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La critica marxiana del misticismo logico hegeliano e la critica antirevisionista del feticismo democratico

di Eros Barone

marxcop 660x4002xLa fortuna del giovane Marx e il suo uso revisionista

Gli opportunisti del nostro tempo ripetono cose che i revisionisti della Seconda Internazionale avevano già scoperto. Per questo le critiche che Lenin fece ai Kautsky, ai Vandervelde, agli Otto Bauer, colpiscono giusto anche oggi. Anzi, come oggi il riformismo ha accentuato la sua funzione di agente del capitalismo e dell’imperialismo in seno alla classe operaia, nel senso che questo legame è diventato diretto e immediato, così ha perso in gran parte quella capacità teorica che distingueva pur sempre i revisionisti dell’epoca di Lenin. Oggi la mistificazione della essenza rivoluzionaria del marxismo è più grossolana e assai meno ‘dialettica’ di un tempo.

Per quanto concerne le opere giovanili di Marx e, segnatamente, la Critica della filosofia hegeliana e i Manoscritti economico-filosofici del 1844, occorre rilevare innanzitutto che esse sono state edite soltanto nei primi decenni del ventesimo secolo, cioè in un periodo in cui il marxismo si identificava praticamente con l’Internazionale Comunista e con la dittatura del proletariato in Unione Sovietica. Immediatamente, fin da quegli anni, e poi ancora più clamorosamente in séguito, il “giovane Marx” ebbe una fortuna insospettata in Europa occidentale e particolarmente in Germania. Intorno al 1930 il giovane Marx fu preda degli intellettuali socialdemocratici e non marxisti, che lo usarono in funzione anticomunista e antisovietica. Accadde così che per combattere la concezione, allora dominante (grazie alla grandiosa opera di Lenin e, poi, di Stalin) del marxismo come scienza e del socialismo come movimento rivoluzionario tendente ad instaurare la dittatura del proletariato, fu “scoperto” un Marx “umanista”, “democratico”, “storicista”, “moralista”. Il terreno favorevole a questa operazione, del resto, era già stato inconsapevolmente preparato con successo negli anni Venti dall’“ultrasinistrismo” di filosofi (“piccolo-borghesi”, secondo il giudizio di Stalin) come György Lukács e Karl Korsch, che avevano teso a sottolineare gli aspetti soggettivistici, volontaristici, antipositivistici, del pensiero marxiano.

Ma il giovane Marx era destinato ad incontrare una fortuna anche maggiore dopo la seconda guerra mondiale. In un primo momento, la riscoperta fu una salutare reazione all’ignoranza di Marx imposta negli anni del fascismo; in seguito, però, assunse un significato diverso. Fu infatti il XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (1956), con la totale svalutazione (in forme calunniose) della personalità politica e umana di Stalin e, quindi, anche del “suo” marxismo (di diretta derivazione leniniana), nonché di tutta l’esperienza storica della direzione staliniana, ad aprire la strada ad una diffusione del giovane Marx, quale nemmeno il Capitale in quel dopoguerra ha avuto, e ad una vasta serie di “marxismi immaginari”1. Delle opere giovanili si appropriarono, questa volta, gli intellettuali marxisti stessi (sovietici ed occidentali) e gli stessi partiti comunisti2; ma gli esiti di questa nuova operazione, data la premessa del XX Congresso, non potevano essere differenti da quelli dell’operazione socialdemocratica degli anni Trenta (come analoghi, d’altra parte, furono gli argomenti). La reazione antistalinista e antileninista mirò dunque a riportare in primo piano i problemi della “persona umana”, dell’“essenza dell’uomo”, del rapporto “uomo-natura”, dell’“individuo”, dell’uomo come “ente generico”, dell’“alienazione”, dell’“autonomia dei valori etici ed artistici”, e via dicendo; mentre, correlativamente, si diffuse un larvato disinteresse per il problemi delle “forze” e dei “rapporti” di produzione, del “plusvalore” e del “profitto”, delle “classi”. Insomma, venne resuscitata la versione del marxismo come “filosofia” e “assiologia”, a discapito della concezione del marxismo come “scienza” della società; talvolta, paradossalmente (ed è il caso della scuola dellavolpiana), pur riaffermandosi la scientificità del marxismo, si cercò di ricondurre la scienza nei confini di una filosofia di stampo neopositivista più o meno mascherata sotto il termine di “metodologia”. Tutto Marx fu reinterpretato come “giovane Marx”, e spesso il Marx maturo fu guardato come un cattivo continuatore di se stesso ventenne; né ci si peritò di “integrare” il marxismo con altre correnti filosofiche, dall’esistenzialismo allo strutturalismo; o, alternativamente, di rifiutare sì le eterointegrazioni, gli elementi estranei immessi nel copro del marxismo, ma soltanto per la buona ragione gli stessi “elementi” si riconoscevano come già presenti nel marxismo stesso3. Sennonché uno degli aspetti che marcarono la ‘riscoperta’ delle opere giovanili di Marx fu, sempre nel secondo dopoguerra, particolarmente in Italia, l’utilizzazione della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico ai fini della dimostrazione della ortodossia marxista della via pacifica al socialismo. In quella specifica congiuntura il revisionismo tese, da un lato, a rifarsi alle famose frasi di Marx contemplanti, per un periodo storico ben determinato, la possibilità eccezionale di un passaggio pacifico, parlamentare, al socialismo in Inghilterra, negli Stati Uniti ed in Olanda – operazione, questa, impraticabile dopo che Lenin in Stato e rivoluzione aveva tolto per sempre agli opportunisti il margine per costruire i loro sofismi appoggiandoli su queste citazioni di Marx –; e, dall’altro lato, il revisionismo di cui è questione, per opera dei suoi esponenti più scaltriti, si volse, sintonizzandosi con gli orientamenti coevi degli studiosi socialdemocratici e proponendone un’interpretazione centrista, verso gli elaborati del giovane Marx. In questo genere di manipolazioni degli scritti giovanili di Marx si distinse la tendenza revisionista rappresentata da una giovane generazione di intellettuali del PCI del tipo di Umberto Cerroni e di Augusto Illuminati, la quale fondava la sua mistificazione del marxismo sulla “discoverta”, per l’appunto, del giovane Marx. Questa operazione dimostrava, in effetti, come si stesse verificando una modificazione del tradizionale atteggiamento dei revisionisti verso i fondatori del marxismo.

