Print Friendly, PDF & Email

intrasformazione

Relire Il Capitale

di Antonino Morreale

9419738 origCurato dall'infaticabile M. Musto, oggi uno degli studiosi più importanti di Marx, esce il volume Il Capitale alla prova dei tempi. Nuove letture dell'opera di Marx. (Allegre Roma pp.383)

Si compone di due parti, la prima sul Capitale, la seconda si estende, a partire da quello, ad alcune tematiche tra le più attuali, come l'ecologia, il genere, le periferie del mondo.

Una Introduzione molto estesa ed accurata di Musto apre il volume e ci aggiorna sulle risultanze ultime attorno alla biografia e alla produzione di Marx. Operazione indispensabile vista la mole e qualità dei nuovi elementi emersi dal lavoro della MEGA2.

È da quella iniziativa di pubblicare tutto Marx ed Engels, nata nel 1975 e giunta ormai alla conclusione, che occorre partire. Ci lasciamo dietro una storia cominciata a fine '800 col lavoro di editore di Engels e poi di Kautsky, e negli anni '20 di Riazanov, per iniziarne una nuova, su basi filologiche affidabili, all'altezza delle sfide di oggi.

Auspichiamo perciò che quanto prima si possa disporre, almeno, di una nuova edizione italiana dei libri II e III del Capitale perché molte e significative sono le novità rispetto alle edizioni di Engels di fine '800. Per il primo libro del Capitale il problema non si pone perché dal 2011 disponiamo del lavoro enorme e raffinato di Fineschi (nel volume del quale parliamo, invece, viene utilizzata la traduzione di Macchioro e Maffi della UTET).

Undici i saggi di specialisti di livello internazionale, appartenenti a diverse generazioni (dal “vecchio” Balbar al giovane Saito, e dagli USA a Francia, Italia, Giappone, etc.)

 

Parte prima. Capitalismo, passato e presente

M. Musto, La critica incompiuta del Capitale

Con una introduzione di Musto (”La critica incompiuta del Capitale”, pp.9-68), impressionante per ricchezza, martellante ritmo espositivo e montaggio degli eventi, solo in apparenza biografia, si apre la prima parte del volume, dal titolo: “Capitalismo, passato e presente”.

Chi volesse avere oggi un quadro aggiornatissimo e accurato della biografia privata, pubblica, scientifica, di Marx troverà in queste pagine una guida sicura su cui lavorare. L’intreccio tra vicende private (malattie, lutti, povertà), e la terribile tenacia scientifica e politica di Marx, risalta in maniera impressionante nella esposizione di Musto anche per chi quelle vicende conosce.

Andiamo al Capitale. Quasi 25 anni separano i primi lavori di Marx dalla pubblicazione del primo libro. Non era maturo il tempo nel 1848, anno delle rivoluzioni europee; ma quando nel '57 si annunziò una nuova crisi, Marx pensò che fosse il momento di mettere a frutto gli studi fatti a Londra dal '50.

In meno di un anno, a cavallo tra '57 è58, stese i Grundrisse “riepilogo dei miei studi economici, per metterne in chiaro almeno le grandi linee(Grundrisse) prima del diluvio”.

Il diluvio cessò troppo presto, ma ormai Marx era partito. Stese otto quaderni che, nella edizione italiana tradotta da Grillo (1970), occupano un migliaio di pagine.

È la prima “forma” del Capitale, che rimase inedita fino al 1939-41, e da cui Marx trasse un piccolo libro Per la critica dell'economia politica, più noto per una discussa Prefazione (1859) che per il contenuto vero e proprio. E che contiene il progetto della “economia borghese”: “Capitale, proprietà fondiaria, lavoro salariato; stato, commercio estero, mercato mondiale”.

Progetto destinato a cambiare più volte.

Tra il '61 e il '63 Marx stese 23 quaderni che contengono, tra l'altro, il confronto critico con gli economisti precedenti. E, da lì, il primo libro del Capitale, l'unico “finito”. Il quadro riassuntivo è questo: finito, sul manoscritto del '63-4 nell’aprile '67, stampato, è messo in vendita il 14 sett.'67.

Questo, alla fine, il quadro complessivo.

Marx “non potè portare a termine la revisione del libro primo (...); né la traduzione francese nel '72-'75, né la terza edizione tedesca del 1881 possono essere considerate come la versione definitiva che avrebbe voluto eseguire” (Musto pp. 63-4).

Secondo libro: le bozze” furono lasciate in uno stato tutt'altro che definitivo e presentano numerosi problemi teorici” (p. 63).

Libro terzo: “i ms. del libro terzo hanno un carattere molto frammentario, e a Marx non riuscì neppure di realizzare un aggiornamento che fosse coerente con il progresso dei suoi studi” (p.63).

Non a caso, per l'intera opera, è stata da tempo adottata l'immagine efficace di “torso”.

“Ad ogni modo, conclude Musto, lo spirito problematico con il quale Marx scrisse e continuò a ripensare la sua opera palesa l'enorme distanza che lo separa dalla rappresentazione di autore dogmatico, proposta sia da molti avversari che da tanti presunti seguaci. Pur nella sua incompiutezza, coloro che vogliono avvalersi di essenziali categorie teoriche per comprendere il modo di produzione capitalistico non possono prescindere dal leggere, ancora oggi, Il Capitale” (p. 64).

E. Balibar, Una rivisitazione dell'“espropriazione degli espropriatori” nel Capitale di Marx

Il primo saggio è di E. Balibar, “Una rivisitazione dell'”espropriazione degli espropriatori” nel Capitale di Marx” (pp. 73-98). Dinanzi al “capitalismo assoluto” e alla necessità di un'alternativa, si ragiona sulla proposizione: “Espropriazione degli espropriatori” (Capitale I, cap.24). Celebre ed “enigmatica”, cercando di vedere da dove provenga, cosa suggerisce, chiarirne il senso.

Il contesto è chiaro: “Il monopolio del capitale diventa un inciampo (“vincolo”: traduce Fineschi) al modo di produzione ...centralizzazione... e socializzazione raggiungono un punto nel quale diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Esso viene infranto. L'ultima ora della proprietà privata suona. Gli espropriatori vengono espropriati”.

Con queste parole, dice Balibar, “vengono formalizzate le conclusioni politiche dell'intero libro” (p.75). Balibar trova però, in questa lettura, “qualcosa che ancora non quadra” (p.76).

Lo schema è ben noto, è già nel Manifesto del '48, e nella Prefazione del '59, nella contraddizione tra “forze produttive e rapporti di produzione”.

Potremmo aggiungere ancora qualche parola del seguito di Marx:” Ma la produzione capitalistica genera con l'ineluttabilità di un processo di natura la propria negazione. È la “negazione della negazione” etc. (Capitale I, tr. Fineschi, p.838).

