Lavoro e tempo di lavoro in Marx
di Franco Piperno
Dopo aver analizzato la nozione di tempo nel pensiero di Aristotele, Franco Piperno si rivolge ora a un'indagine sullo sviluppo del rapporto tra tempo e lavoro nelle opere di Marx
I) Cento anni dopo
A più di un secolo dalla morte, Marx viene trattato, tanto nell’opinione quanto nell’accademia, come «un cane morto». La situazione è quindi ottima per riprendere lo studio dei suoi testi, per rifare i conti con lui. Procedere su questa strada, comporta,in primo luogo, sgombrare il terreno dall’ovvio, rifiutare la relazione di causalità tra l’attuale discredito di cui gode il Nostro e il crollo del socialismo di stato nell’Europa dell’Est. L’inconsistenza logica della dottrina marxista, così come la cattiva astrazione sulla quale si fondava la legittimità dei regimi socialistici, erano nascoste solo agli occhi di chi non voleva vedere. Tutto era chiaro già da prima, da molto prima. A testimonianza che il senso comune non ha atteso il crollo del muro di Berlino per formulare un giudizio sulla teoria del socialismo scientifico e sulla natura del socialismo di stato riproponiamo, qui di seguito,un breve commento a riguardo, scritto nel 1983, in occasione del centenario della morte di Marx, quando il Paese dei Soviet esisteva ancora[1]:
La celebrazione di K. Marx, nel centenario della morte, costituisce quel piccolo dettaglio più illuminante che un intero discorso. Innanzi, tutto chi celebra chi? Giacche’ bisognerà bene augurarsi che esista qualche differenza tra il Marx celebrato dal compagno Andropov, attuale primo ministro sovietico ed ex-capo del K.G.B.; e quello di cui si ricorda il militante dell’Autonomia nelle prigioni italiane. Non che ci siano celebrazioni illegittime; è solo che, forse, Marx, il nostro Marx, non merita d’essere celebrato[2] né dagli agenti segreti,né dai professori universitari e nemmeno dai militanti di Autonomia.
La celebrazione fissa una data, e come tale è un rito proprio agli abitanti del tempo, a coloro che perseguono opere senza fine; in effetti, si celebra solo ciò che non si è ancora compiuto[3]. E che l’opera di Marx non sia ancora conclusa, il marxismo lo testimonia con la sua mera esistenza. Cent’anni dopo Marx, dirsi marxisti equivale a definirsi con un giudizio sul passato, con un criterio su ciò che non esiste[4]. Va da sé che un tale criterionon ha alcuna potenza di individuazione, se si esclude quella trivialmente linguistica; e di conseguenza non ha alcuna efficacia pratica. Le due qualità che fanno la forza e la seduzione del discorso filosofico – l’interrogazione sull’ azione e sulla comprensione – non frequentano né l’una né l’altra il marxismo. Al giorno d’oggi, si potrebbe caratterizzare, graziosamente, i marxisti come quelli che sono più delusi dal mondo, dall’abitudine che il mondo ha di reagire ai loro sforzi per cambiarlo, in meglio beninteso. In effetti, se una volta o due il vino spunta ad aceto, diciamo in Ungheria o in Polonia, si potrebbe concludere, con il buon senso, che questo può capitare. Ma le cose continuano ad andare cosìmale e questo accade talmentespesso che un sospetto affiora: non v’e’, per caso, qualcosa d’irragionevole, una sorta d’errore sistematico nel modo in cui il marxismo si rappresenta il mondo? Con ogni evidenza, il marxismo non riesce a cambiare il mondo, il nostro mondo almeno; ma essendoil mutamento, per il marxista, una condizione sine qua non della comprensione, il mondo resta, per così dire, incompreso, il nostro mondo almeno. Il marxista s’è smarrito; noi marxisti abbiamoperduto la capacitàdi orientarci nel nostro stessomondo. Tutto questo è particolarmente pateticose si pensa che Marx, l’idea di Marx, ha già cambiatoil mondo, la sola cosa al mondo che può essere cambiata, l’idea che ci facciamo del mondo[5]. Di conseguenza, il marxismo è divenuto un ostacolocognitivo; come l’impalcatura che era servita a tirar su la casa ne ostacola l’uso, una volta terminatala costruzione. Se noi, i marxisti, ci siamo perduti la salvezza, la possibilità di salvezza viene dalla divisione: è saggio dividersi per cercare la buona strada.Altrimenti detto, cent’annidopo la morte, Marx è per noi un maestrodelquale bisognera’ impararea fare a meno.