Kautsky, ad esempio, in Terrorismo e comunismo citava a sostegno delle sue tesi l’evoluzione che Marx avrebbe compiuto nel suo giudizio sul terrore giacobino: dall’entusiasmo giovanile al più pacifico e umanitario giudizio della maturità, conformemente a quella “mitigazione dei costumi” che, come tendenza, operava, secondo Kautsky, tanto nella società europea della seconda metà dell’Ottocento quanto nel movimento operaio: tendenza che sarebbe stata spezzata dalla guerra imperialista e dal bolscevismo blanquista e terrorista4. Ben si comprende allora perché la socialdemocrazia tedesca, nel perseguire la sua politica collaborazionista, estrapolasse dal contesto alcune affermazioni di Engels come quella contenuta nella Critica del programma di Erfurt: «Si può immaginare che la vecchia società possa svilupparsi nella nuova per via pacifica, in paesi nei quali la rappresentanza popolare ha concentrato in sé tutto il potere, dove la Costituzione consente di fare ciò che si vuole quando si abbia dietro di sé la maggioranza del popolo, in repubbliche democratiche come la Francia e l’America, in monarchie come l’Inghilterra, dove sulla stampa si parla quotidianamente dell’imminente liquidazione della dinastia, e dove questa dinastia è impotente contro la volontà popolare. Ma proclamare queste cose in Germania, dove il governo è quasi onnipotente e il Reichstag e gli altri organismi rappresentativi sono privi di reale potere, e per di più proclamarlo senza necessità, significa togliere all’assolutismo la foglia di fico e servirsene per coprire la proprie nudità»5. Dal canto suo, il moderno revisionismo del secondo dopoguerra, al suo più alto livello teorico, criticava l’Engels dell’Anti-Dühring e della Dialettica della natura – testi sui quali si erano formate le generazioni socialiste della Seconda Internazionale e poi quelle comuniste della Terza Internazionale – in quanto li riteneva inficiati di hegelismo naturalistico o, financo, di darwinismo sociale, e ad essi contrapponeva il Marx della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico – scritto che era stato pubblicato per la prima volta nel 1927 -, dove Marx avrebbe condotto quella critica a fondo della dialettica hegeliana e formulato quella metodologia materialistica che è alla base del Capitale: critica e metodologia a cui Engels non sarebbe mai arrivato. D’altra parte, giova sottolineare che nella maggioranza dei partiti comunisti, in forma più o meno accentuata, il moderno revisionismo si innestava in qualche modo, non senza suscitare opposizioni e resistenze da parte dei filosofi più legati ad una rigorosa tradizione teorica marxista-leninista, sul tronco del materialismo dialettico e storico, laddove la speculazione sulla novità degli scritti giovanili di Marx era propria delle correnti filosofiche di stampo esistenzialista. In Italia si produceva invece il fenomeno contrario, giacché la “discoverta” del giovane Marx vedeva come protagonisti studiosi iscritti al PCI, quali Galvano Della Volpe, Lucio Colletti, Mario Rossi ecc., cosicché, seppure in modo contrastato, si andava affermando nel partito una nuova base filosofica ispirata al giovane Marx e i teorici del tipo di Valentino Gerratana venivano progressivamente rimpiazzati da interpreti filosofici delle istanze del moderno revisionismo del tipo di Umberto Cerroni, che ottenevano un largo successo tra i giovani6. Si trattava, in modo evidente, di una tendenza del revisionismo italiano ben più consistente, sul piano teorico, delle precedenti tendenze rappresentate dai Mondolfo, dai Tasca e dai Graziadei, e quindi ben più insidiosa e corrosiva in quanto non si fondava sui medesimi luoghi comuni già criticati da Lenin e tipici del classico opportunismo di matrice kautskiana. Ecco perché il compito che va assolto oggi, sul fronte del lavoro teorico marxista-leninista, è quello di aggiornare il leninismo, acquisendo in modo critico quegli scritti che Lenin non poteva conoscere e combattendo le interpretazioni opportunistiche di essi, in particolare quando assumono una diretta rilevanza politica.

 

Il posto della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico nella biografia intellettuale di Marx

Prima di passare alla Critica è necessario inquadrare nella biografia intellettuale di Marx questa opera su cui tanto ha speculato l’opportunismo per contrabbandare la filosofia politica democratica (borghese). Giova, a tal fine, servirsi di quanto Marx stesso scrisse nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica. Dice Marx che nella sua gioventù la sua «specialità erano gli studi giuridici», ma che non li coltivava «se non come disciplina subordinata accanto alla filosofia e alla storia». Nel 1842-’43 come redattore della «Gazzetta Renana», uno dei pochi fogli liberali tedeschi, Marx si trovò di fronte sia ad avvenimenti politici in cui emergevano direttamente i «cosiddetti interessi materiali», ragione per cui si trovò costretto ad occuparsi per la prima volta di problemi economici, sia alle manifestazioni del socialismo e del comunismo francesi. Fu così che con la sospensione della «Gazzetta Renana» Marx ebbe l’occasione di ritirarsi «dalla scena pubblica nella stanza di studio» e «il primo lavoro intrapreso, dal marzo all’agosto del 1843, per sciogliere i dubbi che lo assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel»7. Dunque, ed è importante sottolinearlo, questa opera fu scritta all’inizio della strada che, abbandonato il liberalismo, doveva portarlo al comunismo; come dice Marx, è «il primo lavoro» compiuto in questa direzione. Qual è, pertanto, il significato e l’importanza di questo studio? Marx, nello scritto testé citato, riconosce che l’importanza di questo lavoro consistette nel condurlo alla conclusione che «tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere comprese né per se stesse, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza»8. È chiaro che, quando Marx si esprimeva in questi termini, doveva inquadrare tutta la sua evoluzione intellettuale dall’angolo visuale del suo risultato, Il Capitale; perciò egli pose in luce la spinta che allora ebbe a studiare l’economia politica. E nel poscritto alla seconda edizione del Capitale vide nitidamente il significato peculiare di questo suo lontano lavoro: «Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent’anni fa, quando era ancora la moda del giorno»9. L’importanza specifica di questo studio sta infatti nella critica della dialettica hegeliana e delle mistificazioni che ne sono la diretta conseguenza: la deduzione del potere assoluto del monarca e del maggiorasco come fondamenti dello Stato razionale. Questa critica della logica hegeliana è un aspetto saliente del pensiero marxiano, anche se in quel momento rimase isolata. Sennonché, per accrescere l’importanza di questa opera i teorici opportunisti hanno amplificato questo aspetto fino a farne l’asse portante del marxismo. In realtà esso è solo uno degli strumenti con i quali deve operare il marxismo.

In quel momento dello sviluppo del pensiero di Marx abbiamo, sì, la critica della struttura viziosa del ragionamento hegeliano, mentre mancano ancora la teoria della lotta delle classi e il materialismo storico, ossia l’analisi materialistica della struttura dello Stato moderno. Senza lo studio dell’economia politica, che Marx inizierà l’anno dopo, non c’è né l’anatomia della società civile, né l’analisi della struttura e della funzione dello Stato borghese-capitalistico: questo è appunto l’insegnamento che Marx trae da questo suo studio e che metterà a profitto per la prima volta in modo organico solo nel Manifesto del partito comunista, cioè cinque anni dopo. E però si deve concludere che questa opera giovanile, contrariamente a quanto affermano gli pseudo-marxisti opportunisti, non ci dà la critica della struttura dello Stato capitalistico ma solo la critica “filosofica” della logica hegeliana. Che sia così lo dimostra un fatto fondamentale: in questa opera è ancora assente l’individuazione del proletariato come l’unica classe veramente rivoluzionaria e al massimo si parla di ricchi e di poveri.

 

Le interpretazioni opportuniste e il vero significato della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico

In breve, il “marxismo” non è ancora giunto alla sua prima espressione organica, che è quella del Manifesto, fondata per un verso sulla critica dell’economia politica, ovvero del capitalismo, e sulla teoria della lotta di classe, e per un altro verso sull’appello al proletariato e sull’idea del partito rivoluzionario, di cui il Manifesto è appunto il programma. Ma vi è di più: perché il “marxismo” sia veramente la scienza della rivoluzione proletaria occorre che Marx, come ha ben posto in evidenza Lenin, tragga dalla storia della rivoluzione europea e della Comune di Parigi questo fondamentale insegnamento: l’elemento essenziale della dottrina marxista non è la concezione della lotta di classe, che non a caso può essere accettata dalla stessa borghesia, bensì la teoria e la pratica della dittatura del proletariato. Sennonché i teorici opportunisti delle ‘nuove’ interpretazioni dimenticavano tutto questo e si fermavano addirittura alla fase preborghese del pensiero di Marx, facendo anche a meno della concezione della lotta di classe.

A questo punto, emerge con precisione quale sia il significato della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico dal punto di vista del marxismo (senza virgolette). Esso consiste nel meditato passaggio da una concezione della politica prevalentemente hegeliana alla concezione democratico-rousseauviana. Marx si muove ancora nell’àmbito della “emancipazione politica”, cioè di quella emancipazione che solo un anno più tardi, nella Questione ebraica, sarà definita come la rivoluzione borghese stessa. Basta analizzare il passo tanto citato dai teorici opportunisti per ottenere la dimostrazione della esattezza della tesi marxista-leninista, che qui viene argomentata, e la prova migliore del carattere truffaldino della “filologia” dei Cerroni e soci.