Cos'è che non convince Balibar? Intanto la posizione del passo all'interno del primo libro. Alla fine del cap. 24, che però non è alla fine (l'ultimo capitolo è il 25, “La teoria moderna della colonizzazione”). Balibar ritiene che qui ci sia qualcosa da spiegare: perché Marx non mette la fine del capitalismo alla fine del Capitale?

Censura, che gli fa nascondere quelle frasi in una posizione meno evidente e provocatoria?

Ma andiamo alla soluzione proposta da Balibar. Quella frase è il collegamento che Marx fa tra la rivoluzione francese della “Convenzione” e la prossima rivoluzione. Un collegamento tra la rivoluzione “borghese” francese e la prossima “proletaria”; ma non è sufficiente per Balibar (p.81), che qui ricorre a Isaia 14.2 (perché “il messianismo è frequente in Marx”, dice a p. 82).

Da una tendenza storica, conclude B., ricaviamo la “rappresentazione di una fine apocalittica” (p.83).

Da questa si scampa: “il superamento del capitalismo dipende dall'emergere di una forza(..) che sia in grado di contenere gli opposti: vale a dire quanto di più remoto dalla coscienza di classe (le istituzioni finanziarie) e quanto di più prossimo a prendere altre vie nel presente (le cooperative dei lavoratori). Sfortunatamente però Marx non ci dice nulla sulla natura di questa forza...” (pp.86-7).

Qui è per B. “un’autentica alternativa” (p.87). Ma c'è in Marx un'altra “uscita”. Quando alla sussunzione “formale” succede la sussunzione “reale”, in cui avviene l'incorporazione della forza-lavoro nel sistema modellandola. Dinanzi a questa angosciosa prospettiva di “una biopolitica semitotalitaria a base capitalistica fattasi ormai norma sociale” (p. 92), Marx, secondo B., avrebbe addirittura espunto il Capitolo VI che contiene questa visione (e che forse per questo affascina).

La soluzione di Marx rimane aperta tra una “guerra sociale indefinita” e una “sussunzione totale” (p.93). Per questo, anche per B., resta da “ripensare interamente la sua teoria” (p.95).

Bob Jessop, “Ogni inizio è difficile vale per ogni scienza”

La forma cellulare del Capitale e l'analisi delle forme sociali capitalistiche in Marx

Segue il saggio di Bob Jessop: “Ogni inizio è difficile vale per ogni scienza”. La forma cellulare del Capitale e l'analisi delle forme sociali capitalistiche in Marx” (pp.99-151).

“finché esistono uomini, la storia della natura e la storia degli uomini si condizionano reciprocamente”.

Pensano così Marx ed Engels nella “Ideologia tedesca” (1846), e il loro interesse per entrambe durò per tutta la vita. Da questa osservazione parte l'intervento di Jessop.

Erano tempi di fondamentali scoperte. La cellula, la trasformazione dell'energia, l'evoluzione. Tutte ebbero un impatto su Marx, ma solo per alcune, è il caso di Darwin, questo è stato rilevato. Da qui parte il saggio di Jessop, che, sulla scia di Foster e Bellamy, evidenzia la capacità di Marx di “incorporare la termodinamica nel nucleo della sua analisi ponendo così le basi per una economia ecologica” (p.102). Entropia etc. “risultarono infine cruciali per l'indagine di Marx sull'economia politica del tempo” (p.104). È così anche per le scoperte in biologia cellulare e per il concetto di “metabolismo” (Liebig), che Marx inserisce come chiave nel rapporto uomo-natura.

Infine la “cellula”. Questa terza scoperta è “la meno discussa” (p.106), mentre Jessop ritiene che essa abbia avuto un “ruolo euristico cruciale, per quanto snobbato, nel concepimento del suo metodo” (p.106). La dimostrazione di questo punto risulta per Jessop ardua, perché i relativi materiali di Marx (Exzerpte, sez. IV di MEGA2) non sono stati ancora pubblicati.

Questo approccio generale si sostanzia da adesso in avanti su due punti specifici, il discorso sulla economia politica e il suo metodo, e quello sulla merce come inizio della analisi nel Capitale.

Come cominciare dunque? Ogni inizio è difficile. Marx imbocca la propria strada solo dopo diversi tentativi. Jessop ricorda come Marx abbia preso le mosse dalla separazione tra società civile e stato (Critica della filosofia del diritto, 1843), dal denaro (Manoscritti,1844), dai rapporti di produzione (Ideologia tedesca, 1846), etc. Infine nella Introduzione del '57.

Solo nel Capitale (1867) Marx utilizza un metodo “tratto dalla biologia cellulare” in un modo che non è semplicemente metaforico (p.113).

La scelta ricade sulla “merce”. Seguendo Fineschi, Jessop osserva che la “merce fornisce un punto di partenza ideale perché non è un concetto astratto ma un'unità di forma e contenuto” (p.115) (unità di contenuto materiale e forma sociale: Fineschi. Ripensare p.44).

Altri autori come Henzel, ricorda Jessop, hanno ribadito “come la merce in quanto forma germinale rappresenti l'equivalente di ciò che in Hegel era la forma elementare” (p.117).

Rimane da spiegare per Jessop quale travaglio c'è in Marx tale da condurlo tra il '56 e il '67 ad iniziare con la merce (p.118). La merce “è la forma economica cellulare elementare” (scrive Marx). Ma nessun microscopio, solo astrazione. Se non c'è oggi nessun problema nel documentare l'influenza di quelle scienze su Marx, il problema che rimane è quello di “definire i limiti dell'analogia e della metafora” (p.137), riconosce Jessop. E le conclusioni non possono essere diverse da quelle che ci presenta.

“Le basi scientifiche del marxismo non si dimostrano a partire dal numero di riferimenti tratti dalle scienze naturali, o dalle analogie” (...) “È stato piuttosto il loro approccio alla storia, basandolo su una scienza (l'economia politica), e sul trattarlo in maniera scientifica (...) a rendere “scientifico” il loro socialismo (pp.137-8). La riluttanza di Marx ed Engels è in tal senso più volte ribadita e Jessop giustamente la ricorda(pp.138-9). E allora? Jessop si attesta su questa affermazione di Freeman: “laddove l’economia politica di stampo classico concepisce il capitalismo tanto eterno quanto esterne sono le sue crisi, la critica dell'economia politica concepisce invece il capitalismo tanto storico quanto interne alla logica del capitale sono le sue crisi” (p. 141).

La stretta finale di Jessop è dunque limitativa: “l’interesse di Marx per la teoria cellulare è più consona a una fase di scoperta piuttosto che a una fase di ricerca più sistematica o a una fase di esposizione logico­storica della sua critica dell'economia politica” (p.142).