II) Il lavoro perduto
La confusione nella quale versa il nostro presente ci riporta, per diversi sentieri,al pensiero di Marx. Consideriamo uno dei temi centrali,tanto nell’opera del rivoluzionario tedesco quanto nella nostra vita quotidiana: la questione del lavoro necessario e di quelloeccedente. Una molteplicità di fenomeni sociali rinvia a questo tema; in particolare la disoccupazione intellettuale, la precarietà del lavoro, l’attività di cura svolta in prevalenza dalle donne. Poniamoci la domanda: come il marxismo reale – istituzioni di solidarietà, sindacati, partiti – gestisce questa questione del lavoro necessario e di quello eccedente? Di fatto non solo non riesce a gestirla ma non se la pone neanche in termini consapevoli. Il criterio marxista, per riconoscere il lavoro e valutarlo, non arriva a comprendere pratiche lavorative osservabili ad occhio nudo; sicché possiamo concludere che questocriterio occulta del lavoro reale[6]. Quel criterio trova la sua costituzione legittima nel pensiero di Marx; per lui, il lavoro non ha uno statuto epistemologico indipendente, ma è piuttosto una categoria derivata. Nel Capitale, il concetto di lavoro è articolato sulle nozioni, considerate primarie, di «valore»e di «tempo». Per Marx, infatti, il lavoro propriamente detto è il lavoro produttivo, il lavoro che accresce il valore della merce. Tuttavia, questo processonon è certo gratuito; infatti,esso comporta dispendio d’energia umana; dispendio che ha per misura il tempo di lavoro, la durata dello sforzo lavorativo. Scrive Marx: «La quantità di lavoro stess aha per misura la sua durata nel tempo, ed il tempodi lavoro possiede di nuovo la sua misura nelle parti del tempo come l’ora, il giorno, etc.»[7]. Il pensatore tedesco riduce qui il lavoro produttivo al tempo – famosa riduzione già accreditata dall’economia politicainglese – ma riconduce anche il valore al lavoro produttivo. Così, perMarx, la sostanza del valore, in senso lato, è il tempo, la durata temporale[8]. Le implicazioni economico-politiche di questa riduzione sono numerose: plus-valore come plus-tempo, sfruttamento come furto del tempo altrui, ideologia e pratica della pianificazione temporalenelle economie socialistiche. A livello della fenomenologia sociale, questo comporta che i movimenti che fanno riferimento al marxismo tendono a produrre e riprodurre delle condotte collettive focalizzate sulla rivendicazione del valore della durata del lavoro; mentre,i partiti marxisti, una volta al potere, erigono la durata del lavoro a regola regina della politica economica[9]. Ma la riduzione comporta ugualmente una implicazione d’ordine ontologico che mette conto esplicitare. Se la sostanza del valore è la durata cronologica del lavoro, l’attività sociale di produzione e di scambio è scandita dal tempo uniforme, attribuito alla natura dalla filosofia di Newton[10]. E questa riduzione del tempo sociale a quello cronologico non ha luogo senza comportare mutilazioni semantiche: essa sacrifica, per così dire, degli eventi; e limita, dunque, inutilmente, le descrizioni possibili del mondo[11]. Paradossalmente, è proprio in questa mutilazione che risiede quell’ottimismo glaciale, segno inconfondibile dell’educazione sentimentale dei marxisti; ottimismo che confonde la storia con il tempo cronologico; e vede quest’ultimo come un fronte che avanza in un verso solo; sicché la rivoluzione è solo «la mossa che anticipa» ciò che comunque avverrà, ciò che è un inevitabile risultato dello scorrere del tempo[12] . Ed è ancora questa menomazione della temporalità che conferisce al marxismo quella tonalità svalutativa della comune esperienza, l’idea che la verità sia celata dall’apparenza, che il reale non si mostri ma abbia una sua cifra segreta,una struttura nascosta alla quale si può risalire solo tramite la teoria – in effetti, per il pensiero marxista, l’apparenza è falsa[13]. Ora non v’e’ scienza che non salvi le apparenze, perché ritenere illusoria l’apparenza inibisce ogni criterio di realtà, ogni interrogazione su ciò che esiste e ciò che non esiste. L’azione collettiva non è più sottoposta al criterio del «vero e del falso»; ma, posseduta dal tempo - valore, si risolve nella instaurazione di una nuova tradizione, la ossessiva creazione del nuovo, cioè la sistematica svalorizzazione di tutto ciò esiste; che, come tale, è degno d’andare in rovina[14].
