Roma 1953, p. 14.
[9] Cfr. Karl Marx, Chronik seines Lebens in Einzeldaten, Moskau 1934, p. 26 e sgg.
[10] MEGA, I, 6, Berlin 1932, Exzerpthefte von Marx, Brüssel-Machester-Brüssel 1845-1847, pp. 597-618.
[11] V. in Appendice a K. Marx, Miseria della filosofia, Rinascita, Roma 1950, pp. 143-155.
[12] Cfr. M. Rubel, Bibliographie des oeuvres de Karl Marx, Paris 1956.
[13] V. in Appendice a Miseria della filosofia, cit., pp. 157-171.
[14] K. Marx, Lavoro salariato e capitale, Editori Riuniti, Roma 1960.
[15] Arbeitslohn, in Mega, I, 6, cit., pp. 451-472, e in K. Marx – F. Engels, Kleine ökonomische Schriften, Berlin 1955, pp. 223-249.
[16] K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori Riuniti, Roma 1962, p. 89.
[17] Mehring, Vita di Marx, cit., p. 187.
[18] K. Marx, Le lotte di classe in Francia, cit., pp. 285-86.
[19] Engels a Marx, 5 febbraio 1851, Carteggio Marx-Engels, I, Rinascita, Roma 1950.
[20] Marx a Engels, 11 febbraio 1851, Carteggio, I.
[21] Engels a Marx, 13 febbraio 1851, Carteggio, I.
[22] Marx a Engels, 2 aprile 1851, Carteggio, I.
[23] Engels a Marx, 3 aprile 1851, Carteggio, I.
[24] K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie, Berlin 1953, pp. 1102.
[25] Ivi, Aus den Heften von 1850-51 über Ricardo, pp. 765-839. E Aus Heft III: Bastiat und Carey, pp. 843-853.
[26] Cfr. Chronik, cit., pp. 96-176 e Rubel, Bibliographie, cit., Oeuvres inédites, pp. 225-227.
[27] V. Grundrisse, cit., p. 986.
[28] V. Grundrisse, cit., p. 1044.
[29] Marx a Engels, 18 dicembre 1857, Carteggio, III.
[30] Marx a Engels, 13 novembre 1857, Carteggio, III.
[31] V. in Mehring, Vita di Marx, cit., p. 254.
[32] Marx a Lassalle, 12 novembre 1858, in K. Marx – F. Engels, Briefe über «Das Kapital», Berlin 1954, p. 93.
[33] Marx a Engels, 13 gennaio 1859, Carteggio, III.
[34] Engels, Prefazione al II libro del «Capitale», cit., p. 10
[35] Marx a Kugelmann, 28 dicembre 1862, in Lettere a Kugelmann, Rinascita, Roma 1950, p. 21.
[36] Marx a Lassalle, 22 febbraio 1858, in Briefe über «Das Kapital», cit., p. 81.
[37] Marx a Kugelmann, 13 ottobre 1866, in Lettere a Kugelmann, cit., p. 40.
[38] Engels a Marx, 16 giugno 1867, Carteggio, V.
[39] Marx a Engels, 22 giugno 1867, Carteggio, V.
[40] Marx a Engels, 27 giugno 1867, Carteggio, V.
[41] Marx a Kugelmann, 13 luglio 1867, in Lettere a Kugelmann, cit., p. 47.
[42] Cfr. Chronik…, cit., p. 355.
[43] K. Marx, Umfrage unter den französischen Arbeitern (Enquête ouvrière), in Marx-Engels, Kleine ökonomische Schriften, cit., pp. 391-410.
[44] Ivi, pp. 392-93.
[45] K. Marx, Randglossen zu Adolph Wagner «Lehrbuch der politischen Oekonomie», in Das Kapital, Moskau 1932, pp. 841-853.
[46] F. Engels, Prefazione al II libro del «Capitale», cit., p. 9.
[47] K. Kautsky, Aus der Frühzeit des Marxismus, Enegels’ Briefwechsel mit Kautsky, Prag 1935, p. 53.
[48] J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, II, Einaudi, Torino 1959, p. 579.
[49] M. Dobb, Economia politica e capitalismo, Einaudi, Torino 1950, p. 49.
[50] E. Roll, Storia del pensiero economico, Einaudi, Torino 1954, p. 49.
[51] Biblioteca dell’economista. Prima serie. Trattati complessivi. Vol. V (Lauderdale, Malthus, Senior, Giac. Mill, Bentham, J.B. Say), Pomba, Torino 1854. Qui Giacomo Mill, Elementi di economia politica, pp. 703-823. Il brano della sua Prefazione è a p. 705. Mentre il brano di Mac Culloch è citato nell’Introduzione a tutto il volume, p. XLV.
[52] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, pp. 161-164.
[53] K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, Da Ricardo all’economia volgare, Einaudi, Torino 1958, pp. 94-166.
[54] Marx a Weydemeyer, 1° febbraio 1859, in Briefe über «Das Kapital», cit., p. 96.
[55] Marx a Engels, 2 aprile 1858, Carteggio, IV.
[56] Introduzione alla critica dell’economia politica (1857), Rinascita, Roma 1954, p. 49.
[57] Il Capitale, I, 1, Rinascita, Roma 1955, Prefazione, pp. 15-16.
[58] Introduzione alla critica dell’economia politica (1857), cit., pp. 43-44.
[59] G. Della Volpe, Per una metodologia materialistica dell’economia e delle discipline morali in genere, in Rousseau e Marx, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 99-141 e ancora Logica come scienza positiva, D’Anna, Messina-Firenze 1956, soprattutto il quarto capitolo da p. 185 in poi. G. Pietranera, Marx e la storia delle dottrine economiche, «Società», febbraio 1955 e soprattutto La struttura logica del «Capitale», «Società», n. 3 e n. 4, 1956; v. anche Capitalismo ed economia, Einaudi, Torino 1961, soprattutto la Parte quarta. L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Introduzione ai Quaderni filosofici di Lenin, Feltrinelli, Milano 1958, specialmente pp. CXXVII-CXLIV, e ora, sempre di Colletti, la Prefazione (pp. LIX) a E.V. Il’enkov, La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx, Feltrinelli, Milano 1961.
[60] K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, cit., pp. 517-519.
[61] J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi, III, Einaudi, Torino 1960, p. 1046.
[62] P.M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino 1951, pp. 50-51.
[63] K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, cit., p. 520.
[64] Marx a Lassalle, 22 febbraio 1858, Briefe über «Das Kapital», p. 80.
[65] Il Capitale, I, 1, cit., p. 187.

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