Osservazione che si sostanzia in queste due finali del saggio: “la teoria cellulare non avrebbe dovuto né potuto giocare un ruolo più rilevante nell'esposizione marxiana dei risultati scientifici del capitale”. E l'ultima che riapre la questione: “Il metodo espositivo poggia qui su un metodo logico-storico che deve molto più ad Hegel che ai pionieri della biologia cellulare.” (p.143).

È il punto giusto per sottolineare quanto il concetto di “forma” sia assolutamente centrale ed anche che la forma hegeliana viene molto prima della cellula nel vocabolario scientifico di Marx.

M. Postone, La crisi contemporanea e l'anacronismo del valore

Si passa ora ad uno dei più significativi, innovativi, “scomodi” studiosi di Marx, M. Postone (scomparso da poco), autore di un testo fondamentale come Time Labor, and social domination (1993). Di particolare finezza, complessità e difficoltà.

Crisi economiche, trasformazioni strutturali, deindustrializzazione prematura, finanziarizzazione della vita sociale, sfruttamento strutturale, crescita delle diseguaglianze, degrado ambientale, svuotamento della società del lavoro, “sono tutti fenomeni capaci di mettere in discussione i toni trionfalistici tanto del neoliberismo quanto del postmarxismo” (...); tutto questo “ci obbliga a dover ripensare, e non semplicemente recuperare, K. Marx” (p. 155).

Fin qui, si potrebbe osservare, nulla di nuovo. Da quando c'è il marxismo, ogni generazione ha dovuto fare conti più o meno drammatici con la realtà sempre nuova e sempre vecchia del capitalismo.

Ma, ritiene Postone, questo capitalismo è “unico”, e tornare a Marx può non bastare, dobbiamo “ripensare Marx”.

Postone schematizza, un primo capitalismo liberale fordista e statalista (dalla prima guerra mondiale agli anni '70); ad esso segue un secondo capitalismo “globale e neoliberista” che comprende cioè sia “i paesi occidentali e quelli comunisti quanto le terre colonizzate e decolonizzate” (pp.156-7). Che nonostante le differenze “si manifestano più come diverse flessioni di un modello comune piuttosto che come veri e propri sviluppi autonomi”.

La teoria non ha saputo spiegare questi “modelli onnicomprensivi” e ciò obbliga ad un ritorno a Marx, perché lì “al centro dell'analisi di Marx vengono elevate a problema dinamiche storiche e cambiamenti strutturali globali” (p.157).

A patto però di “discostarci dalla critica marxista del capitalismo tradizionale - intendo da quella generale impalcatura interpretativa in cui il capitalismo viene analizzato essenzialmente entro i termini di rapporti di classe originati in seno alla proprietà privata e mediati dal mercato e in cui la dominazione sociale viene compresa prima di tutto secondo schemi di dominazione fondati sulla classe e lo sfruttamento” (p.158). Gli sviluppi storici intervenuti “suggeriscono che l'impalcatura marxista tradizionale non è più in grado di fornire un punto di partenza che sia valido per costruire una critica davvero adeguata alla contemporaneità” (p.158).

(Un compito del genere non si può certo assolvere nel saggio in questione, mentre gli sviluppi si possono trovare nel libro Time etc.)

Non ci pare adeguata, però, la prima strada proposta da Postone, quella che rileva “come idee e concetti come postcapitalismo, socialismo, lavoro, proprietà privata, pianificazione etc. hanno iniziato a perdere la loro presa sull'immaginario di molti intellettuali, studenti e lavoratori progressisti già durante la crisi del capitalismo fordista tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento” (p.158).

È la mancanza di un immaginario socialista, post-capitalista, che sia in grado non solo di ridiscutere i rapporti di distribuzione(..) ma anche gli stessi rapporti di produzione, e quindi la natura stessa del lavoro sociale. Un'assenza che in fondo è la causa prima delle note pastoie dei movimenti progressisti” (p.159). Da qui Postone avanza la sua idea interpretativa fondamentale.

Il marxismo tradizionale insomma non funziona più perché considera le categorie, valore, merce, plusvalore, capitale, come se avessero qualità transtorica, come se fossero applicabili ad ogni società. Ma non è questo quello che Marx ha voluto fare ed ha fatto. Nei Grundrisse Marx “afferma esplicitamente come le sue categorie fondamentali siano storicamente determinate” (p.161), non estensibili in alcun modo ad altre formazioni socioeconomiche.

La merce è l'esempio che Postone prende in esame:

“La forma di ricchezza associata a questi rapporti sociali, a quanto sostiene Marx, è il valore, anch'esso storicamente determinato. Eppure molte interpretazioni trattano ancora la categoria marxiana di valore come se fosse la stessa indicata da Smith e Ricardo — vale a dire come categoria transtorica in grado di costituire ricchezza in ogni tempo e in ogni luogo” (p.163).

Vediamo cose ne consegue.

Siamo, dice Postone, dinanzi ad una “fondamentale incomprensione” (p.164).

Marx infatti non ha “raffinato e radicalizzato la propria economia politica” per parlar male del capitalismo. Marx ha scritto non una economia politica ma la sua critica...” riformulando l'oggetto e la natura di quella analisi che non si incentrerà più sullo scambio iniquo o meno che sia, e sullo sfruttamento. Servendosi delle proprie categorie Marx tenterà invece di svelare e analizzare la specificità unica della società capitalistica (p.164)”.

Cerchiamo di afferrare il suo punto centrale.

“Nelle sue opere mature Marx distingue specificamente il valore - in quanto forma strutturale e storicamente determinata di ricchezza del capitalismo - da ciò che chiama “ricchezza materiale” che viene invece misurata dalla quantità di prodotto totale ed è funzione di conoscenza, organizzazione sociale, condizioni naturali, oltre che di lavoro. Il valore, dal punto di vista marxiano, è dunque qualcosa di intrinsecamente temporale, che si costituisce unicamente a partire da quanto speso in termini di tempo lavorativo socialmente necessario” (p.164).

Ed ecco il punto che forse andava espresso più in dettaglio — “il carattere duale della forma di merce...da una parte spinge il valore in avanti, dall'altra lo rende sempre più a n a c r o n i st i c o “(p.164).

Da ciò la conseguenza che, non solo “le società non capitalistiche non si strutturano sul valore, ma anche che quelle postcapitalistiche non lo saranno” (p.164).

Insomma, “Sviluppo del capitalismo e anacronismo del valore procedono di pari passo” (p.164).

E ancora. “Piuttosto che considerare la temporalità come una cornice immutabile, già data a priori, all'interno della quale si muovono tutte le forme di vita sociale, la teoria marxiana concepisce il capitalismo come una forma di organizzazione della vita sociale del tutto particolare, in grado di costituire la propria, storicamente determinata, forma di temporalità” (p.167).