Scrive Marx: «Non si considera l’elezione filosoficamente, cioè nella sua essenza specifica, quando la si intende immediatamente in rapporto al potere del principe o al potere governativo. L’elezione è il rapporto reale, della reale società civile alla società civile del potere rappresentativo. Ossia l’elezione è il rapporto immediato, diretto, non meramente rappresentativo ma reale, della società civile con lo Stato politico. S’intende qui da sé che l’elezione costituisce l’interesse politico fondamentale della società civile reale. Soltanto nell’elezione illimitata, sia attiva che passiva, la società civile si solleva realmente all’astrazione da sé stessa, alla esistenza politica come sua vera esistenza generale, essenziale [tranne quello di questi due periodi, che è dovuto allo scrivente, i restanti corsivi sono di Marx]. Ma il compimento di questa astrazione è al contempo la soppressione dell’astrazione. Quando la società civile ha realmente posto la sua esistenza politica come la sua vera esistenza, ha contemporaneamente posto la sua esistenza civile, nella sua distinzione da quella politica, come inessenziale; e con una delle parti separate cade l’altra, il suo contrario. La riforma elettorale è, dunque, entro lo Stato politico astratto, l’istanza dello scioglimento di questo, come parimenti dello scioglimento della società civile»10. Una volta compreso che cosa significhi “astrazione”, “compimento della astrazione”, “soppressione della astrazione”, cioè la terminologia di cui Hegel si serve per designare il movimento dialettico – terminologia ripresa dal giovane Marx -, tutto il passo diventa chiarissimo e non c’è più spazio per le interpretazioni opportunistiche. Per i teorici opportunisti, infatti, i quali partivano dal presupposto impossibile secondo cui in questa opera Marx prospetterebbe i modi della rivoluzione sociale (per via democratica), laddove in realtà egli si limita a prospettare la semplice rivoluzione politica (o democratica), nel passo poc’anzi citato Marx si sarebbe spinto sino al punto di concepire il carattere contraddittorio del suffragio universale (e quindi delle istituzioni democratiche), che è, sì, da un lato il perfezionamento dello Stato politico, cioè borghese, ma dall’altro è il mezzo del suo superamento, cioè del superamento della separazione tra Stato e società civile, in quanto, sempre secondo i suddetti teorici, il progressivo potenziamento degli istituti democratici, portato avanti dal proletariato, avrebbe condotto direttamente al socialismo11. Quando Marx dice che la società civile (cioè il popolo immerso nell’industria, nei vari mestieri, nella sua “vita privata”) con la elezione illimitata (ossia con il suffragio universale) «si solleva realmente all’astrazione di sé stessa» e che questa astrazione è al contempo la soppressione dell’astrazione, vuol dire che con «la riforma elettorale» il popolo si fa Stato, sopprime quindi la sua condizione di alienazione (vita privata, parziale, dimezzata) nella società civile e si solleva alla «sua esistenza generale ed essenziale» (vita completa, conforme alla natura umana). L’introduzione del suffragio universale ha, dunque, il potere immediato di colmare la separazione di Stato politico (che cioè esclude il popolo) e società civile (popolo), di fare dello Stato del suo tempo quella «vera democrazia» che per il Marx del 1843 costituisce una meta chiliastica, ovvero il fine e la fine dello sviluppo storico, giacché con essa l’uomo riconquista integralmente la sua natura alienata.

Se, come facevano i teorici opportunisti, si prende la mitologia dell’emancipazione totale, la critica, per così dire, “socialisteggiante” della società borghese e della proprietà borghese che talvolta compare in questa opera, come il vero socialismo e come la critica veramente proletaria (e non populista) del capitalismo, allora sì che Marx commetterebbe lo stesso errore di un Cerroni, allora sì che bisognerebbe concludere che Marx è stato il primo opportunista, che Marx, in altri termini, non è il fondatore del socialismo scientifico e rivoluzionario ma di un socialismo piccolo- borghese. In realtà Marx, come ben risulta dal passo citato, si limita per il momento ad insediare sul trono del radicalismo democratico, con i suoi concetti (ma sarebbe meglio dire miti) di popolo e di sovranità popolare, il concetto di società civile derivatogli da Hegel e quello di alienazione con la connessa esigenza della emancipazione, che, se gli derivò anch’esso da Hegel e da Feuerbach, è, come il primo concetto, già tipico dell’illuminismo.

 

Revisionismo e leninismo di fronte alla Critica giovane-marxiana

Nella prima parte del presente articolo si è dimostrato che, contrariamente a quanto a suo tempo asserito dai teorici opportunisti, le conclusioni politiche che si ricavano da questa opera giovanile di Marx sono puramente democratiche e sfociano nella rivendicazione, di stampo squisitamente rousseauiano, di uno Stato che sia espressione della volontà generale mediante «la partecipazione il più possibile generale al potere legislativo», si risolvono, cioè, nella richiesta di una riforma politica: la riforma elettorale intesa come il superamento della separazione di Stato e popolo, di «Stato politico astratto» e «società civile», per dirla con Marx. Non a caso quindi i teorici del PCI, che delle istituzioni democratiche e, in particolar modo, del parlamento facevano le leve fondamentali e uniche della “via italiana al socialismo”, si riallacciavano a queste conclusioni e le facevano proprie. Alle grossolane interpretazioni di Lenin, del Marx della maturità e di Engels come democratici, pacifisti e legalitari, si ingegnavano pertanto di sostituire un Marx veramente democratico, un loro Marx “dialettico brillante”, “moderno”, “occidentale”, da anteporre ad un Lenin “marxista russo”, poco dialettico, ostinatamente “fissato” sulla “ormai superata” dittatura del proletariato. Come sempre accade, se la logica regressiva del revisionismo era – ed è ancor oggi – quella che porta a rifiutare prima Lenin e poi lo stesso Marx, il compito di coloro che si prefiggono di restaurare il marxismo rivoluzionario è invece quello di spingere i revisionisti sempre più indietro, da Lenin al giovane Marx e da questo a Rousseau. Sarebbe infatti un errore seguire l’interpretazione riduttiva di Althusser e della sua scuola, abbandonando le opere giovanili di Marx all’opportunismo e condannandole come testi del pensiero democratico. In realtà, anche la Critica va rivendicata al patrimonio del leninismo, ed anche qui, anche in questa interpretazione del giovane Marx vi è da combattere una mistificazione dell’opportunismo. Nella prima parte di questo articolo è stata confutata l’interpretazione, fornita da Cerroni, di un passo della Critica, ma ora occorre confutare l’interpretazione complessiva. Questa opera, infatti, non va giudicata per le sue conclusioni politiche, ma per ciò che vuole essere: una resa dei conti con la filosofia politica hegeliana, l’elaborazione di un nuovo metodo critico. Orbene, entro questi limiti il leninista può e deve trarre una grande lezione da questa opera. Sennonché sorge un problema: come è possibile che il metodo critico di Marx, presupposto essenziale di un pensiero rivoluzionario, conduca a conclusioni sostanzialmente conservatrici? A questo punto, va dissipato un altro equivoco ìnsito nella interpretazione del pensiero di Marx, un equivoco di cui si faceva forte l’opportunismo. Esso era alimentato non solo dalla scuola di Della Volpe, ma anche dai maggiori esponenti dell’interpretazione tradizionale, come Auguste Cornu12. Secondo questo importante storico del pensiero politico, Marx nella Critica avrebbe già formulato «una dialettica materialistica immanente alla realtà sociale», giungendo da un lato alla concezione materialistica della storia (evidentemente non del tutto sviluppata) e dall’altro a un «democratismo socialisteggiante»13. Laddove Cornu non si accorge della contraddizione tra questi due risultati, in forza della quale la dialettica materialistica della storia produrrebbe soluzioni democratiche dei problemi sociali (il limite democratico di siffatte soluzioni è abbastanza chiaro nel Cornu). Più coerenti erano invece i teorici della scuola dellavolpiana, i quali non incorrevano in questa incongruenza in quanto per loro il «democratismo socialisteggiante» coincideva con il vero e proprio socialismo, talché il metodo stesso con cui lo si determinava doveva essere già la dialettica materialistica del Marx più maturo. Tuttavia, ad una lettura più attenta del testo della Critica e, soprattutto, più rispettosa del suo effettivo contenuto semantico, risulta che in essa vi è, sì, un metodo rivoluzionario rispetto ad Hegel e alla sinistra hegeliana, ma si tratta solo delle premesse generali, filosofiche, del metodo materialistico, solo della linea generale dell’indagine scientifica. Per arrivare alla «dialettica materialistica immanente alla realtà sociale» Marx dovrà imparare a tradurre questo metodo in analisi scientifica della realtà sociale, passando dalle premesse generali del metodo scientifico al metodo specifico della storia e della economia, passando, cioè, alla «logica specifica dell’oggetto specifico»14. Questo processo si compirà soltanto col Capitale. Solo grazie a questo approfondimento Marx arriverà a sostituire alle categorie ed ai concetti ancora idealistici, quindi borghesi, con cui lavora anche in questa opera del 1843, che sono l’alienazione, la società civile, il popolo, lo Stato politico, la volontà generale, delle categorie veramente materialistiche, quindi rivoluzionarie, che sono: modo di produzione capitalistico, proletariato, Stato come dittatura della classe dominante, dittatura del proletariato ecc.