III) La riduzione
Molte sono le implicazioni etico-politiche che la definizione del «valore del lavoro» come durata temporale misurabile comporta; molte e per lo più perverse. Dal mito tecnocratico della economia pianificata alla prassi rivendicativa incentrata sulla valorizzazione monetaria del tempo di lavoro. Infatti, è la riduzione del lavoro alla sua durata temporale che genera la reificazione del tempo in tutte, o quasi, le teorie marxiste. A ben vedere, la reificazione era avvenuta, all’origine, nel pensiero stesso di Marx, laddove aveva cercato di svelare la natura del tempo attraverso la critica dell’economia politica[15]. Ecco perché, senza alcun dubbio, questa riduzione era stata male accolta dal principio; le si rimproverava di presupporre, surretiziamente per dirla nel gergo dell’epoca, ciò che voleva dimostrare[16]; rimprovero del tutto pertinente, purtroppo[17]. Ad oltre un secolo dalla morte di Marx, la riduzione del valore al tempo di lavoro cerca ancora la sua legittimazione teorica. Anche se, nel frattempo, gli intellettuali marxisti hanno rimosso l’ostacolo epistemologico[18]. Questa difficoltà, è, a ben vedere, di natura logica; e, come tale, definitivamente insormontabile, a nostro avviso. Bisogna dunque esaminarla in dettaglio, per rilevarne l’intrinseca debolezza. La riduzione del lavoro al tempo, così come Marx la delinea, è un caso particolare di un’operazione concettuale più generale, denominata precisamente, nella letteratura epistemologica, «riduzione». Si tratta di un termine, in qualche sorta, tecnico, il cui uso non è cut and dried. Qui, per concisione, possiamo ragionevolmente affermare che il concetto di riduzione, nel discorso filosofico, descrive la sostituzione di un modo di dire con un altro, in modo tale che il secondo non contenga tutti i termini o espressioni utilizzate dal primo. Tuttavia, questa definizione non assicura certo che la riduzione abbia effettivamente luogo; perché, ad esempio, un filosofo non ritiene certo che l’affermazione «il presidente Ciampi è onesto» possa essere ridotta a «il presidente Belusconi è uno statista», malgrado che né «Ciampi» né «onesto» siano presenti nel secondo enunciato. Occorrono, dunque, dei criteri aggiuntivi per caratterizzare la riduzione. Tradizionalmente, nella letteratura epistemologica sono presenti quattro tipi di riduzione: analitica, esplicativa, ontologica e teoretica[19] . Il primo tipo rileva della semantica dell’enunciato che deve essere ridotto tramite la relazione di sinonimia, ad esempio, «Vattimo è celibe» può essere correttamente ridotto a «Vattimo si può sposare ma non lo ha ancora fatto». La riduzione analitica è, normalmente, banale; salvo nel caso in cui la relazione di sinonimia non è evidente a prima vista e richiede degli argomenti esplicativi. Così, la riduzione del lavoro alla durata del lavoro in Smith è una riduzione analitica; si tratta infattisolo di una definizione convenzionale dei costi di produzione; là dove, in Marx, la riduzione opera tra «il valore del lavoro» e il «tempo di lavoro», cioè tra due termini non connessi per sinonimia. Il secondo tipo di riduzione esplicita ciò che l’enunciato da ridurre semplicemente sottintende. Simili riduzioni permettono, di solito, la ricostruzione esplicita di tutto ciò che nel termine da ridurre è implicito. Ma anche questa volta, la riduzione marxiana risulta impropria; essa, infatti, non è di tipo esplicativo poiché le implicazioni economico-politiche del concetto di valore-lavoro non sono né facilmente né completamente derivabili dal concetto di tempo di lavoro[20]. Il terzo tipo di riduzione, come peraltro il quarto, ha un carattere prescrittivo. La riduzione ontologica, infatti, elimina le implicazioni dell’enunciato da ridurre che si riferiscono a degli enti la cui esistenza, pur essendo implicitamente presupposte dall’enunciato stesso,non è per nulla provata. La riduzione ontologica svolge, in genere, un’opera buona perché mira a ridurre gli «enti inutili», quelle presupposizioni d’esistenza, quei feticci che popolano le comuni certezze[21]. Ma, di nuovo,la riduzione del valore al tempo non è di tipo ontologico; in effetti, se è vero, come Marx stesso sottolinea, che essa elimina la presupposizione dell’esistenza del valore, tuttavia viene introdotto un nuovo ente materiale – il tempo assolutamente uniforme – la cui esistenza si fonda su una illusione cognitiva altrettanto infondata che quella eliminata[22]. Infine, la riduzione teoretica comporta che il termine da ridurre è, per accidente, identico al termine ridotto, senza alcuna necessità logica. Così, nel ragionamento formale,la riduzione teoretica appare sotto la forma di «ipotesi ad hoc».
La riduzione marxiana è di questo tipo, come abbiamo già mostrato in altra sede[23]. L’ipotesi ad hoc che riconduce il valoreal tempo serve a Marx per dare una fondazione scientifica alla categoriamorale che avverte il lavoro di fabbrica come sfruttamento del corpo umano, nel senso di appropriazione del valore creato dalla disponibilità del tempo altrui; purtroppo questa ipotesi ad hoc serve male la sua causa dal momentoche rende autocontraddittoria l’interateoria. Nel paragrafo che segue, riprenderemo lo stesso argomento, già adoperato nel saggio citato, nel caso particolare della riduzione del lavoro qualificato o complesso al lavoro semplice o indifferenziato.