È una “nuova forma storica di dominazione sociale” che “non ha un locus determinato” (p.167).

Piuttosto che dare per scontata la storia, “Marx storicizza la storia” (p.168). Tesi su cui occorrerebbe soffermarsi, “essa pone le basi affinché un'altra organizzazione del lavoro e della vita sociale siano possibili ma impedendo allo stesso tempo che questa possibilità si realizzi” (p.168).

Entrato in questo ordine di idee, Postone recupera Hegel (“il “nucleo razionale” della dialettica hegeliana è precisamente il suo carattere idealistico”: che è vero) (p.169).

Da qui la contraddizione della odierna configurazione del capitale “in cui il lavoro che produce valore diventi sempre più anacronistico ma in cui nonostante questo esso rimanga strutturalmente imprescindibile per il capitale” (p.172).

“Come l'accumulazione di ricchezza rallenta, la ricerca di ricchezza diventa perversamente riflessiva come una malattia autoimmune — iniziando a nutrirsi della sostanza stessa della società e della natura” (p.174). L'immagine che ce ne siamo fatta, da queste letture, è che il capitale fa tutto, e nessuno può farci nulla. Possiamo solo assistere al suo trionfo e/o alla sua(nostra) catastrofe.

Non si capisce come e dove potrebbe venir fuori una soluzione, eppure Postone scrive:” l’idea di un'altra forma possibile di vita sociale, oltre il capitalismo, è comunque immanente alla odierna società capitalistica” (p.175).

Anche se “Un'opposizione può essere, come spesso è stata, sussunta dal capitale stesso.

(...) “il capitale stesso, in quanto potenzialità umana oggettiva, che genera la possibilità di una società futura” (p.175), e che ci avvicina, ogni giorno di più, a scegliere in modo radicale fra socialismo o barbarie” (p.176). Che è davvero una speranza a cui Postone non ci aveva preparati...

Alfonso M. Iacono, Ambivalenza della cooperazione, Il ritorno dell'uomo come animale sociale

Questo saggio (pp.179-206) ci trasporta su una lettura della realtà del tutto diversa.

Dopo gli anni '80 “qualcosa è cambiato”, è tornata l'immagine aristotelica dell'uomo “animale sociale”. “L'elemento sociale è tornato ad essere considerato come costitutivo della formazione degli individui sul piano etico, politico e cognitivo” (p.179).

Paradossalmente, e diversamente dalla opinione corrente, che parla di individuo cannibale, lupo per l'altro uomo, “la società non riesce a realizzare la facoltà cooperativa umana”.

È l'opposto del modello dell'individualismo possessivo.

Simbolo è l'homo oeconomicus isolato, individualista dedito al traffico delle merci, dotato di una “ragione utilitaristica e calcolatrice”, che ha bisogno della collaborazione degli uomini, “ma non deve aspettarsi nulla dalla loro solidarietà” (p.185).

È la ripresa di Marx e di Polanyi (anni '50), ma Robinson, in quanto mito, ciclicamente ritorna.

Marx ha affrontato la questione, dice Iacono, in tre diversi punti della sua opera: l’introduzione del '57, le Forme economiche precapitalistiche, il Capitale.

L'uomo produce in società, questo il punto d'inizio. Per Marx l'economia politica classica trasporta e proietta nel passato più lontano quel che vede nel proprio presente. Disegna l'uomo primitivo col materiale, i pezzi, dell'uomo “borghese” e lo rovescia di nuovo su di esso. È la previsione che si autoconferma, un gioco. Critiche dimostrabili e dimostrate esatte dalla ricerca storica,

Polanyi ha ripreso queste analisi, rilevando come, diversamente dalla sua pretesa naturalità, il laissez faire fu un “trauma”, una “rottura storica enorme” (p.191). Per questo rileggere i maltrattati mercantilisti e... .Shakespeare, aiuta.

La regola infatti era che l'economia fosse incorporata nella società, non viceversa.

Le leggi di mercato hanno un potere distruttivo sul contesto della società che non è più, a quel punto, un contesto, ma un contenuto sempre più marginalizzato. Il mercato ha necessità di distruggere i sistemi comunitari.

L'attualità propone un quadro che aggrava queste lontane prime espressioni. Precarietà e flessibilità che sono pratiche distruttive vengono presentate come il massimo della efficienza e della modernità da cui l'individuo può ricavare ottime, impreviste possibilità di realizzazione.

Ma, conclude efficacemente Iacono: “Essere precari coi capelli grigi è una condanna reale” (p.203).

 

Parte seconda. “Ampliando la critica del Capitale

 

Silvia Federici, La rivoluzione scoppia in casa. Ripensare Marx, riproduzione e lotta di classe

Con piglio deciso l'Autrice elenca una lunga serie di difetti di Marx riguardo all'oggetto in questione. Si può dire che, avendo da pensarne altre mille, questa non gli pareva così urgente e decisiva? L’Autrice invece proprio su questo punto incalza e con ragione, perché oggi il tema può davvero costituire un altro fronte da cui colpire il sistema capitalistico, e che non gli si può regalare.

Dopo un riconoscimento (eccessivo) delle doti di previsione di Marx su alcuni temi (pp.211-2), cominciano le bordate sulla sua incapacità su tanti altri.

“Eppure ..Marx non fu altrettanto avanti coi tempi, Sorprendentemente non riuscì a prevedere..(p.212)” ; “Ma come mai proprio..”(p.213) ; “sottovalutazione”; “ingiustificato ottimismo”; “non anticipò e non approfondi”(p.214); “sottoteorizzazione marxiana della riproduzione”; “presunta posizione neutrale di Marx”; “marginalizzazione delle donne”; “mancato riconoscimento” (p.215); “avrebbe dovuto svolgere una parte fondamentale”; “circoscrive totalmente”; “nessun cenno al contributo del lavoro domestico (p.216);”Marx rimane silente”(p.217);“non troviamo mai discusso in Marx”(p.219);“la visione di Marx non è meno riduttiva”; “Marx non si occupa minimamente delle condotta delle lavoratrici”(p.220); “Se Marx avesse riconosciuto..”(222).

E tutto questo mentre invece, e qui l'accusa è particolarmente forte: “il capitalismo si è sempre dimostrato estremamente attento ai movimenti demografici, regolando rigidamente la capacità riproduttiva delle donne.” (p.219).

Come spiegare questa fila di errori e omissioni etc.? Sono temi esterni al discorso che Marx intende sviluppare? Non lo sono, ma forse erano per Marx, marginali. E questo non gli ha impedito di scrivere il Capitale. Federici invece osserva:” Marx così facendo, “fallisce proprio nel compito di smascherare i veri presupposti dell'economia classica” (p.221).