 

La “critica volgare” scambia una contraddizione secondaria per una contraddizione principale

La constatazione dei limiti del metodo di Marx nella Critica ne spiega le conclusioni democratiche, cioè l’apologia della democrazia: è questo il naturale contrappasso di un metodo specifico di carattere ancora idealistico, di una dialettica costruita hegelianamente, cioè per categorie politico-sociali indeterminate, non per categorie economico-sociali determinate. Individuare pertanto la soluzione della contraddizione fra Stato politico e società civile nel suffragio universale è la conseguenza inevitabile che sgorga dal considerare questa contraddizione come la contraddizione che intercorre fra il cittadino (l’uomo nello Stato) e l’uomo privato (nella società civile), fra la vita politica e una vita economica principio della quale sono «il godimento e la capacità di fruire», per cui la società civile appare come «una divisione di masse che si formano fugacemente, la cui stessa formazione è arbitraria e non è una organizzazione»15, laddove va osservato che Marx coglie alcuni tratti distintivi della società moderna rispetto alla società medioevale con le sue corporazioni, ma non certo la struttura classista della società borghese. Non essendo individuate le contraddizioni profonde della società civile, la contraddizione fondamentale rimane la separazione tra la sfera politica e la sfera civile in massima parte esclusa dall’esercizio degli affari generali. Si tratterà quindi di una contraddizione che potrà essere risolta mediante «la penetrazione in massa della società civile nel potere legislativo»16. Se, in definitiva, è vero che la Critica dal punto di vista politico non fa che riassumere il programma della democrazia radicale, è altrettanto vero che Marx si differenzia in questa sua opera da Rousseau per la formulazione di un nuovo metodo e che questa fondazione logica del metodo scientifico è un momento assai importante dell’‘iter’ intellettuale di Marx. Ciò spiega perché il leninista che vuole intendere a fondo il Capitale, ossia la struttura del metodo che informa tale opera, per poterlo applicare ad una situazione specifica e, ad esempio, per poter definire «Lo sviluppo del capitalismo in Italia» e nel mondo, difficilmente vi riuscirà se non avrà assimilato la sostanza metodologica della Critica del 1843, più interessante, da questo punto di vista, dei ben noti Manoscritti del 1844. Scrive Marx nella Critica, in polemica sia con l’hegelismo (anche di sinistra) sia con il socialismo utopistico: «La critica volgare critica così, ad esempio, la costituzione: attira l’attenzione sull’antitesi dei poteri, etc., trova ovunque delle contraddizioni. Questo è ancora della critica dogmatica, che lotta col suo oggetto, all’incirca come una volta si eliminava il dogma della Santa Trinità per la contraddizione di uno e tre. La vera critica, invece, mostra l’intima genesi della Santa Trinità nel cervello umano. Descrive il suo atto di nascita. Così la critica veramente filosofica della odierna costituzione dello Stato non indica soltanto le sussistenti contraddizioni, ma le spiega, ne comprende la genesi, la necessità, le prende nel loro peculiare significato. Ma questo comprendere non consiste, come Hegel crede, nel riconoscere ovunque le determinazioni del concetto puro, bensì nel concepire la logica specifica dell’oggetto specifico [corsivo dello scrivente]»17.  Questa è l’esigenza metodologica più avanzata fatta valere da Marx nella Critica, tale da suonare a critica della sua stessa analisi che non arriva ancora a «comprendere la genesi» delle contraddizioni, a descrivere il loro atto di nascita in modo da prenderle nel loro peculiare significato, perché, come si è detto, il discorso di Marx non è ancora sceso dal piano della consapevolezza della logica generale dell’indagine scientifica alla realizzazione della “logica specifica dell’oggetto specifico”. È una esigenza metodologica che Marx ha maturato attraverso la Critica, in cui non si è stancato di rilevare il carattere vizioso delle deduzioni di Hegel. Ad esempio, per quanto riguarda il potere legislativo le deduzioni di Hegel non derivano «dall’essenza del potere legislativo, dalla sua peculiare determinazione, ma piuttosto dalla considerazione al riguardo di un’esistenza che resta al di fuori della sua determinazione essenziale. È una costruzione del riguardo. Il potere legislativo, specialmente, è spiegato soltanto in riguardo di un terzo elemento. È quindi, a preferenza, la costruzione della sua esistenza formale che occupa tutta l’attenzione. Il potere legislativo è costruito molto diplomaticamente. Ciò consegue dalla posizione falsa, illusoria, ‘cat’exokèn’ [per eccellenza] politica, che ha il potere legislativo nello Stato moderno (di cui Hegel è interprete). Ne consegue da sé che questo Stato non è un vero Stato, giacché in esso le determinazioni statali, di cui una è il potere legislativo, devono esser apprezzate non in se stesse e per se stesse, non teoricamente, bensì praticamente, non come forze indipendenti, ma sì inficiate di un contrasto, non secondo la natura della cosa, bensì secondo le regole convenzionali»18.

 

“L’anello più importante della catena in quel dato momento…”