IV) Lavoro complesso e lavoro semplice
Scrive Marx:
Ora, allo stesso modo che nella società civile un generale o un banchiere gioca un ruolo importante mentre l’uomo comune fa una parte insignificante, lo stesso accade al lavoro umano. Si tratta di un dispendio di forze semplici che ogni uomo ordinario, senza alcuna formazione particolare, possiede nell’organismo del suo corpo. Il lavoro semplice medio cambia, è vero, di carattere nei differenti paesi e secondo le epoche, ma è sempre determinato all’interno di una società data. Il lavoro complesso – skilled labour – è solo una potenza del lavoro semplice,o piuttosto non è che lavoro semplice moltiplicato, di sorta che una quantità data di lavoro complesso corrisponde ad una quantità più grande di lavoro semplice. L’esperienza mostra che questa riduzione opera costantemente. Allorquando una merce è un prodotto di un lavoro più complesso, il suo valore la riconduce, in una proporzione opportuna, al prodotto del lavoro semplice, di cui essa rappresenta solo una quantità determinata. Le proporzioni diverse, secondo le quali differenti specie di lavoro sono ridotte a lavoro semplice come alla loro unità di misura, si stabiliscono nella società all’insaputa dei produttori e appaiono loro come consuetudini tradizionali. Di conseguenza, nell’analisi del valore,ogni varietà di forza-lavoro va trattata come forza-lavoro semplice[24].
Marx riviene più volte su questo tema; e nelle Teorie sul pluslavoro, mentre riprende una obiezione di Baley a Ricardo a proposito della giornata di lavoro semplice come misura di quella complessa, articola in mododefinitivo il suo pensiero:
Ricardo ha mostrato che questo non impedisce di misurare il valore della merce secondo la durata del lavoro, a condizione che sia data la proporzione tra lavoro semplice e lavoro complesso. Egli ha, senza dubbio, trascurato di spiegare come la proporzione si sviluppa e viene determinata. Tutto questo riconduce alla rappresentazione del salario e può essere ridotto in ultima analisi ai differenti valori della forza-lavoro, cioè ai loro differenti costi di produzione (che sono determinati dal tempo di lavoro)[25].
Il lettore è qui confrontato con un punto delicato e difficile; anzi propriamente singolare. L’ostacolo si annida nel dispiegarsi del ragionamento; e il testo, già alla prima lettura, ci avverte che v’è qualcosa che stona. L’analisi minuziosa conferma ed esplicita la difficoltà. Esaminiano, dunque, il problema nei suoi dettagli. Per Marx, il lavoro umano è composto da lavoro qualificato (skilled labour) e lavoro semplice (unskilled labour). Il primo è definito in contrapposizione al secondo, nel senso che il lavoro qualificato presuppone un processo d’apprendimento o, almeno, una formazione aggiuntiva. Secondo la supposizione marxiana, la proporzione – secondo la quale il valore del lavoro complesso è ridotto a quello del lavoro semplice come alla sua unità di misura— è determinata dal rapporto in valore dei costi rispettivi di formazione professionale. In altritermini, il costo sociale di formazione di un in gegnere è ben più alto che quello di un manovale; sicché, la differenza in valore tra le merci nelle quali si realizzala giornata lavorativa rispettiva dell’uno e dell’altro traduce la differenza in valore tra le forze-lavoro[26]. Questa supposizione di Marx può essere criticata e rigettata empiricamente sulla base della costatazione statistica che, nelle società capitalistiche, la distribuzione dei salari monetari non è isomorfa ai costi di formazione professionale[27]. V’è, però, di più: l’argomentazione usata da Marx, per giustificare la riduzione del lavoro complesso a semplice, è viziata logicamente[28]. L’origine dell’inconsistenza logica risiede, peraltro,meno nella soluzione data da Marx che nella questione stessa della riduzione. In altri termini, il programma di ricerca di Marx – l’obiettivo di smascherare il segreto della valorizzazione capitalistica della merce riconducendola al plus-lavoro, al tempo di lavoro aggiuntivo rispetto a quello necessario per la riproduzione del lavoratore – si scontra irreparabilmente con la premessa maggiore del suo ragionamento. Infatti, se il lavoro qualificato è solo una potenza moltiplicativa del lavoro semplice, ne segue che la merce prodotta dal lavoro qualificato possiede una quantità di valore che è poporzionale, secondo un determinato rapporto, al valore del lavoro semplice; e non al tempo di lavoro qualificato necessario per pr odurla, contrariamente a quel che impone la legge del valore-lavoro, cioè la premessa maggiore di tutto il ragionamento. Così, la riduzione del lavoro complesso al tempo di lavoro semplice è solo una supposizione e per di più erronea. È un peccato perché molte strategie del movimento operaio sono state costruite su questa supposizione: dalle attese rivendicative di un salario più elevato per tempi di lavoro più lunghi al misconoscimento dell’autonomia produttiva del lavoro tecnico-scientifico fino alla totale rimozione della funzione del «General Intellect» nella produzione capitalistica[29].