Accusa che, messa così, non pare sostenibile.

Altra accusa è anche di avere avuto un atteggiamento ottimista sullo sviluppo capitalistico, insomma un cascame di prometeismo. E ancora, “Se Marx avesse analizzato...avrebbe riconosciuto l'esistenza di un'anomalia fondamentale(..), si sarebbe reso conto” (p.227). Opportunismo politico? si chiede Federici (p.228). Certo “ambivalente”, risponde (p.230). Questo spiegherebbe “come mai l'inevitabile rivoluzione predetta da Marx non sia scoppiata “(p. 238). C’è del marcio in Marx., ma anche in chi lo ha continuato. Perciò “dobbiamo ripensare il marxismo e il capitalismo a partire proprio dal processo di riproduzione (.) riconoscendo finalmente come quest'ultimo costituisca il terreno di lotta maggiormente strategico sia nella lotta contro il capitalismo sia per la costruzione di una società libera dallo sfruttamento” (p. 242).

Himani Bannerij: Verso una rivoluzione comunista. Genere e classe nel libro primo del Capitale.

Oggetto del saggio è una “relazione scomoda”, quella tra femminismo e marxismo.

Un dialogo difficile, se non tra sordi. Lo scopo è “il tentativo di esplorare come classe e genere possano essere concepiti secondo una reciproca formazione (p.250).

Il metodo è il “materialismo storico” e solo così,” nonostante le apparenze, non tutte le differenze risultano inconciliabili e, anzi, tra i due termini vi (sia) piuttosto un rapporto costitutivo” (p.252).

Il rapporto tra genere e classe è, si sostiene, dello stesso genere di quello tra produzione e consumo.

“Pensare il genere e la classe come termini dualistici ha avuto implicazioni enormi per la politica rivoluzionaria” (p.254).

“Per capire come si siano sviluppati questi rapporti di classe genderizzati con soggettività attive e passive è necessario soffermarci sul passaggio che portò dal feudalesimo al capitalismo” (p.256).

(Cap, 7, 10, 13 del primo libro del Capitale).

Un approccio marxista nel vero senso, e l'unico che possa fare evitare la caduta astratte e ideologiche. “Sebbene Marx non la metta i questi termini, quella che viene descritta nel libro primo altro non è che una catastrofe in termini di riproduzione sociale e biologica.” (p.259).

Ma, “nel capitalismo, poiché produzione e riproduzione si svolgono spazialmente separate l'una dall'altra - ...- vita e lavoro cominciarono a separarsi dando luogo a due spazi distinti, il privato e il pubblico” (p.260).

“Ebbene è stata questa crisi coeva allo sviluppo del capitalismo, in congiunzione con l'ascesa della classe borghese e dello stato, a produrre i concetti di genere, classe e famiglia per come li conosciamo oggi...” (p.262).

Si è prodotta così “la rimozione delle donne dall'ambito produttivo per relegarle al solo ambito domestico, prevedendo la famiglia come loro specifico ambito. Così produzione e riproduzione hanno preso due strade separate” (p.262). “ecco così che classe e genere venivano separate una volta per tutte” (p.264).

Questi i fatti. Ma Marx non è “stato in grado di mettere assieme la propria descrizione del lavoro e della vita delle donne con il progetto teorico intrapreso nel resto del Capitale” (p.265).

Il contesto è “ambiguo” (p.266). “Come è stato possibile che lo stesso Marx fosse suscettibile di una forma ideologica(..)di pensiero riguardo il lavoro delle donne e la riproduzione sociale?” (p.269).

“Un misto di pragmatismo e di ideologia di genere” (p.271).

La spiegazione è che “Questa lacuna. Deriva dal fatto che le sue energie teoriche si concentrarono nella decostruzione della forma di merce e del valore di scambio che sono peculiari del modo di produzione capitalistico (p.273).

“Persino Marx si ritrova, insomma, intrappolato in una forma ideologica di pensiero” (p.274).

Ma questo non sarebbe poi così grave se vi si fosse posto rimedio. E invece, questa la conclusione: “le questioni relative ai rapporti tra genere e classe, e alla coscienza e al potenziale rivoluzionario delle donne non sono ancora al centro dei programmi comunisti...Di lavoro ce n'è ancora da fare” (p.281).

K. Saito, Marx ed Engels. Un rapporto rivisitato da una prospettiva ecologica

Autore ormai cult. Abbiamo recensito per la rivista Gli Asini di G. Fofi il suo eccellente Ecosocialism (nel n. 78-79 del 2020). Nel frattempo un nuovo lavoro di grande eco.

Negli ultimi decenni siamo passati dall'accusa a Marx di “prometeismo”, sanguinosa e sbrigativa, ad una attenzione meno negativa. Il concetto marxiano di “frattura metabolica” è diventato di uso corrente, e l'interesse nei confronti del Capitale è cresciuto enormemente. Non senza distinguo e perplessità etc.

C'è chi continua a ritenere irrilevante, per quantità e qualità, la presenza in Marx di una problematica ecologica, e chi vi vede, invece, con ironia, nuovo “oppio per il popolo”.

Certo, nella tradizione grande e pesante del marxismo “occidentale” è radicato il sospetto sulle scienze naturali, ritenute, al massimo, un campo coltivato dal solo Engels, che avrebbe lasciato a Marx quello delle scienze sociali. E gli sviluppi poco apprezzabili del “Materialismo dialettico” sovietico, “Diamat”, ha rafforzato tale sospetto.

Tradizione vuole che Marx si sia incaricato della società e della storia, mentre Engels si sia sobbarcato il peso della natura. Ne è risultato un Marx disinteressato alla natura e un Engels colpevole di quel che sarebbe accaduto col Diamat.

Da qui il rifiuto, per insussistenza, di un discorso ecologico di impianto marxista.

La convergenza, nei fatti, dell'urgenza “ecologica” da un lato e della sempre più analitica conoscenza dell'opera di Marx, ha cambiato però questo vecchio scenario.

Saito in questo saggio intende soffermarsi sul rapporto Marx-Engels da una prospettiva ecologica.

Gli autori attuali ai quali fa riferimento sono innanzi tutto J. Bellamy Foster e P. Burkett. Essi sostengono una sostanziale identità di vedute tra Marx ed Engels sulla “frattura metabolica” e hanno conseguentemente utilizzato un impianto marxista per le loro analisi “ecologiche”.

Le conclusioni di Saito sono, invece, che tra Marx ed Engels ci sono delle differenze dal punto di vista ecologico, e oggi i materiali, anche se ancora parzialmente usciti nella MEGA2, fanno chiarezza su questo punto.

Quel che è emerso è l'interesse “crescente” di Marx sui temi scientifici negli anni Sessanta. Cosa di cui Engels non dà conto a sufficienza se non dopo il 1883, il che fa pensare che esistesse, latente o meno, una differenza di vedute tra loro.