Da questa disàmina di alcuni aspetti salienti della complessa struttura argomentativa della Critica è possibile trarre una grande lezione di metodo: una lezione che Lenin, come dimostra la sua acutissima lettura del Capitale, aveva compreso perfettamente (mentre il vantaggio degli interpreti odierni è quello di trovarla espressa esplicitamente, sia pure parzialmente, in questa opera del 1843) e che seppe applicare contro la falsificazione opportunista del marxismo: «…la falsificazione eclettica della dialettica finge di tener conto di tutti gli aspetti del processo, di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le influenze contraddittorie ecc., ma in realtà non dà alcuna nozione completa e rivoluzionaria del processo di sviluppo della società»19. Si tratta appunto di quella che Marx chiama “critica volgare”, ossia una critica che trova ovunque delle contraddizioni e per la quale i fenomeni non sono mai studiati in sé stessi e per sé stessi secondo la natura della cosa, secondo la determinazione essenziale e peculiare del fenomeno, secondo l’influenza determinante, ma rispetto ad una esistenza formale (non materiale) dei fenomeni e rispetto a contraddizioni costruite diplomaticamente secondo le regole convenzionali, cioè, in definitiva, secondo l’ideologia borghese. Questo metodo veramente dialettico perché fondato sull’analisi scientifica sostanzia tutta l’opera di Lenin dagli scritti sulla formazione del partito rivoluzionario alle discussioni sulla costruzione della dittatura del proletariato dopo la rivoluzione vittoriosa. Nel Che fare?, rintuzzando i ragionamenti formali di un socialdemocratico che nel processo di formazione del partito vedeva solo la realtà contraddittoria e nessun punto fermo su cui far leva, talché la realtà gli appariva un circolo vizioso, Lenin afferma: «Ogni questione “si aggira in un circolo vizioso” perché tutta la vita politica è una catena senza fine composta di un numero infinito di anelli. Tutta l’arte dell’uomo politico consiste precisamente nel trovare e nell’afferrare saldissimamente l’anello che più difficilmente può essergli strappato, che è il più importante in quel dato momento e che meglio gli garantisce il possesso di tutta la catena»20. È noto che dall’analisi della situazione del partito, che Lenin svolgeva in quel libro, scaturiva che questo anello, cioè il fattore che avrebbe determinato tutti gli altri, era “il giornale politico di tutta la Russia”. Negli ultimi mesi del 1920 e nei primi del 1921 si accese in Unione Sovietica una vivace discussione sul ruolo dei sindacati nella nuova società e quindi sulla linea del partito comunista nei loro confronti. Due erano le posizioni in conflitto: quella del partito, secondo cui “i sindacati sono innanzitutto una scuola di comunismo”; quella di Trotsky, secondo cui “i sindacati sono innanzitutto un apparato tecnico- amministrativo di gestione della produzione”. Bucharin, dal canto suo, tentò di mediare tra la posizione del partito e quella di Trotsky: «Il compagno Zinoviev ha detto che i sindacati sono una scuola di comunismo e Trotsky ha detto che essi sono l’apparato tecnico-amministrativo di gestione della produzione. Non vedo nessun fondamento logico che dimostri che il primo o il secondo punto di vista non sia giusto: entrambe queste definizioni sono giuste, come è giusta la loro combinazione». Bucharin si ingegnò di argomentare la propria posizione (ovviamente eclettica) ricorrendo ad un’analogia: «Compagni, le discussioni che qui si svolgono suscitano in molti di voi all’incirca questa impressione: arrivano due persone e si chiedono reciprocamente che cos’è il bicchiere che sta sulla scrivania. L’uno dice: “È un cilindro di vetro e sia colpito da anatema chiunque dica che non è così”. L’altro dice: “Il bicchiere è uno strumento che serve per bere e sia colpito da anatema chiunque dica che non è così”». Lenin intervenne nella discussione prefiggendosi due obiettivi: sostenere la posizione politicamente corretta, secondo cui “i sindacati oggi sono anzitutto una scuola di comunismo”, ed educare il partito all’analisi dialettico-materialistica della realtà contro la posizione unilaterale (e perciò astratta) di Trotsky e contro l’eclettismo di Bucharin. Ecco come articolò la sua argomentazione. «I sindacati contano circa sei milioni di iscritti – questa fu la premessa -. Circa 900 di questi iscritti gestiscono attualmente la produzione. Ammettiamo pure che in un futuro prossimo tale numero aumenti di cento volte. Avremo allora una percentuale dell’1,5% di membri dei sindacati in grado di “gestire la produzione” e il 98,5% che studia e deve studiare a lungo per essere in grado di farlo. Ciò significa che i sindacati sono destinati ad essere, per un lungo periodo, principalmente una scuola di gestione della produzione da parte dei lavoratori, cioè una scuola di comunismo»21. In questa prima parte dell’argomentazione Lenin dimostra che, non appena si passa dall’astratto al concreto, non appena si sviluppa, cioè, l’analisi concreta della situazione concreta, la posizione di Trotski si rivela unilaterale e campata in aria. Lenin quindi prosegue e nota, riprendendo l’esempio di Bucharin, che «Trotsky afferma che “il bicchiere è uno strumento per bere”; sennonché il bicchiere presentatoci è senza fondo». Essere unilaterali vuol dire dunque essere astratti (nel senso negativo dell’astrattezza, non in quello positivo dell’astrazione), vedere un solo aspetto dei problemi o, vedendone più d’uno, considerarne separatamente ciascuno assolutizzandolo22. In definitiva, vuol dire essere metafisici (laddove la ‘metafisica’ è rispetto alla dialettica, per dirla con Aristotele e con Kant, un opposto per privazione, come è la cecità rispetto alla vista).

Vediamo ora come Lenin, confutato l’errore di Trotsky, passi a criticare l’argomentazione di Bucharin riprendendone l’esempio.

«Un bicchiere è indiscutibilmente sia un cilindro di vetro sia uno strumento che serve per bere. Ma un bicchiere non ha soltanto queste due proprietà, o qualità, o aspetti, ma ha un’infinità di altre proprietà, qualità, aspetti, correlazioni e ‘mediazioni’ con tutto il resto del mondo. Un bicchiere è un oggetto pesante che può servire come strumento da lanciare. Un bicchiere può servire da fermacarte e da prigione per una farfalla catturata; un bicchiere può avere un valore artistico per la sua decorazione disegnata o incisa, indipendentemente dal fatto che sia adatto o no per berci, che sia di vetro, che la sua forma sia cilindrica o non del tutto, e così via. Proseguiamo. Se mi serve subito un bicchiere come strumento per bere, non m’importa affatto di sapere se la sua forma è perfettamente cilindrica e se esso è realmente fatto di vetro; m’importa invece che non vi siano fenditure sul fondo, che non ci si possa tagliare le labbra adoperandolo, ecc. Se invece mi occorre un bicchiere non per bere, ma per un uso al quale sia adatto qualsiasi cilindro di vetro, allora mi va bene anche un bicchiere con un fenditura sul fondo o addirittura senza fondo, ecc. La logica formale (…) si serve di definizioni formali, attenendosi a ciò che è più consueto o che salta agli occhi più spesso e qui si ferma. Se, in questo caso, si prendono due o più definizioni diverse e si collegano in modo assolutamente casuale (cilindro di vetro e strumento per bere), si ottiene una definizione eclettica che si limita a indicare aspetti differenti dell’oggetto. La logica dialettica esige che si vada oltre. Per conoscere realmente un oggetto bisogna considerare, studiare tutti i suoi aspetti, tutti i suoi legami e le sue ‘mediazioni’. Non ci arriveremo mai interamente, ma l’esigenza di considerare tutti gli aspetti ci metterà in guardia dagli errori e dalla fossilizzazione. Questo in primo luogo. In secondo luogo, la logica dialettica esige che si consideri l’oggetto nel suo sviluppo, nel suo “moto proprio” (…), nel suo cambiamento. Per quanto riguarda il bicchiere, ciò non è subito chiaro, ma anche un bicchiere non resta immutabile, e in particolare si modifica la sua destinazione, il suo uso, il suo legame con il mondo circostante. In terzo luogo, tutta la pratica umana deve entrare nella ‘definizione’ completa dell’oggetto, sia come criterio di verità, sia come determinante pratica del legame dell’oggetto con ciò che occorre all’uomo. In quarto luogo, la logica dialettica insegna che ‘non esiste verità astratta, la verità è sempre concreta». Riguardo al ruolo dei sindacati, Lenin accusava Bucharin di non tentare neppure un’analisi concreta della questione, limitandosi «a prendere un pezzetto da Zinoviev, un pezzetto da Trotsky». Questo è proprio eclettismo. «I sindacati sono, da una parte, una scuola; dall’altra, un apparato; da una terza, un’organizzazione dei lavoratori; da una quarta, un’organizzazione composta quasi esclusivamente da operai dell’industria; da una quinta, un’organizzazione per branche di industria, ecc. ecc. In Bucharin non troviamo neppure l’ombra di una motivazione, di una analisi personale che dimostri perché bisogna considerare i due primi ‘aspetti’ della questione o dell’oggetto, e non il terzo, il quarto, il quinto, ecc. Perciò le tesi del gruppo di Bucharin non sono che vuoto eclettismo. Bucharin pone tutta la questione del rapporto tra ‘scuola’ e ‘apparato’ in modo radicalmente errato, eclettico»23. Come si evince dalla ricostruzione della polemica intercorsa tra Lenin, Bucharin e Trotsky, l’eclettico, nel momento in cui insiste sulla necessità di tener conto di questo, di quello e di cento altre cose ancora, è, per così dire, cento volte unilaterale. Non può allora sorprendere che l’eclettismo sia sempre stato il punto di vista degli opportunisti, dei revisionisti e dei “cercatori di terze vie”24. Il materialista dialettico afferma, sì, che è necessario esaminare tutti gli aspetti della contraddizione, ma afferma pure che questo è un processo infinito. Nel corso di tale esame bisogna, però, in ogni momento stabilire e precisare, sia pure come verità relativa e in riferimento alla situazione concreta, quale sia l’aspetto principale, quale la causa principale e quale il ruolo principale nella contraddizione.