V) Misura realee misura convenzionale
Riassumiamo la critica sviluppata nel precedente paragrafo esaminando un contro-esempio rispetto alla teoria del valore-tempo di lavoro. Consideriamo tre merci: una sedia impagliata costruita in una mezza giornata da un falegname nelle Serre calabresi; un quadro dipinto in una mezz'ora da Mario Schifano; un diamante, di grande caratura, ritrovato, accidentalmente, da un no-global romano a via Condotti.
Secondo la legge del valore-lavoro, i loro prezzi sono proporzionali ai rispettivi valori di scambio e questi ultimi ai tempi di lavoro necessariper riprodurre quelle merci. Ora, i tempi empirici di lavoro, le durate della prestazione concreta del falegname, del pittore e del no-global sono, con buona evidenza, inversamente proporzionali ai valori monetari rispettivi della sedia, del quadro e del diamante. Vero è che Marx trascura volutamente i tempi empirici per riferirsi unicamente ai tempi socialmente necessari – o tempi medi necessari – per produrre le merci all’interno di un mercato libero e concorrenziale; perché, a suo avviso, una volta date le condizioni tecniche della produzione, la durata del lavoro socialmente necessario è una variabile determinata dalle leggi economiche e non dalla capacità particolare dei produttori concreti. Così, nel nostro caso,per calcolare il valore di scambio della sedia ci limitiamo a valutare il tempo di lavoro che il falegname calabrese impiega per produrla, considerando questo come un caso di lavoro semplice;ma per stabilire il valore del quadro, bisognerà tener conto della durata dell’apprendistato di Schifano; perché solamente l’apprendimento conseguito prima gli permette di realizzare, oggi, un quadro in qualche decina di minuti. Allo stesso modo, il valore del diamantenon è dato dal tempo trascorso nel ritrovamento accidentale della pietra, ma dal tempo medio necessario per effettuare una ricerca sistematica di una pietra perduta in via Condotti. Ma a questo punto il metodo perde la sua efficacia esplicativa perché si aggroviglia su se stesso. Ineffetti, anche se si riuscissea precisare i concetti di «apprendistato» e di «ricercasistematica» e a calcolare laloro durata media, impresa per nulla semplice[30], l’ostacolo persiste: tutti i pittori che hanno seguito una formazione della stessa durata di quella di Schifano non dipingono certo in una mezzora dei quadri di ugual valore; e tutte le pietre ritrovate lungo via Condotti, grazie ad una ricerca sistematica, non hanno certo lo stesso valore. Bisogna concludere che ben altri fattori, oltre il tempo necessario per riprodurle, intervengono nella determinazione del valore monetario delle merci[31]. A ben vedere, la concezione marxiana del valore-lavoro si rovescia irrimediabilmente in una rappresentazione sostanzialista del valore monetario delle merci; essa pretende, infatti,di fondare il valore sulla base di processi materiali – al limite, fatti fisici – e non sugli usi e le convenzioni umane. Il valore monetario è, per Marx, una funzione dipendente dallo sforzo energetico umano necessario per produrre la merce che quel valore racchiude. Questo sforzo è puro dispendio d’energia, lavoro semplice, capacità generica di lavoro comune agli esseri umani in quanto tali. Vi è qui, come avrebbe osservato Whitehead, «a fallacy of misplaced concreteness», la fallacia della concretezza fuori posto. Infatti, il valore non è una cosa concreta che possa essere mostrata; piuttosto, esso è costituito da una «definizione di congruenza» che coordina una molteplicità di concetti e che riposa su una convenzione semantica ineludibile[32]. Il valore di una merce non è, dunque, un problema di conoscenza – nel senso che si possa indicare un qualunque stato delle cose che mostri la durata, o altro, come il vero valore. Essendo il valore una definizione socialmente condivisa, esso non è vero o falso,ma solo appropriato o non appropriato. Quando si tenta di mostrare il«vero» valore, di svelarne la materialità, di mettere in corrispondenza la moneta con una cosa o un processo sensibile, si cade in un «circulusi n probando». In altri termini, la scelta della definizione e della misura del valore delle merci è materia di conflitto e condivisione sociale; in modo che differenti definizioni possono essere date senza contraddire i fatti empirici. I vincoli ai quali deve conformarsi la definizione di valore scelta sono di natura logica – come accade a tutte le relazioni di congruenza – e non di natura empirica, come avviene per le definizioni ostensibili[33]. Per analogia con lo spazio fisico, si potrebbe dire che lo spazio economico è amorfo, non possiede alcuna metrica intrinseca o esoterica propriamente detta; e se è dotato di una struttura interna, questa non determina certo la relazione tra i punti; e, quindi, per analogia, la relazione tra i beni economici o la relazione di valore. In effetti, questa relazione, in quanto relazione di congruenza, coincide con la scelta dell’osservatore di assegnare un sistema di coordinate; o con il modo come l’agente economico valuta i valori delle merci. L’obiettività della misura non risiede, dunque, nell’identità dei risultati ma sull’invarianza della sua espressione formale[34]. Dobbiamo quindi concludere questa esposizione critica della teoria marxiana affermando che la natura del valore della merce, così come Marx la descrive, non è certo la scoperta del vero valore ma solo una definizione arbitraria di esso. Come abbiamo già sottolineato altrove[35], in opposizione alla scelta sostanzialista del rivoluzionario tedesco, la durata del lavoro umano preso a misura del valore della merce, trae origine dal senso comune,dalle comuni idee di tempo assoluto,ricchezza astratta e progresso[36]. Ma le difficoltà teoriche non provengono certo dall’arbitrarietà della scelta, bensì dalla contraddizione che l’attraversa, insomma dalla sua inadeguatezza specifica. L’estrema debolezza nella quale versa la prassi del marxismo ci sembra che possa bene essere riassunta da questa inconsistenza logica.