“Si è tentati insomma di interpretare sintomaticamente questo silenzio innaturale e ipotizzare che Engels ammettesse tacitamente che l'interesse di Marx per le scienze naturali possedesse un carattere diverso dal proprio” (p.291).

“Il significato più importante del concetto marxiano di “metabolismo” riscontrabile nel Capitale è la caratterizzazione che viene fatta del lavoro in quanto attività mediatrice metabolica fra esseri umani e natura” (p.292).

Il lavoro, scrive Marx, “regola e controlla con la sua attività il ricambio organico con la natura” (Capitale). Ma, questo punto è decisivo, ciò avviene dentro delle “modalità concrete”, storicamente specifiche, sulla base della maniera in cui è organizzata la società (p.292).

Il generale e generico “processo lavorativo” assume nella sua declinazione capitalistica l'aspetto di un “processo di valorizzazione”, specifico del capitalismo. Alla produzione di “valore d'uso” si sostituisce la produzione di “valore”.

“La produzione capitalistica persegue invece una valorizzazione infinita, cosicché il lavoro e la natura vengono riorganizzate completamente da una prospettiva di massima oggettivazione del lavoro astratto” (p.293).

La natura viene trasformata non dal lavoro, ma da un lavoro, “astratto”, specifico del “modo di produzione capitalistico”. Entrambi, natura e lavoro, perciò, dentro quel “modo”, sono sfruttati e sperperati.

“Poiché il valore non è in grado di tenere in considerazione il metabolismo tra esseri umani e natura, la realizzazione di una produzione sostenibile entro i confini del capitalismo non può che scontrarsi di continuo contro barriere insormontabili. Così l'unificazione marxiana della teoria del valore e di quella col metabolismo all'interno del Capitale fornisce una fondazione metodologica per analizzare criticamente il sistema spoliativo rappresentato dal capitalismo” (p.296).

Riguardo al tema della differenza tra Engels e Marx, Saito conclude così:

“Engels non adottò il concetto di disturbo metabolico fra umani e terra illustrato nel Capitale, ma si attenne allo schema precedente dell'antitesi tra città e campagna, declinato nell'Ideologia tedesca. (...) In altre parole non fu capace di afferrare i fondamenti della critica marxiana dell'economia politica successivi agli anni '50 dell'800, laddove questa critica si rivolgeva al modo in cui il metabolismo tra umani e natura finisse per modificarsi e riorganizzarsi tramite la sussunzione formale del lavoro al capitale. Siamo al punto, insomma, in cui la divergenza di vedute fra Engels e Marx da economico-politico diventa prettamente ecologica” (pp.301-2).

Divergenza decisiva che non può essere mascherata. Engels insomma “rimase sostanzialmente alla prospettiva degli anni Quaranta dell'800 rigettando la teoria metabolica di Liebig” (p.302).

Nessuna “rivincita” della natura è ipotizzabile, ma solo un confronto e una organizzazione umana per realizzare “un controllo conscio e attivo sul metabolismo con il loro ambiente” (p.305).

Questa specificità del capitalismo, la sua radicalità, il disconoscimento delle leggi della natura, la sua inedita potenza distruttiva e sperpero”, sono il punto di osservazione dal quale guardare ad esperienze storiche lontane nel tempo e nello spazio, come quelle che altre scienze, come l'antropologia e la storia, offrono. L'interesse di Marx verso la Russia e la sua diversa storia e quello consegnato ai suoi “quaderni antropologici”, dimostra quanto fosse ampio l'orizzonte problematico di Marx. Ed è l'ampiezza ancora più necessaria oggi.

Bellamy Foster J., Il Capitale di Marx e la Terra. Una critica ecologica dell'economia politica

Senza infingimenti l'Autore mette le carte in tavola: “L’ipotesi che avanzerò in questo saggio è che, nella sua concezione più estesa, il Capitale esprima una critica ecologica dell'economia politica” (p.319).

Nel Capitale di Marx c'è il “culmine” di una “critica ecologica dell'economia politica”; in verità già “rintracciabile” in tutta la sua opera. Il culmine di una “critica specificamente ecologica del capitalismo” (p.319).

La cosa è per Bellamy evidente, ed è tempo di prenderne atto, perché “la critica ecologica dell'economia politica racchiusa nel metodo dialettico marxiano potrebbe dimostrarsi cruciale per una prassi rivoluzionaria nell’antropocene” (p.320).

Il Capitale è, inoltre, diverso da qualsiasi altra opera di economia politica per il suo connettersi “con gli ultimi sviluppi scientifici” e soprattutto nel “predicare l'esistenza di condizioni e limiti naturali” (pp.320- 1).

Per Marx “il lavoro e il processo produttivo (,) non descrivono altro che un processo fisico-materiale riguardante la trasformazione della natura e il rapporto umano con esso — in modo dipendente, per di più, con certe inalterabili condizioni naturali” (p.321).

Alla base, nel capitalismo, c'è il dualismo tra valore d'uso e valore di scambio, e quindi, da un lato il semplice processo di produzione dall'altro il processo di valorizzazione del capitale.

Questo è per Marx “la singola e più importante premessa metodologica per calibrare tutta la propria critica all'economia politica” (p.321).

Una “questione direttamente legata al concetto di scambio ecologico iniquo” (pp.321-2).

Il capitalismo è un sistema, un “modo di produzione” che “non sussisterebbe all'infuori di un sistema più universale, quello della natura, con cui interagisce in modo necessario” (p.322).

Fuori di questa reciprocità e condizionamento ci sono l'idealismo da un lato, il meccanicismo dell’altro (p.322).

Già negli anni '50 dell'Ottocento Marx utilizza il concetto di metabolismo, che non è una metafora rubata alle scienze ma una categoria scientifica fondamentale.

L'atteggiamento dell'uomo nei confronti della terra deve essere quello del “custode” come i “boni patres familiae”, responsabili del suo mantenimento e miglioramento: dobbiamo lasciare questa terra almeno come l'abbiamo trovata.

Il capitalismo non ha questo atteggiamento, anzi.

“Un aspetto centrale della sua critica derivato dalla sua analisi ecologica della forma valore, è il riconoscimento di come il processo di valorizzazione capitalistica inteso nel suo complesso sia intrinsecamente distruttivo di ogni valore d'uso naturale, materiale, generando contraddizioni ecologiche e costi sociali sempre maggiori” (p.325).

Gli studi degli ultimi anni di vita di Marx vanno in questa direzione e non sono la prova di un esaurimento o sbandamento, ma “elementi fondamentali della sua critica all'economia politica e della scelta ecologica che questa sembra aver preso con sempre maggiore convinzione” (p. 326).