Del resto, la posizione di Lenin sui sindacati non nega che essi abbiano tanti ruoli e aspetti diversi, ma afferma che nella concreta fase della dittatura del proletariato, cioè della transizione dal capitalismo al comunismo, che si presentava allora in Unione Sovietica, l’aspetto e il ruolo principali dei sindacati sono quelli di scuola di comunismo. L’eclettico, invece, accusa di unilateralità questo procedimento e sostiene la necessità di considerare uno accanto all’altro, in modo indifferenziato ed empirico, tutti i particolari e le circostanze connessi all’oggetto in esame. Sennonché, data l’infinità di legami che ogni oggetto intrattiene con l’ambiente, egli finisce con l’ingolfarsi nell’affermazione dell’“infinita complessità del mondo”, scivolando nell’agnosticismo e finendo con l’abbracciare la tesi fideistica e irrazionalistica dell’inconoscibilità del mondo. Il dialettico afferma, al contrario, l’infinita conoscibilità (e modificabilità) del mondo.

 

L’essenza ideologica e metodologica dell’opportunismo

L’essenza metodologica dell’opportunismo consiste nell’incapacità di fare «la esposizione storicamente concreta e scientificamente esatta del compito del proletariato», fondata sull’analisi degli aspetti tipici e peculiari, determinanti e marginali dei fenomeni specifici della società capitalistica, fondata cioè sulle «esigenze scientifiche nel campo delle questioni storiche», che in primo luogo implicano la necessità di studiare «con la precisione propria delle scienze naturali»25 la cosa secondo la sua natura specifica e non costruire la natura della cosa rispetto ad una esistenza formale, fabbricata secondo le regole del formalismo dialettico (della contraddittorietà assoluta dei fenomeni, ad esempio), fabbricata, in definitiva, «praticamente», cioè secondo «la posizione falsa e illusoria» che hanno i fenomeni nella società capitalistica (come dice Marx nel passo che si è citato in precedenza). Si potrebbero fare molti esempi del procedimento logico formalmente dialettico, eclettico e mistificante, dell’opportunismo, ma in questa sede ci si può limitare ad indicarne due. Il primo è dato dalla mistificazione del concetto di dittatura del proletariato operata da Kautsky, il quale, come osserva Lenin, «fa ogni sforzo per nascondere il tratto caratteristico essenziale di questo concetto cioè la violenza rivoluzionaria» e lo riduce ad una nozione generica: «stato di dominio» o addirittura «stato di cose», che, come le nozioni generiche usate dagli opportunisti per lo stesso concetto, e cioè democrazia, complessità, egemonia, può contrabbandare qualsiasi contenuto borghese, parlamentare, legalitario, senza evidentemente spiegarne la genesi e la necessità. Basterà confrontare con questi ragionamenti sofistici quello di Lenin per comprendere come venga applicato il metodo marxista: «La dittatura rivoluzionaria del proletariato è violenza contro la borghesia, e la necessità di questa violenza è particolarmente dovuta alla esistenza del militarismo e della burocrazia che sono gli aspetti per cui l’imperialismo «in forza dei suoi tratti economici essenziali» si distingue rispetto al capitalismo premonopolistico. 26 Il caso di Kautsky (e non solo di Kautsky) dimostra che i concetti determinati di Marx, una volta che sono staccati dalla loro base storico-materiale e vengono resi astratti e indeterminati, obbediscono nella loro dialettica unicamente alle regole convenzionali della ideologia borghese con tutte le illusioni della democrazia «pura» e con tutto il feticismo procedurale che caratterizzano tale ideologia, tanto per fare un esempio paradigmatico, nella versione liberale di un Bobbio.

Il secondo esempio si può ricavare dalla concezione della democrazia che sostanziava la cosiddetta «via italiana al socialismo» di togliattiana memoria, e che ancora esercita la sua perniciosa influenza attraverso gli ideologemi spacciati, con maggiore o minore consapevolezza, da un arco variegato (ma, per l’appunto, sostanzialmente monocorde) di forze politiche ed intellettuali della sinistra opportunista. In base a codesta concezione si sosteneva che gli istituti democratici avrebbero avuto in corpo una dirompente contraddizione: la contraddizione fra la proclamazione della sovranità popolare (per tutti) e la sua limitazione ad un momento soltanto della vita politica (la designazione dei governanti) al fine di garantire la sovranità dell’individuo privato. Pertanto, il movimento operaio avrebbe dovuto incunearsi in queste contraddizioni, di cui la Costituzione italiana sarebbe espressione, e premere in direzione dell’estensione della sovranità popolare: in tal modo, gradualmente, consolidando le riforme politiche con le riforme di struttura si sarebbe arrivati pacificamente e democraticamente al socialismo. Laddove la mistificazione consisteva già nel parlare di “istituti democratici”, cioè nel porre la questione come una questione di democrazia in generale e non di democrazia borghese o proletaria secondo il concetto esatto e classista per cui la democrazia è una forma di Stato e lo Stato, salvo casi eccezionali di equilibrio fra le classi e di dualismo di potere, è la dittatura di una classe su un’altra: dunque, o Stato borghese o Stato proletario (ossia dittatura del proletariato). Insomma, non vi sono vie di mezzo, Stati di natura promiscua; nel mezzo vi è solo il vuoto statale temporaneo della rivoluzione, vale a dire lo spazio del salto rivoluzionario, non dell’evoluzione politica27. Questo è l’unico modo dialettico (non sofistico) di impostare il problema della democrazia: «Anche lo Stato democratico, finché ci sono sfruttatori che esercitano il loro dominio sulla maggioranza degli sfruttati, sarà inevitabilmente una democrazia per gli sfruttatori [corsivo dello scrivente]. Ma la repressione di una classe significa l’ineguaglianza per questa classe, la sua esclusione dalla “democrazia”»28. L’unica contraddizione ìnsita nella democrazia è quella che sussiste fra due forme di Stato e di dittatura opposte, il passaggio dall’una all’altra delle quali è costituito solo dalla rivoluzione, cioè dalla distruzione “pietra su pietra” della democrazia borghese in quanto macchina statale del capitalismo. Non è così per gli opportunisti che vedono contraddizioni dappertutto meno quando sono inaccettabili per l’imperialismo. Infatti, costoro “costruiscono diplomaticamente” una contraddizione all’interno della democrazia, in virtù della quale questa non è né dittatura della borghesia né dittatura del proletariato, e inventano una democrazia di tipo nuovo, uno Stato di tipo nuovo che non sarebbe più capitalistico ma non sarebbe ancora socialista, bensì un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. La democrazia, che per Lenin è o questo o quello, o democrazia per gli sfruttatori finché rimangono gli sfruttatori o democrazia per gli sfruttati quando gli sfruttatori sono sconfitti e repressi, è per gli opportunisti questo e quello, cioè non ha nessuna determinazione essenziale, o meglio la sua determinazione essenziale è la contraddizione formale “costruita diplomaticamente” per nascondere l’opposizione reale, per far convivere il proletariato a fianco dei suoi nemici nell’ibrida democrazia di tipo nuovo. Dopodiché l’opportunismo giustifica queste sue tesi formalmente dialettiche facendo un gran parlare sulla realtà in continuo movimento e in continuo cambiamento, sulla realtà così complessa e così contraddittoria, per cui è dogmatico chi si attenta a dire che la democrazia, finché non è demolito lo Stato borghese, è inevitabilmente una democrazia per i ricchi e un apparato funzionale alla perpetuazione dello sfruttamento capitalistico. Insomma, col metodo degli opportunisti nulla può essere definito nel suo significato peculiare e tutto rimane indeterminato: non vi è più la possibilità di un’analisi scientifica poiché, come ben si vede, questo metodo è una cattiva versione della dialettica hegeliana, che tende ad obliterare il principio di non-contraddizione e il rapporto di causa-effetto, princìpi primi dell’analisi scientifica. Sennonché per l’opportunismo è dogmatico dire che una cosa è bianca, in quanto per effetto della contraddizione è contemporaneamente nera, né si può dire che questo sia la condizione di quello perché il condizionato è contemporaneamente condizione del condizionante. E, in effetti, quando mai le formazioni opportuniste succedutesi nel nostro paese, a partire dal PCI per arrivare al PRC, hanno fatto qualche cosa che somigli ad un’analisi scientifica? Quando mai hanno studiato l’evoluzione delle sovrastrutture statuali continuando l’analisi di Stato e rivoluzione? Non solo non hanno ‘aggiornato’ Stato e rivoluzione, ma lo hanno respinto definendolo un ‘pamphlet’, e lo hanno respinto volgendo ostinatamente le spalle al secolo ventesimo e lo sguardo al secolo decimonono e decimottavo, cioè regredendo da Lenin al giovane Marx e a Rousseau, dall’epoca imperialistica al capitalismo premonopolistico, reiterando fino alla nausea l’antica solfa del superamento dell’assolutismo e del medioevo per opera della democrazia borghese.