VI) Il lavoro ritrovato
Questa nostra critica al concetto di lavoro e di tempo in Marx tenta di aprire una breccia attraverso la quale gli eredi della «concezione marxista del mondo»[37] possano ritrovare un rapporto con la realtà del mondo. Si tratta, per il marxista, di riuscire a pensare quel presente che risulta celato proprio da quella concezione. Le nozioni fondamentali di lavoro e di tempo quali si ritrovano in Marx sono divenuti, ormai, degli ostacoli epistemologici che ostruiscono la comprensione del reale; e impediscono al pensiero critico di appropriarsi di quella invarianza, indifferente al tempo, che caratterizza il mondo dell’esperienza umana. Del resto, il superamento di quelle nozioni, è per paradosso, una esigenza dello stesso sforzo di pensiero di Marx, ove si comprendal’intera sua opera e non semplicemente gli scritti d’economia politica. Si pensi, ad esempio, alla figura marxiana della «coscienza enorme»[38], la coscienza adeguata al genere. Questa figura abbisogna di una temporalità diversa da quella cronologica; e la sua attività di appropriazione conoscitiva del mondo che si materializza nell’individuo sociale non può certo lasciarsi scandire dallo scorrere del tempo; pena il precipizio e l’annichilimento nella falsa coscienza, nella coscienza del particolare[39]. Bisogna insistere su questo punto: la riduzione del lavoro a lavoro semplice e la misura del valore del lavoro tramite il tempo di lavoro non è la sola rappresentazione della diade lavoro-tempo nell’opera di Marx. Prima del 1847, prima della polemica con Proudhon, lo sforzo di pensiero di Marx era indirizzato in ben altra direzione. Nelle opere giovanili così come in quelle che precedono di pochi anni la sua morte, la riflessione sul lavoro si situa dal punto di vista dell’universale e non del generale, dal punto di vista dell’individuo e non della società. Così, nei Manoscritti del 1844, Marx rifiuta di fondare la civiltà umana sulla necessità di produrre ricchezza astratta. La vita sociale degli umani, il loro naturale legame politico, il loro abitare insieme nelle città non si fonda certo sul lavoro produttivo, sulla valorizzazione della merce, sulla funesta passione di arricchirsi in fretta; piuttosto è la passione dell’autorealizzazione, l’essenza stessa del genere, a spingere gli umani a darsi l’uno per l’altro; e in questo uso l’uno dell’altro si forma naturalmente, cioè spontaneamente, l’individuo sociale con la sua coscienza enorme. L’attività specificamente umana non è il lavoro necessario alla riproduzione sociale, semplice o allargata che sia – questo semmai è il sacrificio che si consuma perché la polis possa sopravvivere e il legame politico persistere. L’attività che singolarizza l’essere umano, quella che è a fondamento positivo della polis, è il lavoro che realizza l’idea, il lavoro come atto libero ed inventivo dell’individuo, in una parola antica: l’opus. Forse, bisognerebbe leggere l’apologia dell’«ape e l’architetto» meno come una figura di stile che come una definizione antropologica dell’attività propriamente umana. Peraltro, Marx non ha mai davvero scordato questa sua idea giovanile di lavoro[40] ; persino nella laboriosa Prima Sezione del Libro I del Capitale, proprio là dove definisce il tempo come misura del valore, si affretta a precisare i limiti di validità di questa definizione introducendo la categoriadi «forza produttivadel lavoro»[41]. Per la verità, il Nostro non presenta da nessuna parte dei suoi scritti una trattazione sistematica di questo concetto economico-politico; anche se, nel Capitale riviene più volte su questa categoria ma solo per impiegarla, in quanto tale, in passaggi teorici di dubbia consistenza[42]. Al contrario, nei Grundrisse si tova un passo decisivo, là dove Marx esplicita tutte le implicazioni del concetto di forza produttiva del lavoro[43]. Si tratta del passo, assai noto, nel quale il pensatore tedesco, dopo aver constatato la miseria di una civiltà la cui ricchezza è misurata dallo durata dello sforzo penoso dell’uomo, intravede, in latenza, una altra civiltà la cui ricchezza è valutata in ragione del grado d’estinzione del lavoro ripetitivo e penoso, cioè del lavorosalariato; una civiltà che ha, come suo presupposto materiale, l’appropriazione tecnico-scientifica della natura; il che vuol dire minimizzazione del tempo di lavoro necessario e, per ciò stesso, liberazione