Quanto alle radici storiche, aspetto decisivo del ragionamento di Marx è che non può esserci proprietà privata se non c'è esproprio della terra dalle mani dei lavoratori della terra. Piuttosto che di “accumulazione originaria” bisogna parlare quindi di “espropriazione”. È qui la precondizione del capitalismo nella sua origine, ed è ancora qui la base del suo dominio mondiale (p.328).

“Nascosto dietro la teoria del valore, e lasciato fuori dalla sua contabilità, vi è un esteso sistema vampiresco che succhia il sangue al mondo” (p.329).

“La teoria marxiana della frattura metabolica, la sua analisi ecologica della forma-valore, e la sua teoria dell'espropriazione e dello scambio ecologico iniquo hanno permesso agli ecosocialisti di integrare più a fondo la propria critica ecologica e politico-economica del capitalismo in quanto sistema” (p.330).

Un movimento che ha arricchito l'ecologia ed ha arricchito il marxismo.

“Le rivelazioni e le riscoperte ancora in atto in merito all'ecologia di Marx e alle sue applicazioni rappresentano una rivoluzione nella comprensione del pensiero marxiano a cui non si assisteva dal ritrovamento dei suoi primi scritti sull’alienazione” (p.331).

“Ogni analisi dell'opera marxiana che escluda la sua comprensione ecologica è tanto debole e inutile nel presente quanto un'analisi che escluda il suo concetto di alienazione” (p.337).

Osservazione addirittura prudente visto quanto c'è in gioco.

Anderson K.-B., Cinque concetti impliciti di rivoluzione

K.B. Anderson si pone fuori dal più tradizionale degli schemi marxisti, in cui le “forze produttive” crescendo spezzano l'involucro dei “rapporti di produzione”, ed evidenzia invece in Marx non uno ma ben cinque concetti diversi di “rivoluzione”. E altrettanti modelli: 1. inglese, 2. irlandese, 3. statunitense, 4. russo, 5. “comunardo”.

Tale varietà prova che in Marx, ben lungi da un'unica immagine meccanica e inesorabile (Prefazione del '59), troviamo una molteplicità reale di strade. In gioco non sono solo capitale e lavoro, ma anche “razza, etnia, colonialismo, stato o il rapporto tra le strutture sociali noncapitaliste e quelle odierne e capitaliste” (p.360).

Si tratta di rinvenirle nel Capitale e, in particolare - questa è la traccia seguita da Anderson - nella sua traduzione francese del '72-5.

Vediamo i singoli casi. Il caso inglese è poco inglese ma in realtà affrontato da Marx ad un livello alto di astrazione. Diverso il caso irlandese. “Qui si allude a possibilità rivoluzionarie che non si limitano in realtà all'Irlanda ma che comprendono la stessa Gran Bretagna, anzi intendono integrare l'una e l'altra battaglia” (p.350). Qui si intrecciano razza/etnia/nazionalismo come componenti di una miscela potenzialmente esplosiva (p.351).

Altro caso è quello americano. “In un certo senso la guerra civile era stata una rivoluzione dall'alto, promulgata dal governo federale durante il conflitto e poi nel sud occupato. (..) Che ha potuto contare su una estesa partecipazione dal basso delle masse afroamericane, libere e schiavizzate, prima durante e dopo la guerra” (p.352).

La Russia: “Se la Rivoluzione russa diventa un segnale per una rivoluzione proletaria in Occidente di modo che l'una faccia da complemento all'altra, la proprietà comune della terra in Russia potrà servire da punto di partenza per uno sviluppo comunista”, scrive Marx in La guerra civile negli stati uniti (p.356). Così nelle bozze di lettera a Vera Zasulich.

La Comune meriterebbe una attenzione speciale non solo per l'elaborazione teorico-politica marxiana, ma anche per le sue connessioni con il primo libro del Capitale: “il libro primo contiene, almeno a livello implicito, un legame con lo spirito antistatale e comunista della Comune” (p. 360).

Tutto meno che il meccanismo delle forze produttive che spezzano i rapporti di produzione.

La crescita economica non è sicura foriera di una società diversa. Crederlo vuol dire essere fermi e fiduciosi alla dialettica della quantità che diventa qualità. Sarebbe impensabile per “...un Marx capace di pensare la rivoluzione in termini di capitale e lavoro ma mai in un modo riduzionista che escluda fattori di razza, etnia, colonialismo, stato...” (p.360).

P. Basso, Se Il Capitale fosse stato scritto oggi

Chiude con un contributo irrituale ma di particolare interesse, chiarezza e, perché no, brio, P. Basso col saggio “Se Il Capitale fosse stato scritto oggi”. L'Autore avanza l'ipotesi che se si dovesse scrivere oggi il Capitale sarebbe meglio incominciare non dalla “merce” (primo capitolo) ma dal cap. 24, cioè la fine del primo libro.

Si chiede Basso: “Perché Marx comincia dalla immane raccolta di merci, cioè dal modo di produzione capitalistico già formato, dal capitale-merce come risultato del processo di sviluppo dei rapporti sociali capitalistici, e non invece dalla cosiddetta accumulazione originaria, e cioè dal punto di partenza del modo di produzione capitalistico? Cosa l'ha obbligato a fare questa scelta”? (pp.363-4).

“Perché una tale ostinazione a imporre ai suoi lettori una partenza che somiglia alla scalata di una parete di settimo grado senza preventivo riscaldamento?” (pp.365-6).

La ragione è che Marx, sostiene Basso, “vuole arrivare a chiudere definitivamente i suoi conti tanto con le dottrine economiche precedenti quanto con l'ultimo grande prodotto della filosofia, il nocciolo razionale della logica di Hegel incorporandone i più alti risultati attraverso un'esposizione della materia economica con metodo dialettico” (p.366).

E fa questo appunto perché considera ancora “vive queste due fonti di conoscenza” (p.366).

E anche, diciamo così, per “fatto personale”. Nel '67 Marx, pur con tutto quello che aveva scritto era sempre un “signor nessuno”. E bisognava scendere in campo, perciò, sul terreno più “nobile”, l'economia politica classica e la logica di Hegel. Bisognava partire dalle “categorie” dell'economia politica classica e giungere ai “sottostanti rapporti storico-sociali” (p.366).

L'altezza della sfida ha determinato il resto: “In questo modo di procedere l'elemento logico del metodo marxiano prevale su quello storico, e i fatti storici sono chiamati in causa, quando lo sono, principalmente per confermare gli assunti teorici” (p.366).

Col risultato, conclude Basso, che, per es. la storia arriva solo al capitolo ottavo, sulla giornata lavorativa.

Quando tutto è pronto “Le è permesso entrare in scena solo dopo che sono state messe a punto e a fuoco le lenti necessarie, ovvero le categorie (esse stesse storiche, però) atte a decifrarla” (p.367).