 

Verifica materialista e soggetti reali

Per tutti questi motivi e soprattutto per la restaurazione della dialettica hegeliana la Critica, con la sua istanza del metodo dell’analisi scientifica e con la sua confutazione interlineare del misticismo logico hegeliano, si configura ancor oggi come un testo attuale e ricco di preziosi insegnamenti per il leninismo. Nel periodo in cui il revisionismo di stampo togliattiano e le sue varianti di carattere centrista e massimalista sono state maggiormente diffuse (quindi a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta per giungere agli anni Sessanta e Settanta) bastava prendere la concezione di un qualsiasi istituto democratico per verificare la validità e l’attualità di questa critica di Marx alla concezione hegeliana del potere legislativo: «il medesimo soggetto è preso in differenti significati, ma il significato non è la sua determinazione bensì una determinazione allegorica, interpolata»29. Il parlamento, ad esempio, assumeva, in base all’ottica opportunista, il doppio significato di involucro e funzione del capitalismo, da lato, e di espressione della sovranità popolare, dall’altro. Quindi, sempre in base a tale ottica, lo Stato democratico si configurava come uno Stato borghese-capitalistico, in quanto questo lato contraddittorio lo limitava, lo condizionava e lo penetrava di sé fino a sostituire completamente l’altro lato, così da distorcere e deformare la funzione del parlamento quale espressione della sovranità popolare. Sennonché risultava chiaramente che questo ulteriore significato del parlamento non era la sua vera determinazione, bensì un elemento allegorico, interpolato e surrettizio, poiché la vera determinazione del parlamento in un regime capitalistico è di essere funzione della dittatura della borghesia. In tal modo veniva “costruita diplomaticamente”, attraverso un ‘escamotage’ ideologico, una determinazione propria non dello Stato borghese ma di quella forma ibrida di Stato, qualificata come “democrazia sociale” o anche “democrazia di tipo nuovo”, in cui la realizzazione della democrazia diretta si sarebbe coniugata con la rappresentanza pluripartitica ecc., dando luogo a qualcosa di posticcio, aggiunto in modo acritico ed allegorico (secondo la terminologia giovane-marxiana): un vero e proprio ircocervo socio-politico-ideologico che, muovendo dal revisionismo e passando attraverso una mistura di riformismo e di massimalismo, graduabile con opportuni dosaggi a seconda delle diverse congiunture, sfocerà infine camaleonticamente nel più smaccato liquidazionismo. Dal canto suo, così Marx commentava la concezione hegeliana del potere legislativo, indecisa fra medioevo ed età moderna: «È la maniera acritica, mistica di interpretare un’antiquata concezione del mondo [quello cioè medioevale della rappresentanza per stati o ceti] nel senso di una moderna, onde la prima diventa nient’altro che qualcosa di infelicemente ibrido, in cui la forma inganna il significato e il significato la forma, e né la forma perviene al suo significato e ad essere reale forma, né il significato perviene alla forma e ad esser reale significato. Questa acrisia, questo misticismo, è altrettanto l’enigma delle moderne costituzioni…che il mistero della filosofia hegeliana, della filosofia del diritto e della religione, prima di tutto»30. Attraverso un’analoga trasposizione l’ideologia dell’opportunismo veniva ad essere declinata nei termini di un sincretismo acritico che collegava l’antiquata concezione democratica ad una concezione moderna, abbellendo tale giustapposizione con una retorica ‘socialista’ (laddove di un simile abbellimento, come è ben noto, l’attuale ideologia dell’opportunismo si è, in gran parte, sbarazzata col mutuare la dottrina radical-borghese dei diritti oppure con l’identificare nella Cina contemporanea il nuovo modello di una “via socialista”). Il risultato prodotto da tale sincretismo era pertanto qualcosa di infelicemente ibrido in cui, parafrasando il linguaggio del giovane Marx, la forma socialista ingannava il significato borghese della democrazia e questo significato velava la reale forma della dittatura del proletariato codificata in Stato e rivoluzione. Marx ci insegna infine che «ci si libera da questa illusione se si prende il significato per quello che è, per la determinazione propriamente detta, e se ne faccia come tale il soggetto e si confronti se il soggetto, suo presunto appartenente, è il suo reale predicato e se esso rappresenta la sua essenza e la sua vera realizzazione»31. Laddove l’opportunismo, nel suo ragionamento vizioso, tipico di ogni idealista, capovolge il rapporto soggetto-predicato e fa del soggetto reale (lo Stato borghese- capitalistico) il predicato del suo predicato (il parlamento), che diventa, per effetto della inversione logica, il soggetto mistificato, allegorico e surrettizio, del ragionamento (il parlamento quale espressione della sovranità popolare ecc.). La verifica materialista consiste invece nel fare del significato reale, della determinazione materiale e non allegorica, il soggetto e nel verificare se, in questo caso, il parlamento, quale presunta espressione della sovranità popolare, rappresenti il suo reale predicato, conformemente all’essenza dello Stato borghese-capitalistico del quale costituisce la piena realizzazione anche nell’utopistico Stato della “democrazia di tipo nuovo”. In realtà, questa verifica è già stata compiuta da Lenin, più di cento anni fa, in Stato e rivoluzione, che ha dimostrato con l’esattezza propria delle scienze naturali che la sovranità popolare e la democrazia diretta, cioè proletaria, sono la realizzazione soltanto della dittatura del proletariato, e non possono essere in alcun modo né la realizzazione dello Stato borghese-capitalistico né delle sue forme ibride, come lo Stato popolare, la “democrazia pura” di kautskiana memoria e lo Stato della “democrazia di tipo nuovo”, espressioni, tutte, del rinnegamento del marxismo rivoluzionario ieri, del leninismo oggi.