dal tempo uniforme. Questa «fine del tempo» è resa possibile dalla conoscenza della natura che permette l’uso naturale della natura, cioè la capacità di ritornare consapevolmente nella natura, integrarsi in essa, e vivere di nuovo naturalmente. L’individuo sociale confida allora la necessità alla natura, che è ben in grado, come per tutti gli esseri viventi, di provvedere automaticamente. Una volta svelata la dimensione reale della necessità sociale, la povertà o meglio la paura della povertà si dilegua; e l’individuo si sottrae, finalmente, al «serpente delle sue pene». Si badi: questa civiltà alternativa non è il regno piatto del tempo libero, delle vacanze evasive e divertenti modulate dalle agenzie di viaggio; piuttosto è il mondo dell’individuo finalmente scoperto, un mondo che promuove la passione per lo sviluppo delle capacità, e fa di questo sentimento, cioè del piacere, il fondamento positivo dell’etica sociale. Si tratta, quindi, di una civiltà che produce, in primo luogo, occasioni per l’individuo di svilupparsi come arte e come scienza;e di realizzare così, o almeno tentare, la sua idea del mondo, cioè di autorealizzarsi. Questa civiltà alternativa è, secondo Marx, possibile perché essa dimora già nel nostro presente – è una potenzialità che dorme, latente, nel seno del modo di produzione capitalistico, nella civiltà del capitale. L’azione politica, intesa come apocalisse stricto sensu, può svegliarla; e mettere fine così alla storia concepita come progresso. L’azione politica, dunque, può provocare un salto d’epoca, il salto dentro una epoca atemporale dove la coscienza enorme autorizza l’individuo sociale all’ebbrezza della volontà.
VII) La regola di vita
Bisogna avvertire: non si tratta di ritornare al giovane Marx quanto riprendere i fili della sua ricerca giovanile sull’individuo sociale. Come si vede, la posta in gioco non è più il programma per la costruzione di qualche uomo nuovo all’interno di una società giusta, il tutto in un tempo differito, nell’avvenire; al contrario, la questione è di scoprire quelle regole di vita che permettono l’autorealizzazione, che autorizzano a vivere come individui sociali; e tutto questo nel presente, né subito né nel futuro. Si noti che qui il soggetto storico dal quale parte la ricerca ne è anche il punto d’arrivo – infatti, l’individuo è il solo soggetto per il quale la questione della realizzazione si ponga concretamente ed abbia anche una verifica empirica[44]. Si tratta quindi di ricominciare con l’individuo; e, per prima cosa, guardare il lavoro con i suoi occhi, dal suo punto di vista; si scopre allora che l’attività umana non si esaurisce nella bipartizione tra lavoro produttivo e improduttivo, come pretende l’economia politica nonché la critica marxista della stessa. Piuttosto, dal punto di vista dell’individuo, la questione è: come autorealizzarsi nel lavoro? E la natura di senso comune di questa interrogazione richiede, come al solito, che la risposta sia tecnicamente perfetta. Uno sforzo di pensiero è già stato fatto in questa direzione[45]; e tuttavia, qui ci preme notare come la pertinenza dell’interrogazione comporti un orientamento preciso della ricerca, determina la via da seguire. Così, per l’individuo sociale, il lavoro, questa grande condotta umana, non gode di una comune misura, è privo d’unità. Dal punto di vista dell’individuo la parola «lavoro» designa due tipi d’attività irriducibili l’una all’altra: l’agire libero o originale e l’agire servile o imitativo[46]. La prima è la realizzazione di una idea, la potenza universale-concreta dell’individuo sociale che appare nella sua unità assoluta,senza divisione tra mezzo e fine, produzione e consumo, desiderio e sforzo per realizzarlo. Il lavoro servile, al contrario, è un agire senza unità interiore, un mezzo che ha il suo fine all’esterno, un servizio che «un particolare» rende ad «un altro particolare» sotto la costrizione della necessità sociale. La ripetizione regolare è il segreto dell’efficacia di questo tipo di lavoro. Qui, l’essere umano non ha alcuna occasione di manifestare la sua autonomia, di realizzarsi come individuo. L’agire servile è come un atto mancato che produce e riproduce la necessità sociale che l’aveva determinato. Il lavoro, in tanto che atto desiderabile o libero, realizza le facoltà naturali dell’individuo; esso è una prova, nel doppio senso del termine, delle