Scelta “obbligata”, perché? Per i suoi studi, per il suo passato. Dalla metà degli anni '60 però “il baricentro degli ininterrotti studi di Marx si sposta dalle dottrine economiche all'indagine storica” (p.367).

Chiuso col diritto, chiuso con la filosofia, chiuso con l'economia politica. Ora la storia lo prende (p.367). Le formazioni economiche precapitalistiche, le indagini antropologiche.

“Ciò detto - conclude Basso — vengo alla questione: avrebbe senso oggi, nell'esposizione critica di ciò che il capitale è, partire ancora una volta, come nel 1867, dalla merce e dalla sua scomposizione, da quel tipo di fenomenologia? La mia risposta è: decisamente no. Per la semplice ragione che la duplice battaglia con l'economia politica e gli eredi/dissipatori del pensiero di Hegel, fondamentale nel momento in cui fu data, appartiene al passato. É un capitolo chiuso” (p.368).

E qui, forse, Basso è un po' troppo disinvolto: “L’economia politica ufficiale ha perduto, non da oggi, ogni possibilità di rivendicare lo statuto di scienza” (p.368). E l'esempio scelto è Hayek. Troppo comodo. Non finisce lì, come non era finita con Keynes (p.369).

Quanto alla filosofia che sarebbe “in coma profondo”, il bersaglio scelto è Heidegger. Anche qui, troppo comodo; la filosofia non finisce con Essere e Tempo (1927).

Sintetizzando: “Al 2017 l'esposizione del libro primo, questa è la mia tesi, dovrebbe cominciare con il cap. ventiquattresimo, quello sull'accumulazione originaria... (p.371) privilegiando — nel suo punto di partenza - il metodo storico su quello logico”.

Ciò “consentirebbe di vedere che per Marx il terreno di formazione del modo di produzione capitalistico è fin dagli inizi mondiale, l'Inghilterra, nello stesso tempo l'Irlanda, le Indie, la Cina etc. (p.371). Cosa di cui, comunque, nessuno può dubitare.

“In secondo luogo. quanto il punto di partenza sia stato la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro e la dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale” (p.372). Il saccheggio di ieri è quello di oggi.

In tutta questa “storia mondiale si staglia nitida la sanguinaria figura-chiave dello stato, a demolire anticipatamente la sfacciata apologia della libera iniziativa propria del pensiero neoliberista” (p.374). Senza lo stato, niente capitalismo.

Sul tema della “separazione” si potrebbe dire che, per esempio, è il percorso logico fondato sul concetto di lavoro “vivo” a consentire l'individuazione “storica” della “separazione” tra lavoro e mezzi di sussistenza.

Se vogliamo esporre storicamente il capitalismo, si può saltare l'inizio sulla merce, in prima battuta, secondo necessità didattica; ma se vogliamo esporre Marx non se ne può fare a meno. Se eliminiamo dal racconto la merce eliminiamo anche la “forma-valore” e il feticismo. E che ne facciamo degli altri tre libri, se nel terzo ci si avvicina “per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società”? (Libro III, cap. 1 p.53, tr. Boggeri). A ridosso della storia?

La proposta di Basso se è didattica è ovvia, se è scientifica è assurda. Forse la S. ra Wollmar ne sarebbe contenta, e anche tanti lettori; Marx però brontolerebbe.

 

Considerazioni finali

L'idea che il tema “ecologico” sia oggi” moda” come si credette “moda” l'alienazione negli anni Sessanta, significa scambiare la cosa per la sua ombra. Non era moda quella, né lo è questa. Entrambe sono invece” modi” ‘di leggere Marx e l'incompletabile “Capitale”.

Cominciamo allora ricordando che ciò che emerge oggi chiaramente, dal lavoro di MEGA2 e degli studiosi, in maniera convergente, è che il Capitale è un cantiere aperto; e, crediamo, tale sarebbe rimasto — ad un più alto livello di maturazione e chiarezza - anche se Marx fosse vissuto ancora per qualche anno. Avrebbe certo spostato la méta ancora più avanti, perché quella è la natura del suo pensiero.

La novità quindi si chiama MEGA2, e perciò, ancora Marx. E gli Exzerpte di Marx degli ultimi anni non sono fughe in avanti, divagazioni, ma necessità di andare dietro ad un continuo, oggettivo, allargarsi dei temi. Ma questo non è ovvio, naturale, Perché è, invece, l’impostazione teorica di Marx ad aprire sempre nuove strade.

Il grado di apertura di un sistema filosofico, infatti, non è “dato”, è una “costruzione”. Quello di Marx, che comincia con una rottura già nel '43, continuerà ad estendersi quaranta anni dopo col “Capitale”, incompiuto e non completabile. Ce ne siamo fatti una ragione.

Un nuovo Marx è uscito fuori dal lavoro, ieri di Engels e di Riazanov e oggi, di MEGA2.

Se ha potuto estendersi dalla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1843) ad un primo brusco impatto con la filosofia hegeliana (Fenomenologia dello Spirito) e l'economia politica classica (Manoscritti del 1844), fino alla “concezione della storia”, e poi allo smontaggio-rimontaggio del sistema capitalistico, è anche perché la macchina concettuale che ha costruito “necessita”, ha fame, di questi lunghi percorsi e attraversamenti, e quando tocca terra si rafforza.

L'ambiente, quindi, è un tema che non va colonizzato e invaso ma preso in carico da Marx e dal suo apparato concettuale. Marx è figlio ed erede di una tradizione culturale che ha in Hegel il suo più illustre rappresentante: Idea-Natura-Spirito.

Pertanto, il tema natura, ambiente, ecologia non è un terreno sul quale trasciniamo a forza un Marx riluttante: quel rapporto è elemento fondamentale nella sua formazione giovanile.

Secondo punto, la critica marxiana al capitalismo è una critica alla sua non-naturalità e disumanità. Il capitalismo sperpera natura e uomo. Superarlo non è la fine della storia, ma certamente l'inizio di un'altra storia.

E, a proposito di metafore. Nessun prometeismo, sciocchezza e termine infelice (Prometeo è il “previdente”) di chi magari ha praticato “robinsonate”.

Azzardiamo. La stessa ragione che rese a Marx incompletabile la propria opera è quella che la rende viva a noi oggi. Il suo essere un pensiero vivente, capace di penetrare la realtà storica in tutti i suoi aspetti materiali e culturali. Vi leggiamo l'ispirazione totale hegeliana degli anni giovanili.

È un concetto, quello di capitalismo - modo di produzione storicamente determinato - a mediare tra ecologia e marxismo. Con questo il marxismo si apre alla natura e l'ecologia si radica nella storia.

Add comment

Submit