Note:
  1. Riprendo questa espressione, che mi sembra davvero indovinata, dall’opera omonima di Raymond Aron (benché egli l’abbia usata ad altri propositi, e benché non fosse tra gli studiosi più accreditati per dar lezioni di marxismo a chicchessia).
  2. Si pensi, ad esempio, all’uso di “umanesimo marxista” fatto in URSS dopo il XX Congresso appunto, e all’influenza esercitata dalla scuola dellavolpiana nel Partito comunista italiano.
  3. All’avanguardia in questa operazione furono intellettuali francesi come Sartre, Goldmann, Lefebvre, Sebag ecc. Ma un’importanza chiave rivestono in questo quadro l’opera di Adam Schaff, specialmente Il marxismo e la persona umana, Feltrinelli, Milano 1966, e secondariamente quella di Erich Fromm.
  4. K. Kautsky, Terrorismo e comunismo, Fratelli Bocca, Torino 1920.
  5. F. Engels, Per la critica del progetto di programma del partito socialdemocratico, in K. Marx – F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 1174. Engels stese le note, da cui è tratto il passo qui citato, nel 1891. Tali note si riferiscono ad un progetto di programma elaborato da August Bebel, il quale vi aveva raccolto le critiche mosse ad una bozza precedentemente redatta da Wilhelm Liebknecht. Intervenne poi a modificare il testo definitivo un progetto di Kautsky, fortemente influenzato dalle osservazioni critiche di Engels. Il testo definitivo del programma, approvato al Congresso di Erfurt (sempre nel 1891), passò alla storia come il programma della socialdemocrazia per antonomasia e per tutta un’epoca storica influenzò profondamente non solo il movimento operaio tedesco, ma quello internazionale. Ho analizzato la concezione tattico-strategica di Engels, con uno specifico riferimento alla celebre Introduzione del 1895 alle Lotte di classe in Francia di Marx, nel saggio intitolato Il problema dello Stato e la strategia del movimento operaio nell’“ultimo Engels” (si veda il volume Friedrich Engels (1820 – 1895). Un esempio da seguire, un pensiero da usare, Atti del convegno nazionale di studi – Gallarate, 13 maggio 1995, a cura di Claude Pottier, Gallarate 1997, pp. 39-55). In tale sede ho dimostrato che i capisaldi della strategia formulata da Engels nella Introduzione si possono così riassumere: 1) la vittoria del socialismo in Germania è inevitabile nel caso di un’evoluzione pacifica della situazione; 2) considerato il grado di sviluppo della tecnica militare, uno scontro armato avrà successo solo se la maggioranza dell’esercito si schiererà con i rivoluzionari; 3) l’arma più efficace del moderno proletariato è il suffragio universale, ma la sua utilizzazione, valida per dare inizio, in certe condizioni, al processo rivoluzionario, non esclude per nulla che, nella fase successiva di tale processo, la forma di lotta decisiva torni ad essere il combattimento di strada e l’insurrezione.
  6. Per valutare il peso e l’influenza di questi studiosi, appartenenti o vicini alla scuola dellavolpiana, si consultino le annate di «Società» (1945-1961), l’unica rivista di marxismo teorico – si può dire – presente in Italia in quegli anni, e nella quale i dellavolpiani erano la voce (filosofica e marxologica) dominante. E si veda, poi, a partire dal 1963, «Critica marxista», benché in questa l’influenza di Della Volpe fosse meno accentuata.
  7. K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica in K. Marx – F. Engels, op. cit., pp. 745-749.
  8. Ibidem.
  9. K. Marx, Il Capitale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 44.
  10. K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 134-135.
  11. Esemplare, in rapporto a questa falsa interpretazione dei teorici opportunisti, è il libro di Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1962. Ed è proprio a questo studioso che si deve la volgarizzazione di tale interpretazione, che egli poneva esplicitamente al servizio della “via italiana al socialismo” in un articolo intitolato La possibilità della via pacifica al socialismo nelle opere di Carlo Marx, pubblicato il 31 agosto 1963 dalla rivista settimanale «Rinascita», organo importante del PCI. Sennonché questa non era la problematica del Marx giovane ma quella di Cerroni, in quanto Marx non parla affatto di socialismo, essendo la sua una prospettiva puramente democratica con la connessa mitologia della emancipazione totale del popolo, se è vero, come è vero, che per lui il divorzio tra lo Stato e il popolo si sarebbe sanato con il suffragio universale, cioè con lo Stato democratico. L’articolo di Cerroni è reperibile nella Rete al seguente indirizzo: https://bibliotecaginobianco.it/flip/RIN/20/3400/.
  12.  Il Cornu è autore di un’opera fondamentale: Marx e Engels. Dal liberalismo al comunismo, Feltrinelli, Milano 1971 (ed. or. Paris, 1955 e 1958, trad. it. 1962)
  13. Op. cit., pp. 549-550.
  14. K. Marx, Critica…cit., in Opere…cit., p. 105.
  15. Ivi, p. 94.
  16. Ivi, p. 132
  17. Ivi, p. 105.
  18. Ivi, pp. 98-99.
  19. V.I. Lenin, Opere complete, vol. XXV, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 378.
  20. Id., Che fare?, in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1968, pp. 216-217.
  21. A questo riguardo, giova osservare che il passaggio chiave dell’analisi con cui Lenin conclude che nella fase allora in atto i sindacati erano principalmente una scuola in cui i lavoratori apprendevano a gestire assieme la produzione, ossia una scuola di comunismo, consiste in ciò, che allora in Russia 900 iscritti su sei milioni (15 ogni 100.000) partecipavano alla gestione della produzione e che, secondo la previsione più favorevole, nel prossimo futuro essi sarebbero diventati 90.000 (15 ogni 1.000). A mano a mano che la formazione dei lavoratori si fosse sviluppata, la gestione collettiva della produzione da parte degli stessi, ossia il comunismo, sarebbe stato un obiettivo quasi raggiunto, poiché, come afferma la prima legge della dialettica, la crescita quantitativa avrebbe determinato un’altra qualità.
  22.  Chi pensa astratto? È un gustoso scritto satirico-filosofico di Hegel, che Palmiro Togliatti, non ancora divenuto uno dei principali esponenti del revisionismo moderno, tradusse e commentò sulla rivista «Rinascita» nei primi anni Cinquanta. Il fine era quello stesso di Lenin: educare alla dialettica materialistica, avvalendosi delle armi teoretiche forgiate dal maestro di Marx e di Engels. In un periodo di “astrazioni indeterminate e unilaterali”, come quello vissuto tra il 2019 e il 2021 (saturo di parole d’ordine antifrastiche o iperboliche del tipo “decreto dignità”, “prima gli italiani”, “governo del cambiamento”, “è finita la pacchia” e così via delirando, aizzando e segregando), riaffermare il primato della ragione dialettica e di un sobrio materialismo contro le metafisiche populiste e razziste è uno dei compiti politico-culturali e ideologici più urgenti.
  23. L’articolo di Lenin da cui sono tratte le citazioni, Ancora sui sindacati, sulla situazione attuale e sugli errori di Trotsky e di Bucharin, si trova nel vol. XXXII delle Opere complete (pp. 57-94). In Rete è reperibile al seguente indirizzo: https://paginerosse.wordpress.com/2012/09/08/v-i-lenin- ancora-sui-sindacati/.
  24. Sono “cercatori di terze vie” tutti coloro che, più o meno in buona fede, ricercano un’alternativa tra materialismo e idealismo, tra comunismo e capitalismo, tra proletariato e borghesia, tra rivoluzione e conservazione. Costoro sostengono che vi è del buono in entrambi gli elementi della contraddizione e che è possibile prendere un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Ma tale possibilità è una chimera, poiché i suoi fautori dimenticano che l’unità degli opposti è condizionata, temporanea e relativa, mentre la lotta degli opposti che si escludono reciprocamente è assoluta. Un concetto dialettico differente è invece l’affermazione, coerentemente materialista, che nel passaggio dal vecchio al nuovo la negazione del vecchio non è mai distruzione completa. Il nuovo sorge infatti dal vecchio come negazione del vecchio, negazione che però conserva, ad un livello superiore, ciò che nel vecchio è stato sviluppato di positivo e di progressivo. Il comunismo nega il capitalismo conservandone gli elementi positivi, ad esempio l’alto sviluppo delle forze produttive.
  25. V.I. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, in Opere scelte cit., p. 1141.
  26. Ivi, pp. 1141-1142.
  27. Si veda, a tale proposito, la ‘summa’ documentaria del revisionismo di matrice togliattiana contenuta nel ponderoso volume Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano, vol. III (1956-1964), Edizioni del Calendario, Vicenza 1985. Circa il tema trattato nel presente articolo risulta particolarmente significativo, nel testo del 1956 intitolato VIII Congresso Nazionale. Elementi per una dichiarazione programmatica del Partito comunista italiano, il paragrafo 4 (Condizioni e forze motrici della marcia verso il socialismo in Italia, pp. 127-139), in cui viene teorizzato proprio quel concetto di “società intermedia” e di “democrazia di tipo nuovo” che viene radicalmente escluso dall’impostazione classista e rivoluzionaria del socialismo scientifico.
  28. V.I. Lenin, La rivoluzione proletaria…cit., p. 1152.
  29. K. Marx, Critica…cit., in Opere…cit., p. 97.
  30. Ibidem.
  31. Ibidem.

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AlsOb
Friday, 08 April 2022 01:51
Lungo, erudito e formativo scritto di Eros Barone, che con rigore polemico e un procedere ragionato serrato riesce a mettere a fuoco i momenti e aspetti principali del punto di vista di Marx, a partire dalla sua denuncia del misticismo di Hegel e affemazione di volerne ribaltare la prospettiva.
In ciò, su alcuni aspetti, vi è pure una contiguità con Nietsche.
Prendendo spunto dal testo e dal fatto che Marx ha anche una formazione iniziale di teologo se, come disse Hans Urs von Balthasar, Hegel deve essere considerato un teologo moderno prominente, viene da dire che Marx dovrebbe pure occupare una posizione di rilievo nella teologia postmoderna, in relazione al ruolo dello spirito materialmente incarnato e relativa cristologia.
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