sue capacità. Questo modo d’agire non comporta nessuna conformità alle leggi economiche, non ha bisogno di alcuna legittimazione perché è definitivamente auto-referenziale, dunque auto-fondativo. Il lavoro servile, viceversa, fa dell’obbedienza una virtù sociale, eccita nell’individuo la paura dell’avvenire, ovvero alimenta la sua anima da schiavo. Trovandosi la ragione costitutiva al di fuori, è necessario che il principio etico-politico che lo fonda sia, malgrado la sua arbitrarietà, pubblicamente condiviso dai membri della polis, perché la sua legittimazione deve essere evidente[47]. Non abbiamo difficoltà ad ammettere che queste considerazioni non definiscono né mostrano la regola di vita che ci autorizzi a vivere come individui sociali. Certo ne siamo ancora ben lontani; e tuttavia la circostanza che esse siano capaci d’interloquire con il senso comune ci aiuta a scrutare meglio nel nostro presente e a slargarela nostra memoria. Osserviamo, ad esempio, il fenomeno, comune a tutte le società tardo-capitalistiche, del lavoro precario. Se ci togliamo gli spessi occhiali dell’ideologia lavorista, che riconduce ogni cosa al buco nero dello sfruttamento economico; ecco allora che la devalorizzazione del lavoro salariato, intrinseca al fenomeno stesso, ci appare come un esodo di massa dalla condizione operaia, una astuta potenza liberatrice dal tempo di lavoro, uniforme e tedioso. L’analisi, anche sommaria dei movimenti sociali, che popolano il nostro presente, conferma questa tendenza all’esodo dalla civiltà del lavoro e dalla sua temporalità, lineare e progressiva. Si pensi alle lotte in difesa del genius loci, impropriamente chiamate ecologiche; qui il progresso apportatore di ricchezza astratta, aggiuntiva, si scontra con un comune sentire che vede le relazioni sociali fondate sulla conservazione del paesaggio; in altri termini, qui v’è la difesa di una ricchezza concreta, già esistente, fatta di valore d’uso, non certo disposta a sacrificarsi in nome del futuro, cioè del valore di scambio, della ricchezza astratta. Analogamente, se proviamo a fare un bilancio dei movimenti femministi, ci accorgiamo che i risultati significativi sono stati conseguiti non dove è stata balbettata una loro rispettabilità nel linguaggio dell’economia politica[48]; bensì dove essi sono riuscitia divenire esperienza, ad irrompere nella vita quotidiana, introducendo de facto una pratica di condivisione, tra donne e uomini, del lavoro servile,propriamente non-produttivo; perché questa condivisione ha comportato l’emergere, a livello di senso comune, della «finitezza», ovvero del corpo come condizione organica della coscienza. Fuori dall’ideologia lavorista, la memoria si allarga; e i movimenti di oggi si continuano in quelli di ieri. Così, i grandi cicli di lotte, tra gli anni ‘60 e ‘70, ci appaiano come la ripresa del pensiero critico in Occidente, dopo «il sonno dogmatico» seguito all’ultima guerra mondiale. Le comuni Hippies in California, come quelle di Berlino, sono degli eventi ironici nel senso stretto del termine; degli episodi d’interrogazione collettiva – radicale, ingenua e innocente – sulla povertà sensuale di un mondo sommerso dalla ricchezza astratta; e, a un tempo, dei suggerimenti, sussurati con homour a ritrovare nel modo di vivere l’energia del legame collettivo, a ricostruire la polis attraverso le comunità elettive[49]. Allo stesso scenario converge il ricordo delle lotte autonome degli operai italiani, vera critica operaia all’operaismo istituzionale di sindacati e partiti: assenteismo e sabotaggio praticati come esodo dalla fabbrica, rifiuto pratico della riduzione del valore al tempo[50] . Infine, ricordando, senza vergogna, la violenza esperita dalla nostra generazione, restiamo attenti alle forme radicali di lotta politica; e, in primis,alle organizzazioni che praticano la lotta armata. Si badi: si tratta di una attenzione che spartisce crudelmente l’ammirazione dall’orrore. Ammirazione, perché il mettere a rischio la propria vita permette di ritrovare la propria finitezza, la sola che possa curare quella astratta paura della morte, quell’angoscia che diminuisce le nostre vite. Orrore perché là dove si mette a rischio non solo la vita propriama anche quella degli altri, l’angoscia contro cui s’intende lottare, riappare di nuovo; e, per di più, moltiplicata.
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